Persone singolari: per una poesia democratica
Capita sempre più di rado che la fama di un futuro Nobel lo preceda al di fuori del suo Paese. Anche per questa ragione la polacca Wisława Szymborska rappresenta un caso eccezionale. La sua opera, pure ristretta – a oggi dodici sillogi, per un totale di poco più di 300 poesie, e qualche raccolta di prose – è interamente disponibile in italiano in ben due edizioni: un poderoso volume dell’Adelphi o gli esili libricini di Scheiwiller con il testo originale a fronte. Tutti tradotti e curati da Pietro Marchesani, il grande polonista recentemente scomparso. Ci sono però due raccolte che in Italia non giungeranno mai, ripudiate dall’autrice, che ne ha vietato la ristampa. Si tratta di due sillogi uscite durante l’adesione della Szymborska al Partito Comunista, che vi si iscrisse nel 1950 e ne uscì nel 1966. Difficile immaginare la sua voce sfumata e prudente che aderisce a slogan di granitiche certezze. O forse fu proprio quell’esperienza a segnarla così a fondo che la sua lingua sopravvisse soltanto, come annota Marchesani, in forma di «smarrimenti e balbettii confusi».
Scompare l’amore per le masse, appare quello per l’individuo: singolo, concreto, irripetibile. «Le persone – spiegherà l’autrice in un’intervista – si instupidiscono all’ingrosso, e rinsaviscono al dettaglio. Dunque amiamo e sosteniamo i casi al dettaglio». La sua poesia ripristina la presenza singolare e l’intimo dinamismo di ogni entità. La poesia scocca nell’attimo d’incontro tra la metamorfosi del mondo e l’osservatore, soggetto anch’egli d’impercettibili quanto inarrestabili cambiamenti: i suoi occhi sono avidi interrogativi e la risposta è ciò che vede, ovvero l’esistenza, introdotta da due punti esplicativi (In effetti, ogni poesia).
È un’odissea nell’impercettibilità dell’infinitamente elementare e irriflesso, nei luoghi bollati come “comuni”, estromessi dalla repubblica delle lettere, e capita talvolta di dover rileggere una composizione per capire cos’è avvenuto, tanto lievi sono i passaggi. Eppure ci sono: Szymborska è sorpresa dall’ovvio non per dono innato, ma perché in lei coesistono l’esperienza del disincanto come pure la decisione e la disciplina di un reincanto consapevole, intelligente, sorvegliato (Disattenzione). Un vero e proprio esercizio dello sguardo.
Nei suoi versi ci sono sì allodole e pettirossi, ma anche scimmie, yeti, alligatori, orche assassine, antilopi inseguite da leoni, cervi di carta. Non c’è nulla d’impoetico neppure nella scienza: ecco allora apparire Darwin, la paleontologia, la citologia, l’astronomia, la matematica, la statistica. Nelle poesie di Szymborska non sono i tecnicismi linguistici a contagiare la purezza del linguaggio lirico, ma è piuttosto la conoscenza poetica del mondo a esondare oltre gli argini della letteratura, riappropriandosi di ciò che, fin da principio, le apparteneva. Il poeta, d’altra parte, è uno che resta indietro «per raccogliere quanto è stato calpestato e smarrito nella marcia trionfale delle verità oggettive» (Letture facoltative).
Nel diluvio delle ideologie che spazzano il linguaggio, il poeta salva la parola dal loro smarrirsi. Novello Noè, egli è un genio inclusivo che scende dal piedistallo per tessere il mondo, convinto che la poesia sia solo una componente della letteratura, «né più né meno importante di altre». Il poeta non rifiuta nessuna occasione di stupirsi della bontà di ciò che c’è, per quanto piccolo o volgare. Così come non rifiuta l’occasione per indicare il rattoppo sulle mutande della Storia, tanto per ricordare che il piccolo e il volgare appartengono a tutti, anche se qualcuno preferisce nasconderlo per fingersi invincibile, invece di lavorare sodo per rendersi amabile.
Ecco perché Szymborska sceglie una lingua radicalmente democratica, lontana anni luce dalla posa dell’intellettuale eternamente scontento, e apostrofa i suoi colleghi: «Signori Critici! dal momento che vi servite dell’espressione “umorismo demenziale”, provate a introdurre, per equità, il termine “serietà demenziale”!».
Sorniona e benevolmente maliziosa, come una nonna che si finge sorda davanti a un ospite importuno, Szymborska si muove sempre in punta di piedi, ma non per questo teme le grandi risposte. Nella sua opera «sempre presente, anzi incalzante – scriveva ancora Pietro Marchesani – è l’interrogativo sul senso d’un universo in apparenza governato dall’assoluta casualità, e che pure sembra celarsi nel fitto intreccio delle circostanze». Ciò che Szymborska rifugge sono semmai le Grandi Risposte, quelle che anticipano ogni punto interrogativo, quelle che fagocitano il mistero del reale: le ideologie che disciolgono la singolarità in categorie astratte.
Ma non per questo afferma l’impossibilità di dare una qualunque risposta. Anzi. «Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte. / Verità, non prestarmi troppa attenzione. / Serietà, sii magnanima con me. / Sopporta, mistero dell’esistenza, se tiro via fili dal tuo strascico» (Sotto una piccola stella). Solo pochi fili, ma non rinuncia a impadronirsene.
Umile e tenace, la poetessa aguzza lo sguardo sopra e dentro di sé: «Il cielo è onnipresente / perfino nel buio sotto la pelle. / Mangio cielo, evacuo cielo» (Il cielo). Balugina così non una certezza astratta, ma un’adesione personale: «Preferisco prendere in considerazione perfino la possibilità / che l’essere abbia una sua ragione» (Possibilità).
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