Quello che si vuole veramente
La letteratura non è qualcosa come un martello, nonostante Kafka, nella sua celebre lettera a Oskar Pollack, l’abbia intuita come un’ascia per spaccare il mare ghiacciato che è dentro di noi. La letteratura non è un mero «utilizzabile», una cosa che si ha a disposizione, a «portata di mano». L’uomo infatti vive «nel» linguaggio e la letteratura semmai può essere un habitat. Eppure la domanda è stata spesso lanciata e rilanciata e oggi rimbalza non solo, come da sempre, su ampi trattati cartacei, ma anche in web forum, newsgroups e newsletter (soprattutto, di questi tempi, “Vibrisse” di Giulio Mozzi). L’ingenuità della domanda contiene una sapienza che occorre non lasciarsi sfuggire. Essa infatti rivela un bisogno di comprendere cosa sia la letteratura nel rapporto con noi, con il nostro mondo e con la nostra spiritualità: a che cosa serve la letteratura?
Raymond Carver, nella sua ultima poesia (“Late fragment“, cioè “Ultimo frammento“) si chiedeva: “E hai ottenuto quello che/ volevi da questa vita, nonostante tutto?“. La domanda è tanto elementare quanto decisiva. È esattamente con un interrogativo simile che, a mio parere, deve confrontarsi la domanda sull’identità e sul «servizio» della letteratura. La letteratura «serve» ad ottenere ciò che si vuole veramente? Se la letteratura non si confronta con le tensioni radicali di una vita umana, non «serve» a molto. Se un’opera non tocca queste tensioni è come un «cembalo che tintinna». Se uno scrittore, in qualche modo, non gioca il proprio destino nella scrittura inganna il tempo e… “fugit irreparabile tempus“, ci ricorda Virgilio!
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