La fabbrica di cioccolato
Nella pellicola del 2005, il grandissimo Tim rinsalda la propria alleanza con gli amici che hanno accompagnato la sua carriera cinematografica: il dark, Roald Dahl, Johnny Depp e le musiche di Danny Elfman.
La sintesi di questi quattro pilastri sta tutta ne “La fabbrica di cioccolato”, ispirato al romanzo del Great Good Giant “Charlie e la fabbrica di cioccolato”.Tim interpreta al meglio lo spirito macabro della favola di Dahl, alternando scene tetre nelle quali prevale il buio e il freddo, ad altre coloratissime che ben rappresentano il mondo dei dolciumi. Macchine enormi e fantasiose, guidate dai bizzarri Oompa Loompa, sono il cuore pulsante della fosca e solitaria fabbrica. Il pallore funereo di Willy Wonka (Johnny Depp), i suoi modi sbrigativi e affettati, sono accostati al rutilante arcobaleno di caramelle e zucchero.
LA TRAMA
In poco meno di due ore Burton ci narra la vicenda che trasformerà la vita di Willy Wonka e di Charlie Bucket.
Il primo è l’eccentrico proprietario della più famosa fabbrica di cioccolato del mondo. Willy ha costruito il proprio impero sullo stesso sogno (il desiderio dei dolci) che rappresenta anche il peggior incubo del padre dentista. Wonka è diventato negli anni sinonimo di qualità assoluta del cioccolato, grazie ad una fabbrica completamente gestita dai pigmei Oompa Loompa. Essi hanno sostituito gli uomini che, in passato, si erano macchiati del furto del segreto del cioccolato Wonka, vendendolo al miglior offerente. Il secondo, Charlie, è figlio unico di una famiglia tanto indigente quanto allargata (insieme a Charlie e ai suoi genitori vivono anche tutti i nonni); la povertà dei genitori non impedisce però al piccolo di ricevere, solo in occasione del suo compleanno, il più ambito (e unico) regalo: una tavoletta di vero, squisito cioccolato Wonka.
Cosa accomuna età e destini tanto differenti? Il concorso promosso da Willy Wonka in persona: inque biglietti dorati, nascosti in altrettante tavolette, permetteranno ai fortunati possessori di passare un intero giorno nella fabbrica di cioccolato insieme al leggendario proprietario.
Charlie trova proprio l’ultimo biglietto e si unisce nella gita, con nonno Joe come accompagnatore, agli altri quattro bambini cui la “sorte” ha arriso: Augustus Gloop (golosissimo di cioccolato), Violetta Beauregarde (campionessa mondiale di gomma da masticare), Veruca Salt (figlia straviziata di un ricchissimo industriale) e Mike Teavee (campione di videogiochi).
Saranno i pericoli caratteristici di ogni fabbrica, sarà l’aura magica della Wonka che rende manifesto a tutti ciò che ognuno ha nel proprio animo, ma durante la visita i piccoli ospiti incappano in inconvenienti che impediscono loro di proseguire il tour. Rimangono così da soli Willy, Charlie e nonno Joe. Willy rivela a Charlie che egli è il vincitore del “vero” concorso “di sopravvivenza”; il premio è l’intera eredità di Willy: la fabbrica di cioccolato. Lo stupore di Charlie viene però smorzato immediatamente dalla postilla di Willy: il premio può essere ritirato solo se Charlie abbandonerà la propria famiglia per assumere il nuovo incarico, diventando in tutto e per tutto il nuovo Wonka.
Charlie, inaspettatamente, rifiuta l’offerta. L’amore che egli nutre per i suoi genitori e i suoi nonni non può essere barattato con tutto il cioccolato del mondo.
Willy, riflettendo su questa presa di posizione, riconsidererà la propria vita, si riavvicinerà al padre abbandonato negli anni dell’adolescenza ed entrerà a far parte della famiglia di Charlie.
IL COMMENTO
“La fabbrica di cioccolato” si vede e si legge come una favola. La grandezza di Burton si rivela nel trasportare con semplicità il racconto sullo schermo, nel rappresentarlo senza romperne l’incanto. Favola e film si fondono; la metafora del romanzo coincide con il commento della pellicola. Con qualcosa in più. Poichè alcune mediazioni del regista ci fanno meglio apprezzare ed intuire il messaggio profondo che Dahl voleva trasmettere ai suoi lettori.
È piuttosto evidente che tutta la vicenda sia incentrata sul senso della famiglia. Sei gruppi familiari ruotano attorno alla fabbrica: quelli dei bambini, più quello di Wonka. Teniamo ben persente, quindi, questi tre elementi: famiglia, fabbrica e cioccolato. Cerchiamo di interpretarne il significato attraverso i segni che ci vengono offerti, sfogliando e leggendo il film…
IL CIOCCOLATO
… cominciando dal titolo! “La fabbrica di cioccolato” è una sintesi perfetta.
Il cioccolato è metafora potente di dolcezza, bontà, calore, allegria, condivisione, dono. Il cioccolato ci restituisce immediatamente il significato della Bontà che scorre a fiumi, morbida, avvolgente, profumata. È il respiro stesso della famiglia, il sentimento che la anima (o che dovrebbe animarla) e la muove.
E proprio la famiglia dovrebbe essere il luogo in cui il cioccolato (il Bene) viene prodotto. È la famiglia la vera fabbrica di cioccolato. Se l’amore alimenta la famiglia, la famiglia produce amore e viceversa, in un circolo straordinariamente virtuoso. È questa la fabbrica popolata da uomini, la prima fabbrica Wonka, in cui gli operai (i membri della famiglia) lavorano insieme per creare il cioccolato.
A questa icona, però, si affianca la fabbrica automatizzata, tetra e isolata. La bontà è divenuta meccanica. La famiglia si è trasformata nello stereotipo di se stessa.
QUELLI CHE VIVONO PER LA CASA…
Una delle scene che più mi incuriosisce del film è quella iniziale, nella quale viene inquadrata la casa sghemba nella quale abita Charlie con la sua grande famiglia. Quando l’occhio della telecamera passa all’interno, l’abitazione sembra sì modesta, un po’ storta, ma non deforme; anzi, è talmente accogliente da sembrare più grande di quanto non ce lo si aspetti.
L’esteriorità può far pensare che la famiglia Bucket sia povera. In realtà, la ricchezza interiore (l’amore dei genitori, il calore dei nonni) è notevole e riesce ad illuminare e a riscaldare l’interno, anche in un inverno freddo e nevoso come quello rappresentato.
Conosco famiglie che interpretano la perfezione della casa come la perfezione della famiglia. Addirittura vivono in cantina per lasciare “i piani superiori in ordine”. Negli specchi dei bagni asettici a volte si riflette la camera bianca dei nostri cuori.
QUELLI CHE IDOLATRANO IL CIOCCOLATO
Charlie, poi, ci viene presentato subito come un ragazzino genuino e semplice nella sua gentilezza ed educazione. La sua “normalità” è così anomala, così eccezionale, da farne davvero il ragazzo “più fortunato del mondo”, indipendentemente da un superficiale giudizio estetico o dall’esito di un concorso.
I nonni servono per raccontare e le fiabe dei nonni non possono che parlare di cose buone.
Veniamo così introdotti al codice del cioccolato attraverso l’esperienza di un principe, che del cioccolato fece un idolo. Egli viveva nel cioccolato, anzichè mangiarlo. Il problema è che il cioccolato, se non lo si mangia si squaglia come neve al sole.
Che meravigliosa parabola! Per quanto Charlie abiti in una famiglia accogliente e premurosa, occorre che anch’egli partecipi nell’essere accogliente, premuroso, amorevole, riconoscente nei confronti dei suoi familiari. Il cioccolato non è bontà monodirezionale: occorre mangiarlo, farne esperienza, entrarci in comunione.
IL CIOCCOLATAIO TRADITO SI RITIRA NEL CIOCCOLATO
Wonka viene tradito prima da suo padre, poi dai suoi operai. Due famiglie lo abbandonano.
È così: a volte anche il cioccolato, il Bene, può rinchiudersi in se stesso, avvilito, deluso.
Non è vero che le cose cattive non segnano. Esse feriscono nel profondo. Non è vero che più un uomo è buono, più sopporta. Il dolore è dolore per tutti, allo stesso modo. E separa, non unisce.
Altrettanto vero, però, è che lo scoramento non può durare per sempre. In realtà, l’Amore torna a lavorare in silenzio. Il cioccolataio riapre la fabbrica e ricomincia a produrre cioccolato, sotto tono, nascostamente.
QUELLI CHE NON CREDONO PIÙ AL CIOCCOLATO
La disillusione è un cancro pericoloso. Uno dei parenti di Charlie non crede più che si possa entrare nella fabbrica, che si riesca ancora a vedere il cioccolataio.
Un altro smonta la frenesia di Charlie riguardo al concorso ricordandogli che, in quanto povero, non ha possibilità di vincere.
Ma i bambini hanno bisogno di cioccolato, hanno bisogno di sogni. Il cuore semplice sa che nulla è impossibile.
Ogni famiglia porta in sè rancori nascosti, ferite più o meno evidenti, fratture più o meno profonde. È triste quando il rancore, la ferita, la frattura è ritenuta insanabile, inguaribile, incolmabile.
Alla divisione ci viene proposto di opporre la misericordia, il cuore (“corda’) semplice (“miser”). Tornare un po’ bambini permette di perdonare. Il perdono può non riavvicinare, ma senza dubbio sana e pacifica chi lo usa.
NOMEN OMEN
Questa piccola “scoperta” mi ha divertito un sacco. Dai, non crederete mica che una bambina possa chiamarsi “Veruca Salt”, cioè “Verruca col sale”? Una piaga purulenta con del sale sopra. Che fastidio! Insopportabile quanto l’atteggiamento dell’odiosa Veruca nella storia.
Da qui mi sono detto: vuoi vedere che anche gli altri nomi non sono casuali?
Ed è così! “Nomen omen”! Il nome è tutto, è sinonimo dell’indole, come già avevano intuito gli antichi romani. L’autore della nostra bella favola utilizza dei termini inglesi un po’ storpiati per identificare bene il carattere dei suoi personaggi.
Charlie Bucket: “bucket” significa “secchio”, “contenitore”. Charlie è infatti un recipiente riempito del cioccolato amorevole della famiglia.
Augustus Gloop: “Gloop” mette insieme due parole inglesi, “glop” (cibo semisolido, pappina schifosa) e “goop” (persona nauseante). Augustus, goloso sino alla ripugnanza, non può sintetizzare al meglio questi concetti.
Veruca Salt: una piaga salata, come già detto. Semplicemente insostenibile.
Mike Teavee: il cognome si legge esattamente come TV, televisione. Mark è il prototipo del ragazzo abbandonato ai videogames, un prodotto di Superquark, dei Power Rangers e della Playstation. Le sue reazioni sono violente (Mike si diverte spaccando tutto) tanto quanto le sue passioni. È un figlio più vecchio del proprio padre.
Violetta Beauregarde: francese storpiato per indicare qualcuno che si specchia nella propria bellezza. Violetta, degna figlia di cotanta madre, è attratta solo dall’apparire e dal primeggiare. È ambiziosa quanto finta, bella quanto vuota.
Willy Wonka: “wonk” è un termine inglese che identifica un ragazzo che rifiuta la “vita sociale” per rintanarsi nello studio. Willy, tradito negli affetti, si isola da tutto rinchiudendosi nella propria fabbrica, attorniato dai piccoli operai Oompa Loompa che gli garantiscono un surrogato di rapporti umani.
Willy appare frequentemente freddo e distaccato, ma il suo atteggiamento muta ogniqualvolta si parla di famiglia.
Oompa Loompa: questo geniale scioglilingua mi fa morire dal ridere: è puro “anglosassone”! Accoppia infatti un termine tedesco (“oom”, zio) a uno inglese (“loom”, tessitore).
Mi diverte pensare allo zio (c’è sempre uno zio al quale si vuole un mondo di bene) come tessitore del cioccolato in famiglia. Come colui che, da vero “padrino” (meraviglioso! “piccolo padre”), smussa gli angoli, sblocca incomprensioni, tesse la tela dell’amore, muove gli animi, fa lavorare in silenzio le macchine che producono cioccolato.
E la statura, poi! MITICO ROALD DAHL! Mi fa impazzire l’idea che siano proprio i piccoli a lavorare in silenzio per il cioccolato. Proprio come sono i piccoli, i misericordiosi, che tessono nell’anonimato le fila del Regno.
QUELLI CHE “MIO FIGLIO MANGIA TANTO DI QUEL CIOCCOLATO!”
La famiglia Gloop mette all’ingrasso il povero Augustus. Macellai, conformano il figlio a se stessi (è un “loro” prodotto). Allo stesso modo in cui riempiono gli intestini suini per farne insaccati, così riempiono Augustus, spegnendone la fame.
Danno a loro figlio solo ciò che conoscono bene e gliene danno in abbondanza, fino a farlo scoppiare. Augustus viene dunque risucchiato dalla propria gola, come un enorme confetto di cioccolato.
QUELLI CHE “SPESSO E VOLENTIERI NON SO NEMMENO DI COSA STA PARLANDO”
È l’affermazione del padre, arreso ad un figlio più vecchio di lui.
“Non capisco una parola di quello che dici”; con questa frase un perplesso Willy liquida il piccolo Mike Teavee.
Mike rappresenta il lato orrendo del “piccolo genio”. La sua infanzia non gli appartiene più. Ha perso il linguaggio del bambino, ha perso il sogno.
Ecco qui un’acuta pennellata di Burton: il monolite di “2001: Odissea nello spazio” viene sostituito dalla tavoletta Wonka, afferrabile attraverso la porta dimensionale della televisione. I bambini vanno oltre la “conoscenza” (rappresentata dal monolite), perchè hanno il linguaggio del sogno. Mike, invece, ha smarrito questo orizzonte. La sua famiglia ha delegato l’educazione del proprio figlio alla tv, con il risultato che Mike ora non distingue più realtà da finzione, si divide (magistrale Tim!) tra Psycho e le ricette di cucina, senza trovare uno spazio davvero suo.
Nella sua crescita tecno-scientifica, Mike in realtà rimpicciolisce (letteralmente!). E purtroppo, come egli stesso e i suoi genitori si sentiranno dire, “non c’è la marcia indietro; è un televisore, non un telefono.”. Si tratta di un processo irreversibile, una volta avviato.
Gli anni della fanciullezza sono sempre meno e rischiano di essere spazzati via in un soffio.
QUELLI CHE “HO PROMESSO A ME STESSO DI DARE A MIA FIGLIA TUTTO CIÒ CHE VUOLE”
La famiglia Salt si commenta da sè. I genitori, nella loro opulenza, danno a Veruca tutto ciò che vuole, semplicemente perchè possono farlo.
Realizzare ogni desiderio della figlia significa anche toglierglieli tutti. Non saper dire “no” ai “voglio” di Veruca mette nei pasticci tanto il padre quanto la bambina.
Soddisfare ogni capriccio equivale a rinunciare ad educare. I genitori di Veruca sono dei dispenser, dei distributori di caramelle. Non fabbricano cioccolato: lo comprano e lo danno alla figlia.
I Salt, così ostentatamente ricchi, con una figlia così dannatamente odiosa, sono delle icone che rischiano di apparire lontane dalle nostre famiglie. Ogni giorno invece le mode schiavizzano figli che schiavizzano genitori. I ruoli si invertono, la fatica dell’educazione viene rimpiazzata dall’ignavia di dare ed eseguire ordini.
Risultato: Veruca viene travolta (e scaricata!) dai propri desideri (“Papà, voglio uno scoiattolo.” “Papà ti comprerà uno scoiattolo.”). La bambina è davvero una noce guasta, già marcita all’interno seppure così giovane. E come un frutto secco e bacato, viene buttata nella spazzatura (che assomiglia tanto a quella Geenna, l’immondezzaio di Gerusalemme, “..dove sarà pianto e stridore di denti.”).
Un secondo commento: l’affermazione del padre di Veruca rappresenta una versione malata dell’American Dream (“darò a mio figlio più di quanto ho avuto io”). Questo “sogno americano” è stato (ed è tuttora) una missione per alcuni genitori, ma si può tramutare in un incubo, in una condanna per altri. Sentirsi indegni dell’essere padri, poichè incapaci di soddisfare i desideri dei proprio figli, è una tentazione lacerante, che rode, corrompe e distrugge dall’interno.
I soldi non bastano mai… si baratterebbero i sogni per i soldi…
Ancora una volta ci viene in aiuto la famiglia di Charlie. Quando lui decide, magnanimamente, di vendere il biglietto fortunato, si sente rispondere:
“Solo uno scemo scambierebbe il biglietto per una cosa così comune come i soldi”.
Grande! Ci sono più soldi che cioccolato. Il cioccolato, l’amore di un padre, è più prezioso e più raro di tutti i soldi di questa terra!
QUELLI CHE “È UNA BAMBINA AMBIZIOSA; NON SO PROPRIO DA CHI ABBIA PRESO.”
Se Veruca è la classica “figlia di papà”, la platinata Violetta ci viene presentata come la copia (bella o brutta, dipende da come la si guarda) della madre. Violetta è l’incarnazione dell’ambizione dei suoi genitori. È artificiale, finta, agghindata per primeggiare. La sua rincorsa alle cose più futili nasconde un animo burino (si mette la gomma dietro l’orecchio, per riprenderla poi e continuare la strada verso il record). Vuole essere la prima in tutto, educata alla grettezza di una vita in cui si deve sgomitare per emergere, ed emergere significa schiacciare gli altri. Con ogni mezzo necessario.
Violetta è lo specchio nel quale si riflette la vanità della madre. E come tutti gli specchi, rivela la verità su entrambe. Quando Violetta subisce il proprio contrappasso (diventa ciò che è, ovvero un pallone gonfiato), la madre non afferra l’accaduto, ancora una volta si ferma all’esteriorità: “Non posso avere un mirtillo come figlia. Come farà con le competizioni?” grida indispettita. E fa rotolare via la figlia, altra metafora geniale di quei genitori che muovono i propri figli come marionette.
E ancora, dopo la “spremitura”: “Guarda mamma, sono elastica!” strilla Violetta, felicissima di aderire perfettamente al desiderio della madre (piroetta come un’autentica majorette, ovvero è diventata il completo ritratto della signora Beauregarde); “Sì, ma sei blu.” ribatte la madre; la figlia ha ancora qualcosa che non va, non è ancora perfetta come lei la vorrebbe.
Ogni ulteriore commento è superfluo. Ho visto troppe ragazzine educate alla malizia sin da giovanissime. Il culto di se stessi è un morbo ereditario troppo pericoloso.
QUELLI CHE “HO LETTO CHE CERTI BAMBINI SONO ALLERGICI AL CIOCCOLATO…”
(ovvero, i genitori del BAMBINO CHE NON PUÒ CRESCERE)
Willy è ancora giovane dopo tanti anni, esattamente come se lo ricorda nonno Joe dopo l’ultima volta che lo aveva incontrato, prima che la fabbrica chiudesse agli uomini.
È come se Willy fosse ancora prigioniero del bambino che è stato, abbandonato dalla famiglia perchè incompatibile con le aspirazioni e gli interessi del padre. La famiglia Wonka è l’antitesi dei Beauregarde: si parte dalle stesse premesse (voglio un figlio come lo desidero io, anzi, come sono o dovrei essere io) e si giunge a conclusioni differenti (Violetta aderisce perfettamente ai genitori, Willy rappresenta la negazione ai loro sogni).
Il padre dentista ha cercato di creare il figlio a sua immagine; i desideri del padre si convertono in ossessioni per il piccolo Wonka. Il divieto di mangiare dolci, l’obbligo di portare assurdi apparecchi odontoiatrici costituiscono una vera e propria “dieta” per Willy: lontano dall’affetto, lontano dai propri coetanei, non ha lo spazio per crescere. Da genitori ossessivi, che non accettano nessun rischio educativo, non possono che nascere figli ossessionati. Addirittura incapaci, come lo è il Willy adulto, di nominare qualcosa che riguardi la famiglia.
“Vattene pure, ma se tornerai io non sarò più qui”. In psicologia viene definito “doppio legame” ed è una malattia classica di molte famiglie. Si tratta di un ricatto affettivo perpetrato dal padre al proprio figlio: fai pure questa cosa che io disapprovo, così quando la farai ti sentirai in colpa. È quindi ovvio che il bambino, provocato, agisce proprio per indispettire il padre e poi viene abbandonato ai propri rimorsi.
Così il piccolo fugge e diventa il più bravo in ciò che il padre odia. È un normale meccanismo di difesa, che però distrugge entrambi: il padre non vuole più avere nulla a che fare con il figlio; il figlio vota la propria vita al “non essere come il padre”, vivendo comunque una vita non propria, in funzione della figura paterna di cui è comunque schiavo.
Il desiderio fanciullesco di vendetta non si attenua. Il bambino vuole ancora punire la famiglia, ogni famiglia.
Fortunatamente questa è una storia a lieto fine. Grazie all’esempio di Charlie, Willy si riappacificherà con il padre, in una scena che ricorda tantissimo l’altro capolavoro di Burton, “Big Fish”. Nello studio dentistico, il padre visita l’adulto Willy senza riconoscerlo apparentemente. Willy ha dei denti sanissimi! Nonostante il cioccolato e “tutti questi anni senza filo interdentale”. Come confidava il vecchio Edward Bloom al proprio figlio Will, “uno spende anni a riempire la testa del proprio figlio di idiozie e cose senza senso, e nonostante questo lui cresce benissimo!”
CHARLIE E LA SUA FAMIGLIA
Il piccolo Charlie è evidentemente il vincitore “morale”, oltre che materiale, del concorso.
In questa “gara tra famiglie”, che Willy esamina, sonda, castiga, emerge la buona educazione corrisposta dai Bucket al proprio figlio. Tutte le altre famiglie hanno voluto, in un modo o nell’altro, conformare il figlio alla propria immagine, eliminandone la personalità. Hanno creduto che un figlio sia solo creta da impastare, un “golem” senz’anima.
È evidente che l’educazione ricevuta da Charlie sia radicalmente differente; egli non ha paura di muoversi nel mondo tanto quanto nella fabbrica. Charlie fa sempre le domande giuste e nel modo più consono. È accompagnato dal nonno (i genitori sanno farsi da parte, quando occorre). Ha ancora negli occhi e sul viso lo stupore proprio dei bambini. La sua limpidezza lo rende anche capace di leggere nel cuore altrui, primo tra tutti quello del cioccolataio.
La sua vita si basa sul solido pilastro della propria casa, della propria famiglia. Cui lui “non rinuncerebbe per tutto il cioccolato del mondo”.
La consapevolezza di Charlie è destabilizzante tanto quanto semplice e dolce: è un periodo brutto, ma le cose andranno meglio; la famiglia mi rende felice quando sono a pezzi; ecco solo alcuni degli insegnamenti che il bimbo elargisce durante il suo viaggio.
E anche quando Willy lo tenta con la più evidente verità (“Dicono quello che devi o non devi fare. Frustrano la tua creatività.”), Charlie ribatte con un’altra aurea verità: “Loro vogliono proteggerti.”
Grande! Il sogno del bambino può (deve) realizzarsi nella sua famiglia. Il cioccolato può continuare a scorrere, a unire, a dolcificare. L’amore è motore dell’educazione, anche quando essa può essere percepita come costrizione. L’importante è che ci sia sempre cioccolato di mezzo, più fondente o più al latte (più amaro o più zuccherato, anche se quello amaro è (sic!) più pregiato).
Se l’obiettivo del concorso era quello di “vincere una fabbrica di cioccolato”, IL VERO VINCITORE È WILLY WONKA! Egli ne ha guadagnate addirittura due: la sua e quella di Charlie.
Perchè la vera fabbrica di cioccolato è la famiglia: non esiste nulla di più dolce.
Con tutto questo cioccolato, mi sento già salire il diabete.
Miss Violetta Beauregarde forever!
Love.
ddt
è che ditemi quello che volte, ma il primo era cento volte meglio.
qui si sono perse miliardi di sfumature del contenuto, per altri miliardi di sfumature superficiali di colore.
e gene wilder… poi…
bellissimo il libro e il sito magnifico tutto complimenti …….
uno schifo
la fabbrica di cioccolato è una vera è propria favola. sembra che i dolci si magnetizzano nei sentimenti. un bel modo di visionare con tutti grandi piccini e…GOLOSI.
è stupendo questo libro!!!! l’ho letto almeno 20 volte! mi piace tantissimo
E UNA STORIA STUPENDA E IO LA CONSIGLIEREI A TUTTI QUANTI PER ME E COME SE FOSSIANDATA VERAMENTA IN QUELLA STORI PERCIO LEGGETELA!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!HAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAHAH
FA SCHIFO MA PROPRIO SCHIFO MA CHI LA LEGGEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEE
hai azzeccato in pieno l’anima di questa storia e la realtà che c’è dietro, i miei complimenti! sei proprio un chirurgo, eh,come invidio la famiglia di charlie, sarebbe bello se tutte le famiglie fossero come la sua, però se fossero tutte così quel valore così importante come la famiglia perderebbe il significato e la diversità, a volte è la sua diversità a renderla davvero importante
p.s evviva la fabbrica di cioccolato
p.s.s io amo il cioccolato
IO ADORO LA FABBRICA DI CIOCCOLATO MA SOPRATUTTO VERUCA SALT E COME LO AMO CIOÈ CHE SONO PAZZA DI MIKE TV MA IO VOGIO CHE VIO CONOCSIATE SLEEPOVER CLUB CHE FANNO LA PROGRAMMA : CIARLIE MADDY BROOKIE TAYLA JESS E CON I RAGAZZI CON JASON SIMON DEGLAN AMME MI PIACE CIARLIE MA QUELLA CGE AMO È JASON CERCATELA SU GOOGLE