Il sacro oltre lo scandalo
Ho il piacere di annunciarvi che è appena uscito il volume: Walter ONG, Il sacro oltre lo scandalo. Hopkins, il sé e Dio (Milano, Medusa, 2009) per il quale ho scritto la postfazione.
Walter Jackson Ong, celebre per i suoi studi sulla storia della scrittura e della oralità, allievo di Marshall McLuhan, è una figura interessantissima nel panorama multidisciplinare della letteratura intesa come meditazione, uno scenario, dunque, non afflitto da specialisti ma aperto alla poesia intesa come via d’accesso al bello e al bene, alla beatitudine. In questo volume, Ong attraversa con densità e partecipazione i meandri e gli slanci dell’opera di Gerald Manley Hopkins, il grande poeta e mistico dell’Ottocento, riscoperto con ardore nel primo dopoguerra e assunto tra i maestri di intere generazioni. Ma l’originalità delle letture di Ong consiste soprattutto nel porre in luce l’elemento fondativo dell’arte di Hopkins, il suo insistere sull’identità, il Self, come chiave per meditare la presenza reale, incarnata, dì Dio nell’intimo di ciascuna persona.
Hopkins non fu l’unico dei poeti dell’età vittoriana a mettere in luce la questione del sé o del “paesaggio interiore”; ma l’intensità e l’acuto senso di pienezza esistenziale che emerge dai suoi versi lo rendono unico nel suo genere. Ong, in queste lezioni presentate per la prima volta in italiano, chiarisce il senso di questa unicità. Hopkins fu profondamente influenzato dalla teologia colta come cifra ascetica della cesura epocale del suo secolo segnato da profonde e irreversibili crisi di identità. Ma proprio l’identità così sollecitata, l’ansia di libertà, lo sbocco sublime e gioioso nella propria finitezza e nell’eterno che da essa è rivelato, costituisce non già il vincolo, ma la breccia dalla quale il canto di Hopkins irrompe, come un “canto nuovo”, arduo alle orecchie disincantate del postmoderno, ma ancora, inesorabilmente, capace di commuovere.
Ecco una parte della mia postfazione che è apparsa come articolo sul quotidiano Avvenire
Hopkins: gli Esercizi del poeta-gesuita
Come «salvare la bellezza, trattenerla, la bellezza, bellezza … dallo svanire lontano?», si chiede Gerard Manley Hopkins in una splendida poesia dal titolo The Leaden Echo and The Golden Echo, dedicata a quell’«eco di piombo e a quell’eco d’oro» che risuonano nella vita di ogni essere umano. L’eco di piombo è quella che ci fa credere che tutto passa, e che i «messaggeri di grigio» (messengers of grey) — grigio che è più che semplice «canizie» — sono i più veritieri nella nostra vita perché ci annunciano rughe e corruzione.
Ma ecco che l’eco d’oro si diffonde per dire che c’è un well where, un luogo buono, beato, dove tutto ciò che di noi è fresco ma presto sfugge non vola più via (everything that’s fresh and fast flying of us… never fleets more). E dov’è questo luogo? Risponde Hopkins: Yonder, yes yonder, yonder, / Yonder: «Più in là, sì più in là, più in là, più in là…».
C’è una ulteriorità che custodisce l’essere con cura amorosa (is kept with fonder a care). Lo sguardo di Gerard Manley Hopkins su ciò che esiste si distende da questa ulteriorità. Egli vede ciò che ha davanti a sé, ma la sua visione è a partire da un occhio che vede oltre e permette di superare il destino di corruzione di ogni cosa. Proprio questo sguardo spirituale sulle cose permette al poeta di aprire gli occhi che, altrimenti, resterebbero socchiusi.
E che cosa vede Hopkins? Per saperlo occorre innanzitutto sfogliare i suoi primi diari e il suo Journal di schizzi e disegni che ritraggono in immagini e in parole oggetti, cose della natura nei loro dettagli più minuti, con una cura che è frutto non di ostinazione ma di estrema attenzione. Ciò che appare evidente leggendo Hopkins è il suo sguardo sulle cose.
Esso sembra dimenticare che tutte hanno qualcosa in comune, cioè il fatto di essere. Tutte sembrano colte nella loro assoluta e irriducibile singolarità. La cura del dettaglio non è mai tensione ornamentale e gusto del particolare, ma riconoscimento, giustizia resa all’identità della «cosa» che viene colta con l’intuizione che riconosce in essa non un oggetto tra i tanti, ma un vero e proprio mondo in sé. Ed ecco che vengono in mente le parole del grande poeta vittoriano William Blake, che in Auguries of Innocence invitava a «Vedere un mondo in un granello di sabbia,/ e un cielo in un fiore selvaggio./ Chiudere l’infinito in un palmo di mano/ e l’eternità in un’ora».
Qui Blake sembra davvero citare un detto attribuito a Ignazio di Loyola, il fondatore della Compagnia di Gesù, di cui Hopkins faceva parte: «Non coerceri a maximo sed contineri a minimo divinum est», cioè: è divino non essere ristretti neanche dallo spazio più ampio possibile ed essere capaci di essere contenuti dallo spazio più ristretto possibile.
Questo «precisionismo», se così possiamo definirlo, sarà determinante nella poetica di scrittori quali Hemingway o Faulkner, e ha in Hopkins una radice solida. Esso si innesta in una sensibilità, quella vittoriana, e da essa si sviluppa. Walter Ong (1912-2003), gesuita come Hopkins, ha le caratteristiche giuste e la formazione necessaria per comprenderla, essendo stato il poeta un suo grande amore: Marshall McLuhan fu supervisore della sua tesi di master in Inglese proprio su Hopkins presso la Saint Louis University (1941). A questo primo diploma, successivamente, faranno seguito gli studi di filosofia e teologia, presso la stessa università, dove insegnerà per 30 anni, e il dottorato ad Harvard. Hopkins è stato scoperto tardi, dopo la sua morte, e questo ha fatto sì, vista la modernità della sua poesia, che lo si vedesse in maniera astratta rispetto
all’humus culturale del quale si era nutrito. Ong rende giustizia a queste radici solide, e fa comprendere in pagine luminose come e perché il poeta gesuita abbia sviluppato la sua originale ispirazione. Seguendo Ignazio di Loyola, Hopkins scopre nel sé il luogo in cui lo «spirito buono» o «spirito cattivo» causano mozioni di «consola-zione» e «desolazione». È consolazione quella gioia che porta l’uomo ad amare ogni cosa per Dio stesso.
È desolazione la situazione affettiva dell’uomo che si sente separato dal suo Creatore e Signore. Da qui il compito di «in qualche maniera sentire e conoscere le varie mozioni che si causano nell’anima: per ricevere le buone e respingere le cattive» (Esercizi, 313). Si comprende così il valore e il senso della contrapposizione dell’«eco di piombo» e dell’«eco d’oro».
La riflessione di Ong, gesuita come Hopkins, si concentra nel contestualizzare culturalmente, filosoficamente e teologicamente il sé di Hopkins e il suo rivolgersi al mondo e alla sua relazione con Dio. Ne risulta un grande affresco, ricchissimo di suggestioni e rinvii per comprendere non solamente la poesia di Hopkins, ma anche la coscienza moderna. Proprio il confronto strenuo e continuo del poeta con il sé, l’io unico e irripetibile di ciascuno, certifica la sua piena appartenenza all’età moderna. Divenire sé è il processo cruciale per l’esistenza umana.
Ma il processo di selving, di divenire sé, è incompiuto: il suo luogo, come si è visto è, resterà fino al fuoco trasformante e trasfigurante della resurrezione, yonder, al di là, oltre.
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