Il colore della città che sale
Nella tessitura morale, culturale e letteraria della Milano del primo novecento, in quella corposa fenomenologia del suo tragico intrigo moderno, vengono alla luce, nel giugno del 1913, i Frammenti lirici, del giovane milanese doc, Clemente Rebora, questo vero e proprio Canzoniere letterario che, con la dedica “Ai primi dieci anni del secolo ventesimo”, citata in epigrafe, vuole, attraverso la parola poetica, raccontare la quotidianità ostile di una città dai ritmi ingenerosi e scomodi, confusi e convulsi che le hanno rapito il respiro, ed il suo senso.
Rebora viene così tanto turbato dalla città. Ne assorbe le valenze antinomiche più radicate e laceranti ma, al contempo, non proporrà mai una possibilità di salvezza esigita al di fuori della città stessa. Per lui, ciò che conta davvero, è tentare di trovare, con forza etica, espressiva e motivazionale, un ruolo della poesia proprio in essa, per poter realizzare un nexus comunque armonico e fecondo tra momento poetico e ritmo produttivo cittadino.
Umana industria sacra,
Nel vortice m’esalto della lotta
Che lusinga e s’indraca
E concrea e distrugge;
Ma come dal fermaglio della scotta
Più veemente vela al vento fugge,
Vorrei che l’anima spaziasse
Dall’urto incatenato del cimento.
Per Rebora, la città rappresenta il luogo fondante della dialettica umana dell’esistere, pur nella sua unica offerta possibile, quella connotata dalla contraddizione e dalla solitudine, e dalla decisiva presa d’atto della infallibilità, da parte dell’uomo, di comprendere il reale nella sua ambiguità, nei suoi recessi, nella sua verità.
La sua misura poetica si consegna al lettore con delle cifre stilistiche assolutamente proprie, ma che rispondono in ogni modo all’esigenza vociana di vivere il momento poetico “non come un fatto stilistico”, scrive Bandini, ma “come una conquista morale”, e rappresenta, pertanto, il tentativo accorato, ardito, insanguinato, di risolvere, in chiave etico-ideologica, i termini della crisi storico-personale, il contributo dell’intellettuale Rebora al rinnovamento morale dell’alba di quel secolo.
Così, la grande Milano industriale diventa, nei Frammenti, innanzitutto luogo di frantumazione e di disgregazione, dove violenti fenomeni d’emarginazione e di solitudine massificata, risucchiano nei fondi della incomunicabilità
Strisciò la notte,
Scivolò la partenza,
S’aprì la voragine
Della città rombante.
e dove l’effimero metropolitano seduce e lusinga gli uomini confusi, gli uomini persi, scuriti da un camminare mai scelto dal senso, ma solo meccanicamente subìto da un quotidiano febbrile ed incolore.
Alle vetrine chiedo cosa io sia,
Fin che di via in via
Dove è men luce svoltando
Tra nere forme forma nera ho spazio;
E tutto è consueto
Per gli anditi e le case.
Il tempo tortuoso e spietato sommerge l’anima nel suo gorgo impietoso e nel suo vortice eterno, dove con paura e dolore il presente s’incastra anche con i suoi attimi opachi, fermi, inerti, e dal cui tedio astioso di male non viene risparmiata nessuna anima.
Ruscello è il tempo uguale
Che non sembra fluire
Ma, da questo dramma esistenziale, dialetticamente insanabile, prigioniero del mistero del tempo, delle cose nel mondo, del destino, si elèva in Rebora la dimensione eidetica dell’unicità irripetibile di ogni spirito umano nella storia,
S’ingorga il minuto e ritorna
Con àlito morto l’idea,
L’idea che quando ritorna
Un fatto trascina, e per sempre.
nella convinzione che il tempo intimo si consumi in quanto evento sempre nuovo, ed in quanto frammento nodale ed integrante del farsi dell’universo. Nulla dà la garanzia di un irrevocabile approdo positivo verso la verità del ruolo dell’uomo nella storia, e di come dovrebbe essere vissuto il suo tempo, giacchè la dimensione emotiva reiteramente si dispiega tra il suo anelito corale “contenente il tempo e non già da esso contenuto, e la limitazione che essa subisce nelle cose, nelle faccende”. (D.Valli).
Ma di sicuro, in Clemente, la consapevolezza della labile ed arruffata vicenda del mondo, se pur vissuta con straziante tormento, man mano, e con pronunzie sempre più decise, si lascia incantare dall’idea di speranza, di fiducia in un eterno che raccolga ogni gesto umano, ogni umano sentire, e lo nobiliti, lo scaldi, lo significhi, perché anche dietro la noia può sguinzagliare l’eterno.
Il tempo, è vero, sì, passa, e travolge nei suoi abissi tracce di vita e spesso le confonde, vestendole di un anonimato inquietante, ma già nei Frammenti – e poi soprattutto, ed in forma più illuminata, nei Canti Anonimi, del ’22, in seguito alla straordinaria, atroce e salvifica esperienza della prima guerra mondiale, vissuta e pagata in prima persona – anche se per bruschi tratti, si comincia ad annusare l’odore del segreto del trionfo dell’umanità sul destino. Dinanzi alla vita, quindi, bisogna lottare, perché è solo in mezzo agli uomini, che l’impegno etico ed umano deve e può consumarsi con strenuo vigore, seppur soffrendo.
Il mio passo è la traccia dell’erba,
Il mio cuor è la specie del luogo,
E tutto si palesa e nulla è vano
Nel grande andar del mondo
E nella consapevolezza, resa sempre più robusta dalle difficoltà e dai travagli quotidiani, del proprio ruolo di uomo tra gli uomini, nella storia che inesorabilmente avanza, il poeta può riscattarsi dal suo esilio tra gli altri, rientrare nella “legge segreta di fratellanza che regge l’universo” (M. Guglielminetti), ed aderire con amore alla sinfonia di voci che nell’attimo, l’infinito comunque cercano, sognano, e forse troveranno.
In un volgere lieve
L’infinito riposa:
La quotidianità è breve
Vicenda è il suon concorde di ogni cosa.
Grazie Paola per questo bellissimo intervento su Rebora. I versi che hai citato mi hanno fatto pensare a Giovanni Testori, un altro autore che ha patito e denunciato il calare dell’ombra scura della modernità su Milano. Ricordo un’intervista a Testori degli anni ’70 che ho ritrovato negli archivi della Rai (il ciclo si chiamava “Uno scrittore, una città”) in cui l’autore – gli occhi luminosi di un uomo che vede meglio degli altri e il viso addolorato di chi ha assistito alla dispersione di tanta bellezza – racconta di come la città, dal dopoguerra in poi, abbia perduto il grande patrimonio di umanità che viveva nelle sue tradizioni: l’immigrazione dal sud in un contesto urbano che annichiliva il bagaglio culturale tanto di coloro che giungevano in città quanto dei lombardi stessi, l’urbanizzazione incolore e brutale, il miraggio di un benessere sconosciuto e la deriva consumistica hanno costituito la nebbia morale che ha obnubilato la mente e il cuore della gente di Milano. Tutto questo è mostrato nel ciclo di romanzi intitolato “Il ponte della Ghisolfa”, ma Testori come Rebora, non si preoccupa solo di criticare la modernità. Il suo bersaglio, il luogo ultimo dell’attraversamento del tempo e dello spazio delle periferie milanesi descritte nei suoi libri è la coscienza dei suoi personaggi ovvero la nostra coscienza ogni volta che la realtà ci aggredisce con i suoi mostri e le sue sirene, ogni volta che l’orizzonte della vita si copre di una fitta nebbia. Provate a leggere lo straordinario incipit del romanzo di Testori “Nebbia al Giambellino” che vi propongo di seguito.
Venendo fuori dalle finestre lunghe, strette e uguali delle cantine, dai canali, dai fossi, dai mucchi d’immondizie e di concime, prima diffidente, a brandelli che ora si allungano, ora si rapprendevano, poi via via più densa, crudele e aggressiva, fin dalle prime ore della mattina la nebbia aveva preso a fasciare gli ultimi casamenti, grandi, tetri ed uguali e, tra casamento e casamento, le strade, le case più modeste, i segnali di fermata dei tram, le insegne al neon dei caffé e dei negozi, i muri corrosi dal salnitro, i capannoni, gli orti, le siepi, le cascine e i sentieri che da quell’ultima parte della città davano nella prima parte della campagna; continuando a salire, verso mezzogiorno s’era incontrata con quella che aveva preso a calare da oltre i camini, i tetti, le grondaie; poi, lentamente, come se l’andasse abbracciando, vi s’era confusa; e, infine, aveva coperto dentro di sé ogni cosa: dai marciapiedi alle antenne rade e solitarie delle televisioni, dalle foglie e dai rifiuti dei mercati, che s’erano ammassati ai bordi dei marciapiedi e vi marcivano in silenzio, ai grovigli dei fili.
Col passar delle ore, non solo le immagini e i corpi, ma anche i rumori e i suoni erano stati smangiati da quel mare che aveva continuato ad avanzare in ogni direzione, lento, umido e ostinato; anche le sirene delle fabbriche, che pure avevan tentato di superarlo coi loro fischi pomeridiani, ne eran rimaste sconfitte, spegnendosi in una catena di echi e di singhiozzi. Così, fin quando era durata e sia pur penetrando incerta ed opaca, la luce aveva permesso di riconoscere, se non i colori, almeno le forme di chi passava e di chi o di cosa se ne stava fermo: un palo, la ruota d’una bicicletta, una macchina che i fari annunciavano ancor prima del rombo, una bambina, la massa frusciante d’un tram… Ma quando, dopo aver sparso intorno un riflesso rosa, anche quel chiarore si fu spento, non era stato più possibile distinguere niente.
All’ora fissa, sulle strade s’erano accesi, a distanze uguali, i lampioni, ma anche le loro luci erano solo ombre un po’ più chiare nell’immenso pulviscolo grigio-nero che li circondava.
Tutti ormai, uomini e donne, s’erano ritirati nelle case. Quelli che l’alba avrebbe tolto dal letto, che miseria, pensieri e fatiche rendevano prezioso e necessario come una tana, s’erano ormai addormentati. Solo qualche donna s’attardava ancora dietro i lavori, fosse il rammendo degli indumenti del marito e dei figli, fosse qualche maglia da fare per il neonato, il latte da dargli o la batteria e i pavimenti della cucina da lavare e lucidare.
Anche il suono della radio, che chi vi fosse passato accanto fin a poco prima avrebbe sentito uscir fuori dall’ultimo caffè del Giambellino, quello che dava nei prati, adesso s’era spento; e la luce dell’insegna, illeggibile ovunque o che si distingueva soltanto per tremolar verde della nebbia nel suo intorno immediato, sarebbe rimasta accesa ancora per poco, essa che pur era l’unica a durare d’una vita che, pel resto, sembrava del tutto sepolta. Era infatti come se tutti i corpi che dentro le case e nella campagna giacevano addormentati, tra le coperte, nell’erba o nelle anse del terreno, emanassero i loro respiri e come se quei respiri si sfacessero nell’aria tal quale le speranze cui s’erano affidati prima di crescere, poi per costruirsi una sostanza e una casa, nella quale invecchiare e morire.
Scriveva Rebora quasi un secolo fa alla sua amica Daria Malaguzzi: “La invidio, mentre mi affogo in codesta città di fango e di lucro, ove la mia follia d’amore e di creazione si esaspera in una monotona sterilità angosciosa: ove la vita pur mirabile d’intensità che vi circola, ha malie e fascini solo per chi ama giostrare in pubblico e sfoggiar la propria esteriorità pomposa e raccogliere nelle mani adunche il più possibile di preda e di piacere con insolenza” (Milano, 15 marzo 1910).
Milano, lui la viveva così, rossa, dentro, rosso sangue, rosso in esplosa ribellione, rosso in guerra, come ne “La città che sale”, del futurista Boccioni. Milano gli infiammava le vene, mentre camminava per le strade. Lì, per i passi, l’ingiustizia lo aggrediva, lo assaliva in faccia, gli faceva male. Lui, conoscitore della ricchezza delle anime, pativa, il loro assottigliarsi, immiserirsi dietro alle ambizioni cieche, alle apparenze, al potere del denaro e del nulla che portavano corruzione, e quindi lacerante disperazione, insopportabile da gestire e vivere, e quindi poi in consegna all’indifferenza, alla distanza dal dolore, e dalle cose che contano.
Ed è così sempre, laddove l’inganno del nulla, lo riconosciamo, ma ne neghiamo la pericolosità potente. Rebora le vedeva le sue contraddizioni, e quelle del suo mondo. Le guardava in faccia bene bene, senza metterci make up e fronzoli e menzogne.
La Milano di Rebora, è la Milano che io ho conosciuto qualche anno fa. Urto allo stomaco per i suoi contrasti, ma per certi versi affascinante e stimolantissima. Eccesso di richezza e miseria agghiacciano, ma non sono lontane da noi. Milano è Roma, è Taranto, è Napoli, è New York, è Tokio, è il mio quartiere, può esserlo chiunque di noi, o comunque attorno a noi. Laddove c’è ingiustizia, va in fiamme la costruzione delle cose. Si potrà generare poesia dal dolore, ma i poeti non basteranno. Non basterà la bellezza, se non camminerà insieme alla responsabilità ed alla speranza.
Dopo questo spontaneo sermone, che tale non voleva assolutamente essere, e che invece lo è diventato, voglio ringraziarti, Stas’, per il tuo bellissimo intervento. Per la pagina di Testori che ci hai regalato. Pittura ed emozione.
Grazie per le occasioni di riflessione che mi hai offerto. Paola