Venezia 70 – UNDER THE SKIN di Jonathan Glazer
Dentro Under the Skin ci sono alcune delle immagini più belle viste fin’ora al Festival. Al suo terzo film, il regista britannico Jonathan Glazer decide di mettere in scena in modo visionario un plot ardito e originale, tratto dall’omonimo romanzo di Michel Faber, scegliendo volutamente, a differenza del libro, di non spiegare niente. Il film comincia con la creazione architettonica di un occhio umano e del suo sguardo, quasi una genealogia della visione che mira da subito alla decostruzione geometrica dell’immagine cinematografica e rimanda al cinema astratto di Eggeling, Richter e Ruttmann. Alla costruzione dell’occhio segue l’educazione al linguaggio. “Fail, fear, feel, film” recita una voce femminile fuoricampo, imparando come un mantra il vocabolario di un mondo a sé estraneo. Ed è subito metacinema: la paura di non sentire/provare alcuna emozione della protagonista, ma anche quella del fallimento, quella di Glazer che impiega tre anni per montare un film ambizioso, complesso e coraggioso.
Nonostante gli iniziali spunti visionari, Under the Skin non è un film che rifiuta la narrazione, anzi. Il racconto si pone da subito in una dimensione dialettica con lo spettatore, costringendolo alla faticosa attività di percezione critica e di interpretazione dell’immagine. Da alcune luci che scendono dal cielo sopra i tetti di palazzoni popolari della periferia scozzese deduciamo quasi immediatamente la prossimità di un’invasione aliena. Ed è proprio Scarlett Johansson, con il suo corpo morbido e subito nudo, che invade la scena e il mondo circostante. Si presenta come una donna bella e affascinante che seduce uomini soli per le periferie desolate della Scozia. Li invita subdolamente a salire sul suo camioncino, per poi portarli in un luogo misterioso dove, nudi ed eccitati, camminano dietro di lei che si spoglia lentamente, scomparendo nel sottosuolo nel tentativo di raggiungerla ed averla. Ma Scarlett è irraggiungibile e intoccabile, e l’ipnotica manifestazione ultraterrena del desiderio sessuale maschile è anche la trappola definitiva per questi corpi disperati, risucchiati in un mare paludoso, denso e nero come la fine del mondo, su cui solo lei può camminare in superficie mentre gli altri, noncuranti e magnetizzati, affondano. Glazer, pertanto, decostruisce il corpo umano nei due elementi essenziali, la carne e la pelle. La carne non serve, è spazzatura da raccolta differenziata. Nel liquido anti-amniotico rimane, fluttuante, solo la pelle, che sarà abitata da esseri stranieri, ultra-terrestri, extra-umani.
La dialettica dei corpi è accompagnata da quella degli sguardi. Gli occhi di Scarlett, con cui siamo stati introdotti, sono gli occhi attraverso cui lei guarda il mondo per la prima volta. Sono gli occhi fissi che comunicano sempre più smarrimento, man mano che viene meno la capacità di espressione verbale. Sono gli occhi che nella foresta guardano malinconicamente la sua stessa essenza, nera e fangosa, gli occhi della pelle che guardano faccia a faccia gli occhi del corpo. Sono, soprattutto, gli occhi che guardano se stessa, scoprendo e contempleando allo specchio la propria bellezza, facendola sentire donna per la prima volta. Gli specchi non mancano, minuscoli come quelli utilizzati per mettersi bene il rossetto, ma sempre più grandi, fino a racchiudere l’intera figura femminile auto-proiettatasi in un corpo morbido contenente, in apparenza, una carne dolce e soffice. Che poi è l’intrinseca ambiguità del cinema, del gioco delle apparenze e delle rappresentazioni, di corpi scuoiati e di alieni sotto la pelle.
Lo specchio è proprio il punto di svolta narrativo del film, anticipato però da altri due elementi. Prima di tutto il sangue, con cui comincia il suo lento percorso di curiosa scoperta di una bramata umanizzazione del proprio corpo. Con il sangue, infatti, viene sporcata da un venditore ambulante di rose, ferito alla mano. Le sue mani si macchiano così di un rosso dello stesso colore acceso del rossetto, quasi unici elementi colorati di un film fotograficamente scuro e cupo. Il personaggio di Scarlett muta, perciò, a partire dalla conoscenza del sangue, essenza intrinseca del suo abbozzato percorso verso la femminilità per diventare, così, finalmente donna. Il secondo elemento di rottura è rappresentato dall’incontro con un novello Elephant Man, un ragazzo deforme che lei tenta di abbordare come gli altri. Scarlett sembra quasi non accorgersi del suo difetto fisico, e lui vive un profondo imbarazzo di questo. Il ragazzo, diffidente per necessità, “odia le persone perché sono ignoranti”, e si pizzica la mano per essere certo che non sta vivendo un sogno. La donna lo convince concedendosi a lui attraverso una carezza sul viso, unico contatto fisico avuto fino a quel momento con un essere umano. Dopo aver consegnato anche quest’ultima preda al proprio destino, Scarlett si ferma però un attimo, per la prima volta, di fronte a uno specchio, guardandosi e contemplando la propria bellezza. Ed è proprio il confronto con la bellezza del ragazzo dal volto mostruoso, così diversa dalla sua, che la scuote. Così, spinta dal proprio stupore decide istintivamente di fuggire dalla propria natura.
Il primo contatto fisico anticipa una serie di esperienze sensoriali: dalle sempre più frequenti contemplazioni di se stessa di fronte allo specchio, al tentativo di mangiare un pezzo di torta che non può ingoiare, fino alla tragica e impossibile pentrazione del proprio sesso. Tutte prove necessarie per superare la curiosità dell’umano, davanti a cui si ferma sulla soglia. Scarlett si lascia andare all’essenza umana smettendo di comunicare verbalmente con il mondo circostante. Ricerca una nuova personalità attraverso nuove forme di linguaggio, appropriandosi di gesti e muovendo il proprio corpo con curiosa ingenuità. Lo stesso utilizzo dei suoni e dei rumori, unito al ridondante e martellante commento sonoro di Mica Levi, tende a un progetto di cinema inteso come esperienza extrasensoriale, che dialoga con la musica sperimentale e la videoarte. Se i primi dieci minuti si pongono dichiaratamente in bilico tra l’astrattismo e un cinema kubrickiano, le sequenze con il liquido nero che inonda e svuota i corpi rimandano alle figure riflesse nell’acqua dei lavori migliori di Bill Viola. Il finale stesso, con lo spettatore al centro tra il fumo nero e la neve bianca, che viaggiano in direzioni contrarie, si pone in questa stessa direzione.
Under the Skin va oltre le apparenze, imponendosi come un film che supera la fantascienza, concentrandosi piuttosto sulla curiosità dell’umano, ma soprattutto sull’impossibilità di essere donna. Le periferie scozzesi non sono certamente il luogo migliore in cui innamorarsi del nostro pianeta, ma l’alieno Scarlett ci riesce, perché comincia a interessarsi alle persone che lo popolano. La proposta di Glazer è, a dirla tutta, cinematograficamente estrema, ma i fischi e i buu (razzisti?) che hanno accompagnato sia la proiezione stampa che quella pubblica, con regista e attrice presenti in sala, subodorano di scarsa disponibilità preventiva nel capire un’opera teoricamente complessa, ma allo stesso tempo vera e istintiva. Che piaccia o no, Under the Skin è un film che fa e farà discutere, rischiando tutto e costringendo lo spettatore a schierarsi, spulciandosi le mani dagli applausi o fischiando senza vergogna il primo potenziale Leone d’oro di questo festival.
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