Qualcosa di nascosto – Sotto la superficie

Tra le cose invisibili, alcune sono tali perché si trovano in luoghi generalmente poco accessibili. Anche non vedendole, sappiamo che ci sono perché da quei luoghi inaccessibili in realtà ci separa poco: solo una superficie.
La superficie è un elemento concreto e fisico, che possiamo vedere e calpestare. Il suo compito è quello di dividerci da quello che sta sotto, anche se certe volte sembra fatta apposta per invitarci ad attraversarla.
Spesso e volentieri è più saggio mantenere ciò che sta sopra e ciò che sta sotto ben separati, e tuttavia in molte storie umane la tentazione di scendere nelle profondità è più forte di qualsiasi premura.
Orfeo per esempio non ci pensa due volte. Il mito racconta che egli scende nell’Ade a causa di un dolore troppo forte, quello di aver perso l’amata Euridice. Orfeo decide di riportarla in superficie, e riesce nella sua impresa grazie alle incredibili doti di musico. Lira e voce riescono a incantare tutti, anche il re degli Inferi. E la supplica di Orfeo commuove perfino le Furie, come racconta Ovidio nelle Metamorfosi:
Intonando al canto le corde della lira, così disse: «Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato, in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso. Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato: ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo; se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero. Per questi luoghi paurosi, per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno, vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice!»
Ciò che guida Orfeo, è chiaro a tutti, è l’amore. Eppure proprio alla fine del viaggio, sulla soglia tra il mondo dei morti e quello dei vivi Orfeo compie l’unico gesto che Ade gli aveva intimato di non fare: si gira per vedere se Euridice è dietro di lui. E così la perde per sempre.
Proprio alla luce di questo assurdo gesto finale — troppo assurdo per essere casuale — Cesare Pavese racconta in Dialoghi con Leucò un’altra visione del mito:
ORFEO: È andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. S’intravvedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscìo del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò ch’è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò ch’è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravvidi il barlume del giorno. Allora dissi “Sia finita” e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela.
BACCA: Strane parole, Orfeo. Quasi non posso crederci. Qui si diceva ch’eri caro agli dèi e alle muse. Molte di noi ti seguono perché ti sanno innamorato e infelice. Eri tanto innamorato che – solo tra gli uomini – hai varcato le porte del nulla. No, non ci credo, Orfeo. Non è stata tua colpa se il destino ti ha tradito.
ORFEO: Che c’entra il destino. Il mio destino non tradisce. Ridicolo che dopo quel viaggio, dopo aver visto in faccia il nulla, io mi voltassi per errore o per capriccio. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore. Cercavo, piangendo, non più lei ma me stesso. Ho cercato me stesso. Non si cerca che questo.
Che sia per amore o per se stessi, bisogna avere una ragione profonda per decidersi a scendere sotto terra. Anche perché bisogna affrontare la paura della morte, che trova il suo regno naturale proprio lì. Ma le profondità della terra in verità ci attirano perché custodiscono anche un’altra cosa che ci è sconosciuta quanto la morte: la vita.
Quando Alice inizia la sua avventura nel Paese delle Meraviglie lo fa precipitando nella tana del Bianconiglio. Sotto terra troverà tutto un mondo pieno di vita, un po’ meraviglioso e un po’ folle.
La buca della conigliera filava dritta come una galleria, e poi si sprofondava così improvvisamente che Alice non ebbe un solo istante l’idea di fermarsi: si sentì cader giù rotoloni in una specie di precipizio che rassomigliava a un pozzo profondissimo.
Una delle due: o il pozzo era straordinariamente profondo o ella ruzzolava giù con grande lentezza, perché ebbe tempo, cadendo, di guardarsi intorno e di pensar meravigliata alle conseguenze. Aguzzò gli occhi, e cercò di fissare il fondo, per scoprire qualche cosa; ma in fondo era buio pesto e non si scopriva nulla. Guardò le pareti del pozzo e s’accorse che erano rivestite di scaffali di biblioteche; e sparse qua e là di mappe e quadri, sospesi a chiodi.
Bene, — pensava Alice, — dopo una caduta come questa, se mai mi avviene di ruzzolare per le scale, mi sembrerà meno che nulla; a casa poi come mi crederanno coraggiosa! Anche a cader dal tetto non mi farebbe nessun effetto!” (E probabilmente diceva la verità).
E giù, e giù, e giù! Non finiva mai quella caduta? — Chi sa quante miglia ho fatte a quest’ora? — esclamò Alice. — Forse sto per toccare il centro della terra.
Non scendiamo nelle profondità solo per egoismi o curiosità. Certe volte lo facciamo per un bisogno interiore di conoscere le cose veramente. Rimanere sulla superficie può significare rimanere sospesi, sentirsi vuoti e insoddisfatti. Nel brano Shallow Lady Gaga e Bradley Cooper cantano proprio di questo:
Dimmi una cosa, ragazza
Sei felice in questo mondo moderno?
O hai bisogno di più?
C’è qualcos’altro che stai cercando?
Sto precipitando
In tutti i bei momenti mi ritrovo a desiderare il cambiamento
E nei brutti momenti ho paura di me stessoDimmi qualcosa, ragazzo
Non sei stanco di cercare di riempire quel vuoto?
O hai bisogno di più?
Non è difficile resistere così tenacemente?
Sto precipitando
In tutti i bei momenti mi ritrovo a desiderare il cambiamento
E nei brutti momenti ho paura di me stessaHo toccato il fondo, guarda mentre mi tuffo
Non arriverò mai a terra
Mi schianto contro la superficie, dove non possono farci del male
Siamo lontani dal superficiale adesso
Una superficie più sottile e trasparente è quella del mare. La sua impalpabilità ci dà l’illusione di poterla infrangere più facilmente e di poter poi emergere di nuovo senza troppe conseguenze. L’acqua scivola via e non lascia segni. Ma il suo lento e costante movimento in realtà erode i luoghi, li scava e cancella le tracce di chi passa di lì.
Così scrive Virginia Woolf ne Le onde:
Ci buttiamo giù nel precipizio. […] Gli scogli svaniscono. Innumerevoli onde a crespe grigie, fitte, si stendono sotto di noi. Non tocco nulla. Non vedo nulla. Potremmo sprofondare e finire laggiù. Il mare mi rimbomberà nelle orecchie. I petali bianchi si scuriranno con l’acqua di mare. Galleggeranno per un attimo, poi affonderanno. Travolgendomi, le onde mi spingeranno sotto. Con un tremendo scroscio tutto precipita, io mi dissolvo.
In superficie il mare divora, pur con lentezza. Ma nelle sue profondità cosa accade? Ciò che non gli appartiene si dissolve, come scrive Virginia Woolf. Ma quello che invece nel mare vive, come vive?
In I figli del mare, una lunga poesia di Carlo Michelstaedter, viene raccontata la storia di due divinità — Itti e Senia — esiliati dal mare e condannati a vivere sulla superficie insieme agli uomini.
Dalla pace del mare lontano
dalle verdi trasparenze dell’onde
dalle lucenti grotte profonde
dal silenzio senza richiami –
Itti e Senia dal regno del mare
sul suolo triste sotto il sole avaro
Itti e Senia si risvegliaro
dei mortali a vivere la morte.Ebbero padre ed ebbero madre
e fratelli ed amici e parenti
e conobbero i dolci sentimenti
la pietà e gli affetti e il pudore
e conobbero le parole
che conviene venerare
Itti e Senia i figli del mare
e credettero d’amare.Ma nel fondo dell’occhio nero
pur viveva il lontano dolore
e parlava la voce del mistero
per l’ignoto lontano amore.
E una sera alla sponda sonante
quando il sole calava nel mare
e gli uomini cercavano riposo
al lor ozio laborioso
Itti e Senia alla sponda del mare
l’anima solitaria al suono dell’onde
per le sue corde più profonde
intendevano vibrare.E la vasta voce del mare
al loro cuore soffocato
lontane suscitava ignote voci,
altra patria altra casa un altro altare
un’altra pace nel lontano mare.
Si sentirono soli ed estrani
nelle tristi dimore dell’uomo
si sentirono più lontani
fra le cose più dolci e care.E bevendo lo sguardo oscuro
l’uno all’altra dall’occhio nero
videro la fiamma del mistero
per doppia face battere più forte.
Senia disse: “Vorrei morire”
e mirava l’ultimo sole.
Itti tacque, che dalla morte
nuova vita vedeva salire.“Questo è morte, Senia” – egli disse –
“questa triste nebbia oscura
dove geme la torbida luce
dell’angoscia, della paura.
Altra voce dal profondo
ho sentito risonare
altra luce e più giocondo
ho veduto un altro mare.Vedo il mar senza confini
senza sponde faticate
vedo l’onde illuminate
che carena non varcò.
Vedo il sole che non cala
lento e stanco a sera in mare
ma la luce sfolgorare
vedo sopra il vasto mar.Senia, il porto non è la terra
dove a ogni brivido del mare
corre pavido a riparare
la stanca vita il pescator.
Senia, il porto è la furia del mare,
è la furia del nembo più forte,
quando libera ride la morte
a chi libero la sfidò”.
Itti e Senia appartengono al mare e alle sue profondità, per questo sentono un vuoto lì dove sono ora. C’è la paura di dover scendere in un luogo dove s’incontra la morte. Ma c’è anche il coraggio di voler trovare la vita.