Ciascuno di noi dovrebbe essere un seme
Ciascuno di noi può dare frutti di ogni genere: progetti, amicizie, riflessioni, intuizioni interiori, simpatie…
Ma non è così scontato essere seme. Per esserlo c’è bisogno di una condizione fondamentale. Cerchiamo di capire qual è.
A volte noi ci consideriamo come persone che hanno o non hanno; persone che possiedono cose (qualsiasi cosa: soldi, macchine, libri, pentole,…) e che possiedono qualità (intraprendenza, pazienza, capacità creativa…) oppure persone che non le possiedono.
Se le possediamo siamo contenti. Se non le possediamo vogliamo ottenerle. Chi di noi, se non è intraprendente, brillante, paziente, creativo, non vorrebbe esserlo?
E tutto questo può essere cosa buona, certo, al di là di ogni inutile dualismo tra avere ed essere. Ma basta?
Non deve bastare. Non non siamo solo gente che possiede e accumula o non possiede e desidera. Noi siamo chiamati ad essere amministratori, gente capace di usare o, meglio, di “mettere a frutto” ciò che possiede.
Un seme stretto in mano è talmente protetto che ci marcisce davanti. Noi non siamo chiamati ad essere bodygards del nostro patrimonio umano. Siamo chiamati ad essere investors. Quante volte noi diventiamo semplicemente delle “guardie del corpo” di noi stessi? Il creativo non è mai “guardia del corpo”. Sono veramente creative le persone che non si curano affatto di tutelare, di conservare se stesse, la propri immagine, la propria vita, il proprio talento. Sono creative le persone per le quali “essere” significa investire e confidare; le persone per le quali to be significa to trust.
A questo punto scatta una domanda: investire a che pro, se poi tutto finisce? Non c’è niente da fare: la domanda si impone. Si trovano persone capaci di investire cose, talenti e qualità, ma a volte esse non sanno perché lo fanno. Il loro investimento non ha orizzonte o, se ce l’ha, a volte esso è angusto.
Qualche settimana fa ho letto un bel libro scritto da Tony Hendra, famoso uomo di spettacolo inglese legato al gruppo dei Monty Python. Il romanzo si intitola Father Joe, cioè Padre Joe (edito da Random House in USA e da Mondadori in Italia). Hendra parla della sua amicizia con un monaco benedettino. Vi è un passaggio breve che condensa il segreto dell’insuccesso, il “nocciolo dell’arroganza moderna”: “Conta solo la mia vita. La mia vita è “per sempre”. Il tempo che l’ha preceduta e il tempo che la seguirà non esistono. Tutto ciò che importa deve accadere durante la mia vita”. I nostri investimenti non funzionano perché sono tutti a breve scadenza. Sono tutti “pronti contro termine”. Sappiamo quando rivedremo i nostri titoli e pure a quanto. Col senso della vita non funziona così. La misura del senso della vita è traboccante e richiede di vivere nella possibilità (I dwell in possibility, ha scritto Emily Dickinson).
Senza un cuore capace di queste dimensioni di possibilità la nostra vita ci morirebbe in mano e così il suo senso. Il cuore chiede di avere un orizzonte grande con l’Oceano e vasto come le praterie. I buoni libri si distinguono dagli altri per la dimensione e la profondità del loro orizzonte.
Chi ci darà questo orizzonte? Chi ce lo farà vedere?
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