“Donne che parlano” di Miriam Toews

La conoscenza è fluida, cambia, i fatti cambiano, diventano dis-fatti”.
Le pagine di Donne che parlano di Miriam Toews sono intrise di dolore, orrore, sofferenza, tristezza, rabbia. Le parole scorrono come fiumi in piena contro un mondo che è andato in frantumi e che riconosce a loro, su tutte, una grande colpa: essere donne. Non valere niente.

Siamo donne senza voce, afferma Ona, pacata. Siamo donne fuori dal tempo e dallo spazio, non parliamo nemmeno la lingua del paese in cui viviamo. Siamo mennonite senza una patria. Non abbiamo niente a cui tornare, a Molotschna perfino le bestie sono più tutelate di noi”.

Le protagoniste di questo libro abitano in una colonia mennonita, Molotschna, e quando si svegliano doloranti e sanguinanti per diversi giorni, sono accusate di immaginazione, di essere schiave del diavolo. Ma quel diavolo in realtà serpeggiava non nei loro pensieri, ma di notte, nelle loro stesse case. Gli uomini, che prima erano padri, zii, cugini, fratelli, si rivelano i carnefici di un atto disumano. Le stupravano nel sonno, dopo averle narcotizzate con uno spray per il bestiame.
Questi uomini ora sono in carcere, ma tra poco usciranno e le donne decidono di riunirsi di nascosto in un fienile per decidere cosa fare: restare e perdonare, rispondere con altrettanta violenza, andarsene? È qui che comincia il racconto.

“Educare i ragazzi e gli uomini di Molotschna non è responsabilità nostra” afferma Salomè.
“Invece forse lo è. Specie se questi ragazzi sono figli nostri e se i loro padri non sono all’altezza del compito”, controbatte Mejal.
“Non dirmi che stiamo prendendo in considerazione l’ipotesi di restare per insegnare ai ragazzi e agli uomini di Molotschna a comportarsi da esseri umani!”, afferma Greta.

Ona, Salomè, Mejal e Greta sono solo alcune delle donne che partecipano alla riunione e che soppesano, ipotesi su ipotesi, il loro futuro.
Restare nella terra madre, dove le generazioni si susseguono sempre allo stesso modo, dettate e scandite dalle regole imposte dagli uomini, “da Dio” come dice il pastore della colonia. Molotschna però non è solo casa, è anche confine. I loro occhi, infatti, non si sono mai posati sull’ombra che il Sole proietta aldilà delle colline, i loro passi non hanno calpestato sentieri che altre non avessero tracciato prima di loro. La loro vita come copia di quella di tutte le altre donne. Andarsene dalla colonia è come andare verso l’ignoto.

Quando ci saremo emancipate, dovremo chiederci chi siamo”.

Il romanzo è narrato dall’unico uomo presente: August Epp. Tornato nella colonia dopo un lungo periodo di esilio, è a lui che Ona chiede di redigere i verbali di quelle riunioni segrete. Le donne, analfabete e sottomesse, fanno nel fienile il loro primo atto di rivoluzione: decidere, prendere in mano il proprio destino. August ne è testimone e complice, grazie a quei verbali può raccontare la loro storia.

Le donne del fienile mi hanno insegnato che la coscienza è resistenza, che la fede è azione, che il tempo stringe. Ma la fede può anche essere, tornare, restare, servire?”.

Mentre scrive sulla verità di quello che è successo a Molotschna, gli si rivela anche un’altra la verità. Questa volta riguarda lui e risale alla sua infanzia: è il segreto in seno all’esilio dalla colonia della sua famiglia. Figlio di un padre sbagliato.

Perché il riferimento all’amore, il ricordo dell’amore, il ricordo dell’amore perduto, la promessa dell’amore, la fine dell’amore, l’assenza dell’amore, il bruciante, bruciante bisogno d’amore, bisogno di amare, sfocia in tutta questa violenza?”.

La riunione è finita. Le donne hanno deciso. August le osserva, una per una mentre escono dal fienile. Sono donne che vanno incontro ad un altro giorno della vita. Stavolta è diverso perché hanno fatto la cosa più coraggiosa di tutte: scegliere.
Miriam Toews, Donne che parlano, Marcos y Marcos, Milano 2018.

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