L’acchito

L'acchitto, di Pietro Grossi

L'acchitto, di Pietro Grossi

Nella Poesia Epica l’irlandese Patrick Kavanagh conclude la sua riflessione su localismo e universalità di un tema evocando nientemeno che il fantasma di Omero il quale per fugare ogni suo dubbio afferma testualmente “io in fondo ho fatto di un bisticcio locale un Iliade”. Come può risultarci utile questa citazione? Procediamo con ordine, anzi: ricominciamo. In queste ultime settimane riferendosi dell’ultimo romanzo di Pietro Grossi “L’acchito” (Editrice Sellerio), molti recensori hanno rispolverato la desueta e a volte ostentatamente schifata categoria di epica, giustapponendole, bontà loro, inevitabili cautele in forma di aggettivo del tipo “locale, minimale” e via dicendo. Proviamo allora a sfogliare l’Acchito, seconda opera pubblicata da Sellerio che già aveva dato alle stampe la precedente raccolta di Grossi, quel “Pugni” che arrivò lo scorso anno addirittura in finale allo Strega.

La situazione di questo romanzo è quantomai locale: il set è la Toscana e un suo paese in particolare; la vita raccontataci è quella di un addetto alla pavimentazione delle strade, realizzata con i ciottoli secondo una annosa e riverita tradizione; il motivo narrativo è il gioco del Biliardo nella cui esattezza il protagonista cerca quella rassicurante protezione che pratica anche nel disporre le pietre per le stradine del borgo. Poi ovviamente accade il fatto che mette in moto la storia: il Comune decide di passare dalle pietre all’asfalto, Dino decide di lasciare questo nuovo lavoro alienante e di procacciarsi da vivere con la propria abilità di giocatore. Accade poi molto di più ma in questa sede non ci dsi deve soffermare troppo sulla trama. Ci interessa invece dire altre cose: che lo stile di Grossi. ad esempio, è compunto, lieve, la scrittura è garbata e molto pudica nel proporre ogni tanto qualche dialettismo, qualche costrutto più articolato, un aggettivo di spessore puiù ampio. L’acchito in fondo ci parla attraverso le cose e non di cose. È la vita che si racconta senza essere troppo descritta. Dov’è allora la cifra del’autore che ci consente, secondo noi in maniera assolutamente legittima, di attribuirgli il fatidico crisma dell’epica? Grossi narra giocando a sparire. Senza affettare un distacco positivista, ci fa sentire il suo e il nostro agio nell’occultarsi in mezzo alla narrazione; e il racconto dell’Acchito è proprio così: piano, scorrevole, atteso; i personaggi sono tanto credibili quanto improvvisamente sorprendenti in un gesto, in un’alzata di spalle in una singola parola che spezza la normalità del discorso. E questo è un modo di fare davvero l’epica senza programmaticamente deciderlo. Senza pensare troppo ai codici, senza preoccuparsi di ostentare davanti al lettore un vissuto così marcatamente locale e facendolo invece automaticamente apparire, così come si fa con certe immagini in 3-D che ci si presentano per bene dopo aver allenato l’occhio ad uno sguardo assolutamente normale ma solo appena appena più obliquo. L’Acchito allora è il racconto epico di come la vita presenta il conto ad una normalità e di come la persona umana riesca nonstante tutto a preservare e preservarsi qualcosa: qualcosa di misterioso nascosto innato eppure assolutamente evidente econdivisibile con altri destini. Stavolta, allora, non ci sarà bisogno di evocare fantasmi o postmoderne iliadi: basta leggere con questo sguardo che non si ferma alla superficie ma che in realtà non ha bisogno di cercare chissà quali nessi e segreti: Concentrandosi se li trova davanti.

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