Ulisse legge

Oggi in quel di Uboldo si è tenuto il secondo appuntamento del Laboratorio di Lettura. Ecco il report!

PARTECIPANTI: 6
TESTI LETTI:
“Faticando insieme anche piacevolmente” (autori vari)
“Sto rifacendo la punta al pensiero” (V. Magrelli, da “Ora serrata retinae”)
“Il cacciatore di aquiloni” (K. Hosseini)
“Canto notturno di un pastore errante dell’Asia” (G. Leopardi)
“L’abbigliamento di un fuochista” (F. De Gregori)

La serata si apre con Lino che propone la lettura di alcuni “divertissement” contenuti nel libretto “Faticando insieme anche piacevolmente”. Si tratta di alcune topiche raccolte sui luoghi di lavoro.
La risata, in questo caso, nasce spontanea. Gli strafalcioni diventano letteratura comica perché calati in un contesto particolare che esalta, carica, trasforma l’errore grammaticale o la buttata dialettale.
La maggior parte dei presenti ha fatto esperienza di questa “letteratura minima”, nella quale la piccola frase, detta così senza pensare, è in grado invece di raccontare una storia, una vita. E quanto siano comuni queste storie e queste vite lo testimonia il fatto di trovarsi lì a raccontare ognuno i propri aneddoti, tutti piacevolmente legati dal tema del “collega”.

Luca ci regala una poesia di Valerio Magrelli, autore sconosciuto ai presenti. La poesia “Sto rifacendo la punta al pensiero” è di una forza incredibile. Tutta giocata sulla metafora della miopia, che sfocando i contorni degli oggetti costringe il pensiero a soffermarsi maggiormente sopra di essi per cogliere gli enigmi che celano.

“La miopia si fa poesia,
dovendosi avvicinare al mondo
per separarlo dalla luce.”

La poesia diventa uno sfocare l’oggetto del pensiero per farne emergere gli enigmi che cela; quindi un avvicinarsi ad esso per rimetterlo a fuoco. È la “prodigiosa difficoltà della visione”, ottenuta grazie ad una riflessione a cui occorre “fare la punta” e condotta da “occhi che si consumano come matite”.

Pinuccio ci trascina in Afghanistan, attraverso alcune pagine del libro “Il cacciatore di aquiloni”.
Pinuccio concentra la nostra attenzione sui discorsi che occorrono tra il protagonista del racconto (appartenente alla classe dominante pashtun) e il proprio servo Hassan (un “hazara”, ovvero membro della classe di servitori).
Poche frasi riescono a restituire due cose: anzitutto la robustezza e la dignità del rapporto servo/padrone, temprata dalla cultura afghana e così lontana dal modus vivendi occidentale; poi, il vero rapporto di valori tra servo e padrone, basato sulla personalità dei due. Hassan è sì servitore, sì illetterato, ma è sagace, arguto, puro. Il padrone, invece, non si trova a suo agio in quella veste e quasi rifiuta l’eredità della sua casta.
Due pagine sono bastate per piegare lo spazio ed il tempo e trascinarci in un luogo che sembra millenni lontano dall’Italia contemporanea.

Dante scomoda un gigante della letteratura italiana: Giacomo Leopardi.
Il nostro omonimo del “Sommo Poeta” esordisce così: “Questa è una poesia da leggere insieme.”
Quindi parte a recitare, con quel suo accento toscano che tanto restituisce a questa canzone. Terminata la lettura, Dante ci invita a considerare le pause e la punteggiatura usata dal poeta.
“Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai
silenziosa luna?”

È già il preludio di un faccia a faccia, quasi piccato, tra il pastore e l’astro notturno.
E così via, rileggendo e fermandosi ad ogni interruzione. La poesia ridiventa il monologo che è stato concepito. E lo sfondo pessimista esalta ancora di più questo confronto monodirezionale.
“E quando miro in cielo arder le stelle;
dico fra me pensando:
a che tante facelle?
Che fa l’aria infinita, e quel profondo
infinito seren? che vuol dir questa
solitudine immensa? ed io che sono?”

Sembra di vedere concretizzarsi quel “dolce naufragare” che appunto ne “L’Infinito” il poeta sublima.

Infine, io mi trovo a proporre un brano di un “poeta contemporaneo”, Francesco De Gregori.
“L’abbigliamento di un fuochista” mi commuove alle lacrime. La vicenda si svolge alla partenza del transatlantico Titanic. In pochissime strofe, il cantante riesce a trasmettere immagini, a ricostruire luoghi, storia e psicologia dei due protagonisti: una madre che, da terra, vede il figlio partire emigrante.
Ed eccolo lì il ragazzino, stretto al bavero della sua giacchetta, con i pantaloni consumati dal lavoro,

Eccolo lì, sul ponte della nave, affacciarsi dal parapetto e salutare la madre con il berretto.
La madre è preoccupata; come non potrebbe? Gli ha comprato delle scarpe nuove e gli ha regalato qualche spicciolo, raccomandandosi di tenerselo ben stretto nella cintura. Di questi tempi la gente non ha più paura nemmeno di commettere il sacrilegio del furto.

Ma dove vuoi andare, figlio mio? Qui hai una casa, una terra, una famiglia. Sei qualcuno. Nella grande America, invece, sarai una faccia tra le facce. Senza progetti, mendicante d’affetto. Ma tu ora te ne sei andato. È ora di pensare agli altri ragazzi…

Tutte queste considerazioni sono però bilanciate dal pensiero del figlio. Mamma, tu ti crucci per me, per la mia incolumità, per il mio benessere. Ma la vita è dura ovunque, al paese, su questa nave, in America. Ti preoccupi per i quattro soldi che mi hai dato, quando la miseria si sta perdendo la mia intera giovinezza. Sarò straniero in America quanto lo sono qui: senza futuro, senza progetti, senza cultura. Affido il mio destino a questa nave.
“L’italiano non so cosa sia; eppure se attraverso il mondo non conosco la geografia.”

Che dire di più? Prossimo incontro, giovedì 20 Dicembre.
Portate il panettone!

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