Marc Dugain: cosa ci rende umani?
«Posto riservato ai mutilati ed invalidi di guerra»: è il monito che, dimenticato, occhieggia ancora su tram e autobus. Tanto per ricordarci, anche nella ressa quotidiana sui mezzi di trasporto, che la guerra è meno distante di quanto piace credere. Ma veniamo al romanzo di Marc Dugain, vincitore di ben 18 premi letterari. Francia, 1914. Il ventiquattrenne Adrien Fourner sta partendo per il fronte quando incontra la giovane Clémence. Si amano con la voracità della disperazione. Pochi giorni dopo i bei tratti di cui la ragazza si è infatuata vengono spazzati via. Durante la sua prima perlustrazione come ufficiale, una scheggia di granata gli ha polverizzato la mascella superiore, parte del palato, il naso. Adrien perde gusto e olfatto. Lo nutrono dalle narici. Non può parlare per quasi un anno. Adrien trascorre il resto della guerra – quattro anni e otto mesi – nella «prigione bianca», ovvero il reparto maxillofacciale riservato agli ufficiali sfigurati: una vasta camerata candida con le sbarre alle finestre.
Il cammino per la riabilitazione sembra un’interminabile sconfitta, per un ragazzo che non può più parlare normalmente o nutrirsi senza sbavare. Eppure il clima ospedaliero è composto. Forse perché nella stanza degli ufficiali non ci sono specchi. Lì ogni paziente diventa lo specchio infranto del proprio vicino di letto. Così, scrutando l’uno le pieghe dell’altro, Adrien conosce il capitano Henri de Penanster, che ha perso mezzo mento e un’orbita oculare; l’aviatore Pierre Weil, dal volto ridotto a una chiazza di caramello bruciato; e Marguerite, l’infermiera che ha pagato caro l’aver prestato servizio al fronte.
La percezione dell’orrore che li ha sfigurati comincerà solo con l’intrufolarsi del mondo nell’ovattato limbo ospedaliero. Amici e familiari in visita non riescono a nascondere lo smarrimento e un’indomabile ripugnanza. I ricoverati apprendono la propria deturpazione nel peggiore dei modi: cioè vedendola riflessa nei tratti deformati dalla paura di coloro che amano. Qualcuno non resiste allo spavento che ora incute alla propria donna o ai suoi figli, e la fa finita. Ecco perché la «prigione bianca» ha le sbarre alle finestre. Ma cosa succederà con l’arrivo della pace, quando i ricoverati saranno costretti a uscire dall’ospedale e affrontare ogni giorno l’implacabile guerra degli sguardi altrui?
La stanza degli ufficiali (Vertigo, pp. 156, € 14) è un romanzo duro eppure mai dolente. Al contrario, i suoi quattro protagonisti impareranno a gustare la vita con un’intensità nuova nell’esperienza della comunione e alimentando la propria «fame di presente». Adrien e i suoi amici dichiarano guerra alla commiserazione. Ed è questa la scelta vincente del romanzo, che rinunciando a ogni introspezione non fruga impudicamente negli intestini del dolore. La misura dell’eroismo – anche stilistico – del libro sta nella conservazione della dignità umana, nella sua franca e quasi brutale asciuttezza, in una descrittività rispettosa, precisa eppure all’occorrenza ellittica (esemplari i cenni sulle tecniche di trapianto a inizio secolo). È all’insegna di questa conservazione umana che nasce l’alleanza tra il caparbio e ironico ebreo Weil, il non credente Adrien – che dal nonno ha appreso un vigoroso amore per la vita – e il cattolico Penanster, un aristocratico riservato quanto coraggioso. Il loro gruppetto diverrà un punto di riferimento per tanti, sfigurati non tanto nel corpo, quanto da un’esistenza senza prospettive. «Ciò che differenzia l’animale dall’uomo è che l’animale non lascia spazio alcuno al futuro» osserverà Adrien; ciò che ci rende umani, in altre parole, è la speranza. La stanza degli ufficiali è un inno alla vita che attraversa una valle di lacrime per lasciare coraggiosamente l’ultima parola alla felicità.
[Articolo parzialmente pubblicato su Famiglia Cristiana n. 24/2008]
Ti sono grato per questa bella recensione, non vedo l’ora di leggerlo (e probabilmente di farne una puntata della prossima edizione di CultBook).
Mi colpisce il fatto di averla letta proprio questa mattina, visto che tra un’ora sarò a casa di Elena Bono per una visita alla grande scrittrice (misconosciuta) che è entrata così fortemente nel mistero del dolore che fa scoprire all’uomo in guerra, al soldato, la guerra che si porta dentro, l’unica da combattere fino in fondo. Ciao!
Stas’
L’uomo, nella consapevolezza della sua “umanità”, si è da sempre interrogato sulla difficoltà di accettare la degenerazione fisica: possiamo risalire al Filottete (409 a.C.) di Sofocle. L’humanitas è stata ed è anche questa capacità di accettarsi e accettare, di aver compassione (atteggiamento che gli animali non hanno) e di riuscire in qualunque condizione a vivere con dignità.
Talvolta, per ritrovare il nostro più intimo volto, dobbiamo prima perdere… la faccia. Davanti agli altri. Davanti a noi stessi. Essere spogliati, derubati (questo fa l’inescusabile sofferenza) di quei lineamenti attraverso cui ci riconoscevamo.
Curioso, proprio oggi su “Il Venerdì” di Repubblica c’è un lungo articolo che racconta la tragica storia dello scrittore francese Romain Gary (poi Emile Ajar) che si suicidò dopo una vita di grandi successi, avventure e amori celebri. Il suo problema, racconta Bernardo Valli che lo incontrò a Roma negli anni ’50, era l’invecchiamento. Oggi Neri Pozza ha pubblicato il suo “Biglietto scaduto”, la storia di un cinquantenne innamorato di una giovane brasiliana con cui non riesce ad essere “virile” come era un tempo, la sua crisi e il suo desiderio di suicidio.
Gli articoli di “Repubblica” dove si svelano i retroscena (spesso meramente scandalistici, morbosi) delle vite degli scrittori non mi piacciono perché di letteratura non si parla (è solo una sorta di “Novella 2000” letteraria) e poi c’è sempre la tendenza a creare il mito (sopratutto dell’artista che si suicida), ma darò un’occhiata al libro di Gary pubblicato da Neri Pozza…