La speranza non è la negazione del tragico. Reazioni alla poetica dello scolapasta

Non capita a tutti d’avere un dialogo quasi quotidiano con uno scrittore, io ho questa fortuna. Demetrio Paolin, giovane promessa mantenuta della letteratura italiana mi dedica spesso attenzione e scrive stimolanti speronate. Lo ripeto: la polarità che va incancrenendosi tra noi due è una delle cose più arricchenti della mia vita. Al pezzo sullo scolapasta, Demetrio oppone la sua visione dello scrivere:

Tonino sarei entusiasta di quello che hai scritto, anche se non amo l’immagine dello scolapasta, perché si poteva fare riferimento alla vecchia metafora del secchio, che usa in un suo racconto Kafka e che poi il buon vecchio Calvino ri-utilizza in una delle sue lezioni.
Ci sarebbe da parlare di questo uso retorico che tu fai delle immagini ‘basse’, quasi il voler aderire per forza per scelta ad una sorta di minimalismo anche nei saggi (mi vengono in mente certe cose di Carver, lo so che forse per te questo è un complimento, mentre per me è una sorta di critica velata), ma andremmo troppo lontano.
Ti ripeto sarei entusiasta, ma poi nasce in me una sorta di fastidio, non per la cosa che scrivi tu né per come la scrivi, ma per questo tuo ostinarti nella speranza.
mi spaventa la potenza salvifica che tu dai alla scrittura, la scrittura può salvarti la vita questo è il sottofondo di quello che tu dici; e non ci sarebbe niente di male se questo discorso fosse solo per te, ma tu parli a nome di un generico noi, in cui ad esempio posso starci anche io, o toni la malfa, o davide bregola. Domanda:
sicuro che per noi tre ad esempio la tua ipotesi di salvezza possa essere valida?
La tua cocciuta ragione di speranza, questo tuo principio di tutte le cose, che ha sempre a che fare con il miracolo – cosa è infatti l’incontro con Maria? se non un miracolo, o un colpo di culo direi io, perché io leggo e consumo soldi e tessere alla feltrinelli, ma ti assicuro che non ho mai trovato l’amore lì – non mi convince.

La storia che si racconta in Big Fish non è la mia storia, neppure quella della Storia infinita.
Di me rimarrà giusto le cose che ho scritte, forse, e non tutte e il segreto più profondo di me, proprio come Iago in Othello, verrà con me nel nulla.
Io spero di poter dire come Pavese di aver lasciato un po’ di poesia alle persone, ma so che questo non mi salverà dalla morte, mia corporale, che le mie scritture non produrranno effetti di salvezza, effetti di resurrezione o di palingesi del mondo.
Scrivere non ci salva e non ci condanna, mai.
Scrivere è un gesto, un atto, come fare il pane, come uccidere, come costruire un ponte, come fare il falegname.
Non ti rende diverso, né migliore né peggiore, non ti consegna qualcosa di diverso da dare, qualcosa di più profondo da esprimere.
Io posso aver scritto il pasto grigio, e tu il più grande capolavoro dell’italica letteratura, ma poi nessuno di noi avrà chiaro il mistero iniquo di questo vivere. Sia che tu scriva sia che tu impasti una pizza margherita, beh quel nulla che tu credi di dilazionare con le parole ti farà suo, come farà suo ogni cosa.

Ammiro il tuo entusiamo, sinceramente, ammiro anche la tua intelligenza, ma c’è nella tua prolusione una ’speranza’ che mi sembra non faccia troppo i conti con il tragico della vita.
Forse il vero problema tonino non è vivere al passato, e operare in modo che il presente appena vissuto, e il futuro appena dietro diventino subito passato; no non è questo il problema.
E’ capire che la speranza non è la negazione del tragico.
Paolo, san, se mi ricordo bene, ma potrei sbagliare, dice una cosa del genere: che Cristo si è fatto peccato per salvarci.
Ecco nel tuo intervento manca questo passaggio, manca completamente.
O forse sono io, solito cieco e ottuso, che non l’ho veduto.

d.

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