Intervista a Stefan Damian
Ho intervistato il prof. Stefan Damian, che insegna Letteratura Italiana all’Università di Cluj Napoca in Romania e che ha tradotto in rumeno diversi poeti genovesi (Elio Andriuoli, Bruno Rombi, Margherita Faustini, Guido Zavanone).
Lei insegna italiano in un’importante Università rumena e parla perfettamente la nostra lingua. Da dove è venuta questa sua scelta culturale e professionale di dedicarsi alla lingua italiana?
«Non vorrei affermare un truismo e cioè che l’italiano è una lingua carissima ad ogni rumeno e persino a coloro che non lo parlano. L’origine comune dei due idiomi neoromanzi contribuisce pienamente ad apprezzarsi reciprocamente e a cercare i punti di unione, molto più numerosi di quanto qualcuno potesse pensare. Come si sa, la romanità orientale ha avuto, nei tempi antichi, una più ampia diffusione, mentre ora si è ristretta, nello spazio balcanico, a poche isole, sufficienti però a ricomporre, mentalmente, l’intero territorio di formazione e diffusione della lingua dei nostri popoli.
Per quanto mi riguarda, i primi contatti con l’italiano parlato l’ho avuto sin da fanciullo, perché mio nonno materno, da giovane come ex soldato austriaco, aveva trascorso nel campo di prigionia di Avezzano ben più di due anni, durante i quali ha imparato l’italiano (dal 1917 fino all’estate del 1919!) perché il regime di prigionia era molto permissivo, si andava a lavorare in città (il terremoto del gennaio 1915 l’aveva distrutta al 90%) e nelle contrade, per cui i contatti con la gente del posto non mancavano. Di ritorno in Transilvania (già unita alla Romania) ha continuato a usare l’italiano in varie occasioni. Io, quale “allievo” ho avuto poi l’opportunità di migliorarlo nell’Università di Cluj-Napoca, dove attualmente insegno Lettere italiane. La mia Università, che conta più di 40.000 studenti, è una struttura multiculturale (ci sono quattro linee di studio, in romeno, ungherese, tedesco ed ebraico), in cui lo studio delle lingue ha una notevole tradizione».
Nel suo lavoro di critico letterario quali metodologie di analisi e di valutazione delle opere segue?
«Gli insegnanti di letterature straniere, credo, subiscano in tutto il mondo la “dolce oppressione” di due sistemi: quello nazionale e quello della lingua d’azione. Nel mio caso, si tratta dell’oppressione del sistema riferenziale e metodologico italiano, determinato da tanti e tanti fattori, che influenzano (positivamente e negativamente) la mia formazione e le modalità di affrontare gli argomenti. A questo si aggiungono le influenze nazionali, di cui devo tener conto, perché mi rivolgo ad un lettore abituato a pensare in un certo modo. Però, un’intellettuale “né carne né pesce” spesse volte deve affermare fermamente le proprie opinioni ed imporre il proprio gusto, le sue scelte… C’è poi tanto da recuperare per quanto riguarda le relazioni tra le nostre letterature! Già all’inizio degli anni novanta la critica marxista non ha trovato più alcuna aderenza tra gli intellettuali romeni, mentre lo strutturalismo si era dimostrato incapace di fornire strumenti di ricerca adeguati. I nostri critici ricorrono quasi sempre alla critica estetica, anche se poi si dichiarano critici strutturalisti o partigiani della semiotica! C’è poi, almeno nella critica promossa dalle riviste, una forte dosi d’impressionismo!».
La Romania è un paese che ha radici linguistiche e culturali neolatine in un’area di lingue diverse, per lo più slave. Questo fatto determina propensioni e interessi verso l’Italia e verso il mondo classico?
«Le vicissitudini della storia dei Romeni non sono state poche. Si pensi che già nel III secolo d.C. l’esercito romano abbandonava la Dacia, una delle provincie più ricche dell’Impero, perché sul limes erano già comparsi altri popoli migratori. Tra questi popoli, di maggiore importanza si rivelarono gli Slavi, attratti anche loro dal miraggio dell’antica e della nuova Roma. Non potendo raggiungere né l’una nè l’altra, gli Slavi si insediarono sui Carpazi e nei Balcani, dunque nei territori abitati dai Daci romanizzati, obbligati a ritirarsi sulle alture difficilmente accessibili agli invasori. Queste isole neoromanze sono ancora presenti in Grecia (nel Pindo), in Albania, Macedonia, Bulgaria, Serbia, Croazia. Per non parlare poi dei Romeni che vivono tuttora in Ungheria ed Ucraina… Nel XV e XVI secolo ce ne erano tanti nei pressi di Trieste, in Istria e Dalmazia… Recuperare spiritualmente la patria perduta, conservata nello stesso denominativo di “romeno” (da Roma) è stato un vero programma dei rappresentanti della “Scuola transilvana” del XVIII secolo, programma che si è poi tramandato fino ad oggi. Per molti secoli i Romeni hanno identificato nell’Italia il paese dei loro antenati di cui andavano orgogliosi. La riscoperta dell’Italia ha costituito tante volte una chiave di volta della stessa esistenza romena, sia in campo politico che culturale».
Questa specificità linguistica della Romania ha avuto ripercussioni culturali nei rapporti con gli altri paesi, slavi o di altro ceppo?
«Coscienti del proprio isolamento linguistico nel dilagante mare slavo, di religione ortodossa, parte dei Romeni transilvani si erano uniti con la Chiesa di Roma nel 1700. Era, quest’atto, anche una risposta alle proposte dell’imperatore d’Austria, a sua volta costretto a fronteggare le riforme ecclesiastiche calviniste e luterane, ungheresi e tedesche, il quale aveva bisogno di nuovi alleati fidati anche contro i Turchi (in quel periodo ancora presenti nei Balcani ed in altre provincie storiche romene). L’atteggiamento ostile al panslavismo russo si era manifestato fino a tardi, per non parlare poi della resistenza anti-sovietica prima e dopo la seconda guerra mondiale!».
Nell’ambito della storia della letteratura italiana quali autori e quali movimenti sono più conosciuti e apprezzati in Romania?
«Lungo gli anni, la letteratura romena si era dimostrata capace di assimilare la grande cultura italiana, a cominciare dagli scrittori del Duecento (le versioni romene, pubblicate da me, del Cantico di Frate Sole sono più di 30!), del Trecento (sei versioni integrali della Divina Commedia) e via dicendo. Si arriva, così, fino alle ultime generazioni di poeti e narratori, molti di loro poco conosciuti persino in Italia. Si deve tener conto che in Romania c’è sempre stata una sete di letteratura moderna, forse per riflesso agli anni in cui il regime ne limitava l’accesso. Adesso, invece, sul mercato librario romeno e sulle pagine delle nostre riviste, la letteratura italiana si trova in casa propria, tanto da venir pubblicate diverse antologie di poesia regionale (ligure, piemontese, siciliana)».
Dal suo particolare punto di osservazione quale valutazione può dare dell’attuale produzione italiana, in particolare della poesia?
«La poesia italiana odierna è estremamente variegata, per questo non ha una linea facilmente definibile. Questo perché la grande tradizione della poesia che si conclude negli anni Sessanta e Settanta è stata boicottata dalle nuove generazioni di poeti. Non convincono se non parzialmente gli esperimenti (ridotti, piuttosto, agli aspetti linguistici, agli innesti dialettali, gergali, alle violenze verbali.), così come non è da pensare un ritorno ai grandi del Novecento. Ci sono molti poeti interessanti, però pochi da includere tra coloro che possono costituire dei veri capiscuola. Non vorrei fermarmi su alcun nome, diamo tempo al tempo…».
Quale è attualmente l’orientamento della produzione letteraria in Romania? Quali generi, quali filoni, quali tematiche si privilegiano?
«Dopo la grande apertura degli anni ‘90 si attendeva un vero dilagare della letteratura vietata. Orbene, finora niente di niente! La poesia, non più costretta alla censura, è diventata troppo esplicita (per il mio gusto!), ha perso la sottigliezza, la concisione, l’allusività, il mistero… È diventata retorica, volgare, violenta e narrativa. La poesia ha perso moltissimo, gli anni in cui si manifestava il geniale Nichita Stanescu restano un doloroso ricordo. Anche la narrativa ha subito un evidente degrado, non potrei citare, tra gli autori di romanzi del momento, nessuno che mi interessi veramente. Qualche nome, proposto anche dalle case editrici italiane, non ha se non poche affinità con Mircea Eliade, ad esempio. Sono trascurati autori importanti, come Eugen Barbu, Constantin Toiu, Stefan Banulescu, D. R. Popescu, in cui realismo ed immaginario si intrecciano, seguendo a volte canovacci specifici del romanzo giallo o della scrittura lirica. Certo, non sono più giovani, taluni sono scomparsi, però la loro opera ha aperto tante strade ai giovani. Alla narrativa si sono ispirati anche alcuni poeti odierni, i quali cercano di innestare sulle esperienze del Gruppo ‘63 italiano esperienze linguistiche della narrativa romena. Il cosiddetto Gruppo 80 ha lasciato però poco spazio ad altre innovazioni».
Che prospettiva vede per gli sviluppi della letteratura e della lingua romena nel futuro dell’Europa unita che si va allargando verso Est? A suo giudizio, quali lingue resteranno minoritarie e quali destini potranno avere?
«L’integrazione europea presuppone una grande sfida per tutte le nazioni, non soltanto per quella romena. Grazie all’apertura dei confini, la conservazione della lingua sarà facilitata anche nei paesi dove, attualmente, le minoranze romene sono tuttora private della possibilità di usarla a scuola o in chiesa. E questo avviene in tutti i paesi circostanti la Romania. Per quanto riguarda l’emigrazione romena (si pensi che in Italia vivono attualmente circa un milione di romeni, in Spagna circa ottocentomila, in Canada più di mezzo milione), secondo me non conserverà a lungo il romeno; anzi, già la seconda generazione lo parla con difficoltà se addirittura non lo dimentica. Una lingua viva si parla sul territorio d’origine, altrimenti diventa artificiale. Dunque, credo che la vera evoluzione della letteratura romena avverrà in Romania e Moldavia. Certo, grazie all’emigrazione, essa sarà forse meglio conosciuta in altri paesi, tramite traduzioni più consistenti ed aggiornate».
Molto interessante. E’ vero che la lingua si perde già con i figli di immigrati ed è veramente un peccato. Complimenti Giulia
Non sempre le comunità emigrate perdono la lingua materna alla seconda generazione: il caso degli albanesi, dei greci e dei croati in Italia è eloquente. Queste comunità, infatti, pur di origine balcanica, dopo più di cinque secoli conservano ancora una forte identità e anche la lingua. Nel caso degli albanesi, hanno sviluppato anche una ricca letteratura che in certi periodi è stata anche più florida di quella che si è potuto sviluppare nell’area balcanica.
Ciao a tutti, come state? che palle vero?
Si,ma,non pensate che anche molti poeti e narratori instauratisi in Albania,Serbia, specialemente in Grecia abbiano dato un approfondimento più ricco dell’Italia, cioè, hanno fatto sapere in modo straordinario alle persone come è l’Italia, non come in Albania, che, pur se migliorata, la letteratura albane e baltica sono ancora poco conosciute,al contrario delle letterature delle poesie più famose dell’Italia.