Viaggio attraverso l’Eneide X

Il canto si apre con il concilio degli dei sull’Olimpo, sotto la presidenza di Giove, il quale, dolendosi della guerra scatenata tra Italici e Troiani, rivolge un invito, mirato a Giunone, a desistere dalle ire. Risponde Venere, rammaricandosi per la guerra che minaccia i Troiani, mentre Aeneas ignarus abest: ignarus et absit (v. 85), pur dopo tante assicurazioni divine sul destino che attende lui e i suoi compagni in Italia. Ella ricorda tutte le azioni a loro ostili provocate da Giunone e prega Giove che almeno Ascanio sia salvo. Giunone replica vivamente adirata. Ella getta su Enea la colpa di essersi allontanato dal campo, grida che i Latini hanno tutte le ragioni di difendere la loro terra contro gli invasori,  e conclude col dire che la causa delle sventure troiane è stata proprio Venere, che ha provocato, con l’oltraggio di Paride a Menelao, la guerra degli Achei contro Troia.

Morte di Pallante

La morte di Pallante – Miniatura da un codice del Roman d’Enéas (sec. XII) – Comune di Bologna

I celesti commentano in vario modo, mormorando tra loro, le parole delle due dee, ma Giove chiude la disputa (e al suo parlare tutto tace, cielo terra aria mare) dicendo che per oggi farà sì che la battaglia segua il suo corso, lasciando vincere quelli che si mostreranno più valorosi: il Fato –aggiunge- troverà da sé la sua via.
A questo punto riprende il racconto della battaglia, interrotto alla fine del canto precedente. I Rutili rinnovano l’assalto contro il campo troiano, mentre i Teucri resistono fermamente, grazie soprattutto all’esempio di Ascanio, in mezzo a loro a capo scoperto.
Enea intanto viene lungo il Tirreno al comando dell’armata etrusca, dopo aver concluso l’alleanza per la quale, secondo il consiglio di Evandro, si era recato in Etruria. Sono 30 navi, di cui vengono nominate le sette ammiraglie, comandate rispettivamente da: Massico, coi guerrieri di Chiusi e di Cosa, Abante, con gli armati di Populonia e dell’Elba, Asìla, coi Pisani, Astìr, con quelli di Cere, del Mugnone, di Gravisca e di Pirgo, Cupavone, coi Liguri ed infine Ocno e Auleste con due navi di Mantovani. Ed ecco le Ninfe che rano state le navi di Enea venirgli incontro, nella notte, per mare; fanno corona alla nave del comandante e una di queste, Cimodocèa, lo informa della loro metamorfosi; poi gli dice come il campo sia stretto d’assedio e lo incita ad affrettarsi. Ella stessa imprime un corso più rapido alla sua nave e più veloci seguono anche le altre. Apprese queste notizie, Enea eleva preghiere a Cibele, poi ingiunge ai suoi di disporsi per lo sbarco che sarà una battaglia. Giunto in vista del campo, leva alto lo scudo; lo vedono prima i Troiani poi gli Italici. A questo punto, pur nel generale sgomento dei suoi, Turnonon si perde d’animo, e si appresta a portare subito parte delle sue truppe sul lido, per impedire o almeno rendere più difficoltoso lo sbarco. Tuttavia Enea, grazie ai ponticelli, riesce a far scendere a terra tutti i suoi. Tarconte invece, il capo etrusco, fa spingere addirittura le navi sul lido, come primo atto di guerra contro quella terra ostile; tutte le altre imbarcazioni approdano, mentre la sua soltanto s’incaglia e si sfascia. Allora Turno lancia tutte le sue schiere contro i sopraggiunti e la battaglia infuria. Enea fa grande strage di Latini, tra i quali uccide due dei sette fratelli che gli erano mossi incontro; accorrono Aleso e Messapo e a loro volta respingono gli Etruschi; le due parti a vota a volta avanzano e retrocedono.
Pallante intanto, in altra parte, rianima i suoi cavalieri Arcadi che, appiedati, iniziavano a cedere; uccide prima Lago, poi molti altri, tra cui Reteo. Allora viene alla riscossa l’italico Aleso, capo degli Aurunci, che però è ucciso da Pallante. Così, da questa parte, la battaglia infuria, con vicenda alterna. Turno, allora, interviene contro Pallante per mettere fine alla strage che questi sta compiendo a danno dei Latini e pronuncia parole minacciose. Replica Pallante con nobile coraggio e poi lo affronta.- Invocato Ercole, che però non può aiutarlo, per cui piange ed è confortato da Giove con nobili parole, scaglia l’asta e poi subito sguaina la spada. L’asta colpisce a sommo la corazza e punge appena il corpo di Turno; questi allora, irridendolo, avventa la propria asta, che, attraversando tutto lo scudo, trafigge il petto del giovane guerriero avversario. Turno esulta sul caduto e gli toglie il cinto d’oro scolpito, pur permettendo che il cadavere venga reso al padre. Alla notizia della morte di Pallante, Enea arde di dolore e d’ira e si apre a furia la via tra le schiere, cercando Turno. La sua è una corsa sterminatrice: prende vivi otto giovani da scrificare sul rogo di Pallante, poi uccide Mago, Emonide, Anuxure, Tàrquito e molti altri, simile a Briareo, il mostro dalle cento braccia; nella sua furia uccide pure i due fratelli Lùcago e Lìgere. A questo punto, ecco erompere dal campo e unirsi agli Arcadi e agli Etruschi, i Troiani condotti da Ascanio.

Anche Giove intanto, nel Cielo, si fa beffe di Giunone, onde ella, ormai rassegnata all’imminente fine di Turno, chiede pietà per il suo protetto. Risponde Giove, acconsentendo soltanto che ella ritardi mora praesentis leti (v.622) la morte dell’eroe rùtulo. Allora Giunone, pronta, scende in terra e foggia un’ombra che rassomigli in tutto ad Enea. Contro questa si avventa Turno, ma essa si ritrae e fugge e, giunta alla spiaggia, sale su una nave lì ormeggiata. Turno la insegue; ma, ecco, Giunone spezza gli ormeggi e fa partire la nave, e la vaga immagine si innalza e dilegua nel cielo. Riconosciuto l’inganno, Turno si dispera, tenta di gettarsi in acqua con il proposito di uccidersi. Ma lo frena Giunone che lo fa giungere con la nave ad Ardea.
Sottentra ora nella battaglia, al posto di Turno, Mezenzio, che da solo regge tutte le forze etrusche, come scoglio contro le onde, come cinghiale circondato da cacciatori che osano colpirlo solo da lontano, come leone digiuno avido di preda. Fa un’enorme strage; fra gli altri uccide Acròne e Oròde, mentre anche altri fanno grande strage intorno a lui. La battaglia sembra incerta, da una parte e dall’altra si combatte e si muore, ma nessuno fugge. Gli èi guardano dal Cielo, impietositi per quell’inutile ira da entrambe le parti. Ora Enea muove contro Mezenzio, il quale, vedutolo, gli scaglia l’asta; questa però colpisce un altro, l’àrcade Antore. Enea vibra la sua lancia e ferisce il nemico, poi con un balzo gli è sopra con la spada. Alla vista del pericolo che corre suo padre, Làuso si slancia in avanti e manda a vuoto il colpo di Enea. Nello stesso tempo insorgono i suoi compagni per respingere l’eroe troiano, ma questi, dopo aver inutilmente esortato il giovane a ritirarsi, lo trapassa con la spada. Poi geme sul cadavere e, rinunciando a spogliarlo delle sue armi, egli stesso lo solleva da terra. Mentre Mezenzio, in disparte dalla battaglia, stagna il sangue della sua ferita, pur continuando a chiedere di suo figlio Làuso, questi gli viene riportato morto sopra lo scudo. Il suo dolore scoppia in espressioni di tragica umanità: egli maledice tutto il male compiuto, grida il suo dispiacere d’essere salvo, egli padre, grazie alla morte del figlio. Afferma con vigore che egli, non Làuso doveva morire, per cui morirà. Benché ferito, si alza, balza sul suo cavallo, che con lui vorrà o vendicare Làuso o morire, poi chiama Enea, gli gira intorno tre volte, in corsa vertiginosa, avventando contro di lui aste su aste. Enea, colto il momento opportuno, gli colpisce con la lancia il cavallo; cavallo e cavaliere stramazzano al suolo. Ed ecco, ora Enea gli è sopra con la spada. Le ultime parole di lui, che era venuto per morire, sono nobili e fiere; infine chiede che gli sia concesso d’essere sepolto accanto al figlio. Poi coraggiosamente offre la gola alla spada nemica. E con la rappresentazione di questa vigorosa figura umana, che fa di Virgilio un grandissimo poeta, si chiude il canto.

A cura di Francesco mari

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