A partire da… The Jungle di Upton Sinclair

“L’acziavimas è una cerimonia che, una volta iniziata, si protrae per tre o quattro ore, e si concretizza in una danza ininterrotta. Gli ospiti formano un grande anello tenendosi per mano e, quando la musica si avvia, iniziano a muoversi in un cerchio. Al centro si erge la sposa e, uno a uno, gli uomini entrano nel cerchio e danzano con lei. Ognuno balla per diversi minuti, finché gli pare e piace, ma è un procedimento molto allegro, con risate e canti, e non appena il ballerino ha finito, si ritrova faccia a faccia con Teta Elzbieta che gli porge il cappello. Dentro il cappello il ballerino lascia cadere una somma di denaro, un dollaro, o forse cinque, a seconda di quanto può ma anche del valore che attribuisce al privilegio di aver ballato con la sposa. Tutti gli ospiti sono tenuti a pagare per questo spettacolo; (…) del resto, le somme che se ne vanno via per organizzare una festa del genere non sono uno scherzo. Ammontano certamente a più di duecento dollari e forse anche trecento, e trecento dollari è più di quanto percepisca all’anno la maggior parte di queste persone presenti nella sala.

Ci sono uomini che lavorano dalla mattina presto fino a tarda notte in cantine gelide, dove ci sono due centimetri di acqua sul pavimento; uomini che per sei o sette mesi all’anno non vedono mai la luce del sole dalla domenica pomeriggio fino al mattino della domenica seguente, e che non arrivano a guadagnare, nonostante questo, trecento dollari in un anno. Ci sono bambini che a malapena arrivano a toccare la parte superiore dei banchi di lavoro, i cui genitori hanno mentito sulla loro età per farli lavorare, e che non fanno nemmeno la metà di trecento dollari l’anno, e forse neanche un terzo, per la verità. Eppure questa gente spende una tale somma, tutta in un solo giorno, per una festa di nozze! (…) È una cosa alquanto imprudente, persino tragica… ma, Dio del cielo, è così bella! A poco a poco questa povera gente ha dovuto rinunciare a tutto il resto, ma a questa faccenda della festa di nozze non rinuncia affatto, ci si è aggrappata con tutta la potenza della propria anima … non si può rinunciare alla vaselija! Farlo significherebbe non solo darsi per vinti, ma riconoscere la sconfitta e la differenza tra queste due cose è ciò che mantiene in vita il mondo.

La vaselija è giunta fino a loro da un tempo lontano e il suo significato era che si poteva abitare anche in una grotta, con lo sguardo immerso nell’ombra, senza luce, a condizione che una volta nella propria vita si dovessero spezzare le catene, prendere il volo e volgere lo sguardo al sole, a condizione che una sola volta nella vita si sarebbe potuto testimoniare il fatto che la vita stessa, con tutte le sue preoccupazioni e le sue paure, non è una cosa poi così grave e impietosa, bensì una bolla sulla superficie di un fiume, una cosa che si può prendere tra le mani e scagliare in aria per gioco, come un giocoliere lancia in aria le sue palle dorate, una cosa che si può tracannare come un calice di prezioso vino rosso. Avendo così riconosciuto sé stessi come padroni della vita, gli uomini possono tornare al proprio duro lavoro e godere di quel ricordo di onnipotenza per il resto dei loro giorni”.

 

MARGHERITA

Nel 1906 Upton Sinclair pubblicò a puntate sulla rivista socialista Appeal to Reason, un romanzo considerato tra i più rivoluzionari del ventesimo secolo. Dopo aver lavorato, infatti, sotto copertura nelle grandi fabbriche di carne in scatola a Chicago, Sinclair porta all’attenzione del grande pubblico la sua testimonianza sulle tremende condizioni di vita dei lavoratori in questi luoghi. La brutalità dei fatti narrati in The Jungle contribuì a far passare al Congresso di Washington il Pure Food and Drug Act (1906), la prima legislazione generale contro l’adulterazione dei cibi, e due anni più tardi, nel 1908, il Congresso mise al bando il lavoro minorile.

Il brano da cui vogliamo partire è tratto dal primo capitolo del romanzo, che si apre, inaspettatamente, considerando le premesse, con una lunga scena di festa: è il matrimonio dei due protagonisti, Jurgis e Ona, due giovani lituani emigrati in America con le loro famiglie nella speranza di un lavoro e una vita dignitosi. Sono ovviamente ignari di ciò che li attende.

Jurgis e Ona, così come i loro familiari e amici, sacrificano i loro risparmi per questa festa di matrimonio, questa usanza, la vaselija. Un atteggiamento che potrebbe forse apparire sconsiderato. Come si può, in condizioni di drammatica povertà, scegliere di spendere tutti i propri soldi per una festa? È forse difficile, per qualcuno che non ha vissuto le privazioni e lo sfruttamento a cui sono sottoposti questi personaggi, immaginare come un singolo momento di spensieratezza possa compensare una vita in catene. Eppure, la scelta compiuta dai protagonisti del brano e descritta nell’ultimo paragrafo, è quanto di più umano essi possano fare: spendere i soldi duramente guadagnati, mettendo a rischio la loro sopravvivenza materiale, per mettere in salvo, invece, il loro spirito dalla schiavitù della loro condizione.
Questa magra consolazione, questo momento di vertigine che ricorda ai protagonisti di The Jungle il valore della vita, è venuta a mancare –  scegliendo una goccia in un triste oceano di storie dimenticate – al giovane poeta Xu Lizhi, con tragiche conseguenze. Xu Lizhi ha lavorato per anni come operaio in un’azienda cinese, continuando a scrivere struggenti poesie sulla condizione disumanizzante del lavoro in fabbrica, fino alla scelta estrema di togliersi la vita nel settembre 2014, morendo a ventiquattro anni. Pochi mesi prima, compone Una vite è caduta a terra:
In questa notte oscura di straordinario
cadendo in verticale, tintinnando leggermente
una vite è caduta a terra.
Non attirerà l’attenzione di nessuno.
Proprio come l’ultima volta
in cui in una notte come questa
qualcuno crollò a terra.
La vita che in Sinclair può essere “una bolla sulla superficie di un fiume, una cosa che si può prendere tra le mani e scagliare in aria per gioco (…), una cosa che si può tracannare come un calice di prezioso vino rosso”, è rappresentata da Xu Lizhi come una minuscola vite il cui tintinnio, cadendo, non sarà udito da nessuno.

Non è un caso, inoltre, che Sinclair ricorra a immagini ampie e lontane dalla cupa realtà dei lavoratori di The Jungle, mentre Xu Lizhi si trovi ad utilizzare come metafora della propria vita – e di quella dei suoi colleghi – un minuscolo elemento del meccanismo produttivo in cui è intrappolato. Si potrebbe, infatti, sperare che questo giovane trovi conforto nella poesia, che essa possa essere la sua vaselija, il suo modo di spezzare le catene. Purtroppo la verità che emerge dai componimenti di Xu Lizhi e dalla scelta di porre fine alla sua vita, è che la sua poesia non nasce da un moto di ribellione dello spirito alle terribili condizioni di lavoro, ma proprio dalla sofferenza di aver perso questa volontà.

1906 e 2014 sono gli anni di pubblicazione di questi due testi e il fatto che più di un secolo sia intercorso tra i due, ci ricorda quanto ci sia da fare ancora oggi, affinché il diritto ad un lavoro “umano” e dignitoso sia rispettato. Nel nostro piccolo, invece, potremmo forse chiederci: “cosa posso definire, nella mia vita, una vaselija?”

TIZIANA

È il 1936 quando Margaret Bourke-White scatta questa fotografia. Circa trent’anni dopo l’uscita di The Jungle, di Upton Sinclair. Il titolo è, semplicemente, Kentucky, 1936.

Titolo a parte, l’immagine è quasi un corollario al testo di Sinclair: un momento di divertimento condiviso, dove il ballo fa dimenticare la pesantezza del lavoro; un gruppo di giovani con l’abito della festa, dove la cravatta e il tailleur fanno dimenticare le tute e i grembiuli dei giorni feriali.

Forse si tratta di un sabato sera e di un attimo rubato alle danze di balera; forse è davvero un matrimonio: gli amici degli sposi si fanno immortalare per continuare a mantenere vivo il ricordo di quella giornata speciale.

Margaret Bourke-White non è esattamente una ritrattista: è stata una fotografa che ha segnato profondamente la storia del fotogiornalismo. Una pioniera in tutti i sensi, una professionista che è arrivata spesso prima e che ha tentato, riuscendoci sovente, la conquista del primato nello scatto. A lei è dedicata proprio in questi mesi una mostra a Milano, a Palazzo Reale, dal titolo Prima, donna. Il periodo non consente l’accesso all’esposizione delle sue fotografie e ci si può consolare con il catalogo Contrasto. Probabilmente non è un caso se la foto di copertina è proprio quella del gruppo di giovani americani. Dai loro volti emana allegria, spensieratezza. Rappresentano al meglio l’immagine dell’America delle possibilità: il lavoro nei campi o nelle fabbriche che nobilita e libera, che è per tutti e che lascia a tutti uno spazio, un posto.

Il capitolo di apertura del romanzo di denuncia che Sinclair scrisse nel 1906 ci proietta all’interno di una festa di matrimonio e ha quella caratteristica pregevole della buona scrittura di rendere visibile ciò che descrive. C’è una ricchezza di immagini che trasforma il testo stesso nell’istantanea di un mondo scomparso eppure ancora vivo.

Diventa impossibile non fare nuovamente appello alla fotografia: pur nella distanza geografica, temporale e culturale propongo la foto “modernissima” di Paul Wenham-Clarke.

Fa parte di un progetto che è diventato anche una mostra, tutta londinese, dal titolo The Westway: a portrait of a community. Il progetto è diviso in tre sezioni, The Urban Gypsies of The Westway, The Westway Community e Line Dancing Ladies. Il fotografo ha seguito per oltre un anno e mezzo le comunità che vivono e lavorano nell’area sottostante la A40, una sopraelevata che conduce dalla periferia al centro di Londra. La zona è molto vicina alla Grenfell Tower, l’edificio che andò a fuoco nel giugno 2017, ed è di fatto diventata un luogo memoriale per il ricordo delle vittime del disastro.

The Urban Gypsies of the Westway è un portfolio che offre molte suggestioni e punti di contatto con la pagina di Sinclair: quell’essere stranieri e isolati, quel replicare le tradizioni con tenacia e senso di salvifica sopravvivenza, quel mantenere intatte le relazioni fra famiglie che appartengono al medesimo ceppo culturale.

La giovane sposa nel suo abito celebrativo non ricorda affatto la protagonista del romanzo di Sinclair, Ona. Il vestito di Ona è semplice, non viene descritto ma il lettore lo può vedere. L’abito della gitana è un simbolo, un segno, la rivendicazione di una parte che si gioca nascostamente ogni giorno e che, in alcune occasioni speciali, consente di salire alla ribalta. Come il matrimonio, un rito da celebrare in qualità di interprete unica e sola, una cerimonia per magnificare l’abbondanza.

La comunità lituana e quella gitana: non è possibile istituire un confronto eppure c’è uno sfarzo che accomuna le due donne, vien da dire le due culture. Un fasto che si traduce quasi in un dovere, quello di rispettare tradizioni, proprio le tradizioni che identificano, rendono reali e attribuiscono un ruolo alla persona in una società distante, altra. Che danno un nome e cognome.

A poco a poco questa povera gente ha dovuto rinunciare a tutto il resto, ma a questa faccenda della festa di nozze non rinuncia affatto, ci si è aggrappata con tutta la potenza della propria anima.

GRETA

Ogni tipo di celebrazione umana è pensata come un evento collettivo: le nascite, i compleanni, le festività, i funerali, i matrimoni. Tutte queste cose assumono un senso se sono fatte in compagnia; per questo ci colpiscono quelle particolari situazioni in cui si percepisce una solitudine acuta in un contesto di festa. La ragazza gypsy colta nel suo opulento abito da sposa nella fotografia di Paul Wenham-Clarke appare estremamente stonata proprio nella scena in cui dovrebbe essere protagonista: è completamente sola, circondata e quasi imprigionata in un freddo fasto, in particolare colpisce il suo sguardo che cerca di essere il più possibile assente, come se lei stessa volesse isolarsi dalla realtà.

Ma il matrimonio, se non è quel momento di gioia in cui la vita diventa “una bolla sulla superficie di un fiume, una cosa che si può prendere tra le mani e scagliare in aria per gioco” descritto da Sinclair, cos’è?

Nel romanzo La principessa sposa, di William Goldman, il Principe Humperdinck nel chiedere la mano della bella Buttercup è molto chiaro su cosa dovrà essere il loro matrimonio:

“Io sono il tuo Principe e tu mi sposerai” disse Humperdinck.
Buttercup mormorò: “ Io sono la tua serva e rifiuto”.
“Io sono il tuo Principe e non puoi rifiutare”.
“Sono la tua serva fedele e l’ho appena fatto”.
“Rifiutare significa morire”.
“Uccidimi, allora”.
“Sono il tuo Principe e non sono così male… Come puoi preferire la morte piuttosto che sposarmi?”
“Perché” replicò Buttercup “matrimonio significa amore, e non è il mio passatempo preferito. Ci ho provato una volta e mi  è andata male e ho giurato che non amerò nessun altro”.
“Amore?” disse il Principe. “E chi ha parlato d’amore? Io no di sicuro. Ascolta: deve esserci sempre un erede maschio al trono di Florin. […] Quindi hai due possibilità: sposarmi e diventare la donna più ricca e più potente nel raggio di mille miglia, regalare tacchini per Natale e darmi un figlio, o morire tra strazi e tormenti, in un futuro molto prossimo. A te la scelta”.
“Non ti amerò mai”.
“Non saprei che farmene, del tuo amore”.
“Va bene, allora sposiamoci”.

Buttercup aveva fermamente deciso di non amare più dopo aver ricevuto la notizia della morte del suo unico amore, il garzone Westley, partito per l’America a cercar fortuna. La promessa che si erano scambiati i due era radicalmente diversa da quella fatta dal prestigioso Principe tanto che Buttercup si era ritrovata a dire:

“Aiutami, Westley. Ho l’impressione che siamo sull’orlo di qualcosa di molto importante”.

Questo l’aveva spaventata davvero, molto più delle minacce di morte di Humperdinck. Per fortuna le cose andranno diversamente dai piani calcolatori di quest’ultimo e Buttercup e Westley potranno farsi un’altra promessa, in cui c’è sì l’amore, ma anche quella morte che ormai non teme più nessuno:

“Mi sembra che siamo condannati” disse Buttercup.
“Condannati, signora?” replicò Westley, guardandola.
“A restare insieme. Finché uno di noi non morirà”.
“L’ho già fatto, e non ho la minima intenzione di ripetere l’esperienza” disse Westley.
Buttercup alzò gli occhi su di lui. “Non dovremo tutti, prima o poi?”
“No, se promettiamo di sopravviverci a vicenda, e io faccio subito questa promessa”.
Buttercup lo guardò. “Oh, mio Westley, anch’io”.

Come nel testo di Sinclair, la precarietà e la limitatezza della vita possono essere dimenticate nella gioia di un incontro, in una vaselija tutta personale in cui ci si beffa della morte.

Nel film di Tim Burton La sposa cadavere, invece, è la morte a beffarsi della vita usando come pretesto proprio una promessa di matrimonio: Victor, promesso sposo della viva Victoria, si ritrova a ripetere il giuramento in un bosco e preso dall’entusiasmo infila l’anello in quello che all’apparenza sembra un ramo secco e che invece si rivela essere il dito della sposa cadavere, Emily, che lo trascina nel mondo dei morti, sicura di aver trovato finalmente il suo sposo. Victor cerca di farle capire quanto la situazione sia a dir poco impossibile, facendole notare che:

“Tra noi non può funzionare […], in altre circostanze, chissà, ma siamo troppo diversi! Voglio dire… tu sei morta!”

Questo particolare non sfugge neanche al vecchio e scheletrico Saggio Gutknecht che, con un eminente libro davanti, rivela ad Emily una complicazione al matrimonio

“Il giuramento è valido soltanto finché morte non vi separi  […] la morte vi ha già separato, mia cara”.

L’unica soluzione a questo inconveniente è la celebrazione di un matrimonio in cui Victor sceglie volontariamente di bere un veleno e di fermare il suo cuore per sempre, così da essere libero di donarlo alla sposa cadavere.

Victor decide di accettare il massimo sacrificio ma il matrimonio tra un vivente e una defunta non  è cosa di tutti i giorni; alla celebrazione non possono che partecipare entrambi i mondi: i morti raggiungono così il mondo dei vivi, che all’inizio sono atterriti e completamente terrorizzati. Quando però si rendono conto che hanno davanti non dei cadaveri, bensì i loro cari, il clima di terrore si trasforma immediatamente in festa. Particolarmente intenso è l’incontro tra un’anziana vedova e il suo morto marito, in un meraviglioso scambio di battute in cui lei inizialmente cerca di scacciarlo e che finisce con un riconoscimento:

“Furfante!”
“Zuccherino!”
“Mostro!”
“Cerbiatta!”
“Canaglia!”
“Gertrude!”
“…Alfred? Ma sei morto da quindici anni…”
“Francamente, mia cara, me ne infischio!”

Accade che la morte e la vita dimentichino i propri confini, anzi, che se ne infischino e, travolti dalla gioia, vivi e morti partecipino al memorabile matrimonio. Le cose andranno poi diversamente e un equilibrio nuovo verrà stabilito tra i due mondi che torneranno separati.  

Se, in fondo, come canta Guccini “cade la pioggia e cambia ogni cosa/ la morte e la vita non cambiano mai”, l’avventura di Victor, la promessa di Buttercup e Westley, la vaselija di Sinclair, sembrano non avere molta importanza in un flusso continuo di vita e morte sempre uguale. Però, usando le parole di Virginia Woolf ne Le onde, immaginiamo per un attimo che

Si è distesi in un fosso, in un giorno tempestoso, ha appena smesso di piovere, e immense nuvole sfrangiate, a brandelli, avanzano compatte nel cielo. Ciò che allora mi dà piacere sono la confusione, l’irragiungibilità, l’indifferenza e la furia. Grandi nuvole eternamente mutevoli e in movimento […].

Tutte queste cose accadono in un secondo e durano per sempre.

[nell’anno 2008-09 BombaCarta esplorò un “cambio di rotta” nelle sue Officine mensili. Invece di scegliere un tema generale e declinarlo in approfondimenti, decise di farsi guidare da opere d’arte: un libro, una scultura, un film, un dipinto… A distanza di oltre un decennio facciamo un’operazione analoga e in mancanza di Officine “dal vivo” abbiamo proposto una serie di brani in forma di “mini-officina”. Margherita Morelli, Tiziana Debernardi e Greta Giglio sono partite da una pagina di The Jungle di Upton Sinclair].

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