Il pennello e l’ago

Avete mai pensato alla differenza tra un pennello ed un ago?

Partendo dal protagonista del mese precedente, prendiamo il rovescio della tela e ricollochiamoci davanti ad essa. Il quadro che ci si presenta per primo è “Las Meninas” di Velázquez.

In quest’opera, il pittore fornisce una rappresentazione molto dettagliata, anche di informazioni tecniche, all’osservatore. Quello che si può notare per esempio è come egli tenga tra le dita il pennello circa a metà del legno, abbastanza distante dalla punta. L’impugnatura in questo modo permette ai pittori un maggior controllo dello strumento e ne garantisce così l’equilibrio nel movimento e tra le abilità che distinguono un pittore vi è senza ombra di dubbio la scioltezza della pennellata e la sua rapidità. Il pennello risulta essere il prolungamento della mano, il punto d’incontro nello spazio che separa l’artista dalla sua creazione. Sotto le setole, il colore si stende sulla tela, la riempie, la arricchisce, la trasforma, la rende viva.

Lo stile della pennellata, che si può diversificare per densità, velocità, pressione e altro ancora, è un tratto distintivo per riconoscere un pittore o una corrente artistica. Si passa dall’impressionismo con le sue pennellate rapide e fitte al puntinismo con i colori che sono scomposti in piccoli punti. 

Non solo nello stile, ma all’interno di una stessa tela si può ricorrere alla necessità di pennellate differenti per le diverse parti da dipingere. Zone più ampie prediligono l’uso di un pennello piatto, con setole disposte in modo rettangolare, mentre i contorni e i dettagli possono essere eseguiti con pennelli a base circolare. I primi favoriscono una miglior stesura del colore, i secondi invece, con le loro setole affusolate, permettono una maggiore precisione nelle rifiniture.

Oltre che strumento, il pennello diventa mezzo di comunicazione ed espressione dell’arte non solo a seconda del suo uso ma anche della sua tipologia. 

La pittura come espressione ha avuto ed ha un ruolo importante nel Body Painting. Dipingere il corpo a scopo ornamentale fonda le sue radici nell’antichità dove tingere la pelle forniva sia una protezione fisica, poiché lo strato di colore teneva lontano dagli insetti, che spirituale. Veniva impiegato soprattutto per riti religiosi, cerimoniali, sessuali o propiziatori.

Per i Mursi, un popolo dell’Etiopia, la pittura corporea ha un forte valore simbolico. Gli uomini Mursi che dipingono sé stessi e i tori della loro mandria con sterco di mucca vogliono segnalare che sono alla ricerca di una compagna, mentre se si dipingono con l’argilla stanno parlando dei loro sogni. Al loro popolo è infatti proibito parlare sia della morte che dei sogni, quindi dipingersi con l’argilla è un modo per poterli raccontare.

Donna Pomak prima del matrimonio.

Le donne Himba, in Namibia, svolgendo lavori molto pesanti e indossando pochi vestiti, ricoprono il loro corpo con una mistura rossa a base di burro, ocra ed erbe per proteggersi dal sole. In Ungheria, invece, le donne Pomak vengono truccate con crema bianca e lustrini colorati prima della cerimonia di matrimonio.

Il body painting è dunque radicato nella cultura e nella tradizione di molti paesi e tra questi è interessante ricordare quello della cultura kalinga, nell’India centro-orientale. I disegni che si facevano sul corpo delle donne rappresentavano fertilità e bellezza mentre sugli uomini avevano lo scopo di esaltare il coraggio e la forza dei guerrieri cacciatori di teste. Questo processo, che è molto doloroso ma ricco di significato, viene eseguito tutt’oggi. L’inchiostro viene preparato miscelando carbone ed acqua e poi steso sulla pelle effettuando dei piccoli fori con un martello di bambù. Si tratta di una tecnica molto antica chiamata “tatuaggio batok”. Chi la pratica è a tutti gli effetti un tatuatore, un bambabatok, e tra ultime tatuatrici al mondo che la fa vi è Apo Whang Od. Ha 106 anni, appartiene al popolo Butbut ed è conosciuta anche come Maria Oggay. Per farsi tatuare da lei giungono persone da tutto il mondo nonostante il duro viaggio da affrontare per raggiungere Buscalan da Manila, nell’isola di Luzon. Secondo la tradizione, il mambabatok mentre tatuava intonava canti e prediceva il futuro.

Il tatuaggio continua a portare con sé un forte carico simbolico, affettivo e spesso estetico. A differenza della pittura corporale è permanente e non si limita ad un disegno superficiale. È l’ago che disegna la sua tela: la pelle. L’opera non è più il frutto dello sfiorare delle setole ma è penetrazione, dolore e ferita. L’impatto che ha il pennello sulla superficie su cui passa è delicato, accarezza e non ferisce. Ci passa sopra. L’ago invece trapassa la pelle per poterla riempire e porta con sé una certa dose di dolore. 

Prendiamo questi due strumenti e riportiamoli davanti alla tela: il pennello rimane in superficie per creare il dipinto; l’ago deve passarci attraverso, da lato a lato, per poterla ricamare.

Come per i pennelli, anche nella scelta del tipo di ago da usare si deve prima rispondere a due domande: cosa si vuole fare e come farla? Tutto dipende dall’esito finale che vogliamo ottenere e per questo dobbiamo per esempio tenerne in considerazione la lunghezza, la dimensione della cruna, il tipo di punta.

A proposito della tipologia di ago per le diverse esigenze e per mantenere vivo questo filo che ci fa oscillare tra la doppia valenza del concetto di tela, parliamo della cittadina di Arras, in Francia, che regala un termine molto importante per l’arte tessile che è “arazzo”. L’arazzo incarna una perfetta fusione tra pittura e tessitura poiché prima viene eseguito il disegno preparatorio su un cartone e poi lo si ricama. La cruna, o l’occhio, di questo ago è molto più grande rispetto ad altri per poter ospitare o fili più spessi o addirittura più fili.

Diverse sono le dimensioni invece dei semplici aghi da rammendo o cucito che, nei corredi femminili nelle tombe antiche, sono stati trovati in grandi quantità. Il contributo delle donne nel mantenimento della famiglia passava attraverso la cucitura o il rammendo di vestiti.

“Il sarto del Gujarat”, Steve McCurry

L’ago e successivamente la macchina da cucire avevano come primo scopo non quello del ricamo e quindi dell’arricchimento, dell’abbellimento, di una stoffa ma quello di ricucirla, sistemarla, ripararla. L’ago è quindi, in primis, uno strumento di unione. Un proverbio africano recita: “Per comporre una lite, non portare un coltello che taglia, ma un ago che cuce”. Nella vita non si passa solo attraverso il dolore ma è possibile che le lacerazioni, i buchi, gli strappi che viviamo possano essere rammendati, ricuciti, curati.

Nell’affrontare gli eventi della vita, comportarsi come un pennello è rimanere in superficie, non andare a fondo nelle cose, sfumare i colori, è un passarci sopra e andare avanti. Allo stesso tempo, però, è vero che un pennello non è mai uguale a sé stesso dopo ogni pennellata perché anche se lo si pulisce nell’acqua, esso si porterà sempre dietro un residuo di qualcosa: del colore, dell’acqua, delle fibre di tela. A lungo andare le setole cambieranno la loro rigidità, la loro forma, il legno comincerà a scrostarsi. Il pennello si consumerà e dovrà essere cambiato.

Il comportamento dell’ago si può invece paragonare all’attraversare le cose, all’andare in profondità e risalire continuamente, non fermarsi all’apparenza, all’esteriorità. Andare avanti ma dopo essere sicuri che il punto fatto sia ben stretto sulla tela perché non salti o sfili una volta passati oltre. L’ago rimane immutato, dall’inizio alla fine della tessitura. Non risente del cambio del filo, non si consuma e non incamera nessun ricordo del ricamo appena fatto. È sempre uguale a sè stesso e non conserva alcuna memoria di sè o dell’altro.

Per concludere, cito ancora una volta il genio di Velázquez che nel quadro “Le filatrici (La favola di Aracne)” convoglia insieme la pittura, il ricamo, il pennello e l’ago.

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