L'incanto dell'inizio e il rischio della fine
Il mio sguardo si posa su una pagina completamente bianca e nella mente si fa strada un semplice pensiero: per uno scrittore e per una scrittrice il contatto con quella pagina è l’affascinante esperienza di un inizio. In tale esperienza si mescolano emozioni diverse: l’attesa della prima parola, la paura di sbagliare, la speranza di una promessa dettata dall’intuizione, il bisogno di scegliere la strada giusta, attraverso un groviglio di ricordi, immagini di istanti da ricomporre, pagine di libri e di versi incontrati in tempi diversi, i sogni, l’urgenza di non perdere di vista il senso e le impressioni di un momento. Ma l’occhio della mente va oltre la vuota pagina bianca lasciando liberi i pensieri e, nel groviglio dei concetti ancora inespressi, domina su tutti il sentimento della possibilità: il trovarsi nell’istante in cui niente è ancora definito, dove si è pronti a scegliere una tra molteplici direzioni, una tra innumerevoli parole, una tra tutte le possibili modalità per continuare.
Nel momento in cui, dinanzi alla pagina ancora bianca, il pensiero compirà la sua scelta, la prima parola trovata, la prima direzione immaginata, il primo modo ideato porteranno con sé la fine dell’inizio. L’esperienza dell’istante in cui niente è ancora termina quando incomincia l’esperienza della continuazione, dove il primo, sia esso parola, pensiero, immagine, ricordo, diviene il faro che indica la strada, una guida sicura per non dimenticare l’intento da cui si era partititi, dove l’inizio assume solamente la figura del punto di inizio.
Tale punto irremovibile rimane alla memoria come il momento del prima di, rivissuto ogni qual volta si ripeterà l’esperienza di porre lo sguardo dinanzi a un’altra pagina bianca. Nel prima di si incontra l’istante dell’inizio, un momento in cui il pensiero trattiene in un fiato l’insieme dei qualcosa che guideranno con sicurezza la mano a trasformare un foglio bianco in un pezzo di vita.
Nel 1958 Hannah Arendt, teorica dell’azione e di un pensiero filosofico che si sposti dalle alture metafisiche alla realtà umana concreta e contraddittoria nella sua complessità, in una pagina del saggio Vita activa, scriveva:
Con la parola e con l’agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento, è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale. Il suo impulso scaturisce da quel cominciamento che corrisponde alla nostra nascita, e a cui reagiamo iniziando qualcosa di nuovo di nostra iniziativa. Agire, nel senso più generale, significa prendere un’iniziativa, iniziare. Poiché sono initium, nuovi venuti e iniziatori grazie alla nascita, gli uomini prendono l’iniziativa, sono pronti all’azione. Questo inizio non è come l’inizio del mondo, non è l’inizio di qualcosa ma di qualcuno, che è a sua volta un iniziatore. Con la creazione dell’uomo, il principio del cominciamento entrò nel mondo stesso, e questo, naturalmente, è solo un altro modo per dire che il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo, ma non prima.
[H.Arendt, Vita activa, Bompiani, Milano 1964, p. 128]
Per la Arendt l’inizio contiene in sé un’azione unica nel suo genere: portare qualcosa di nuovo. L’inizio e il nuovo si avvicinano, sono compagni e divengono il punto di riferimento prima di trasformarsi in un progetto, in un percorso definito, in un groviglio di pensieri e emozioni che raccontano una storia. Il nuovo che accompagna l’inizio è un’incognita, indefinito nel suo non essere ancora completamente vissuto e colmo di promesse. L’immagine dello scrittore o della scrittrice, sorpresi a fissare un punto nel vuoto, riesce forse a inseguire questo momento in cui il nuovo è da scoprire, dove l’esperienza dell’inizio diviene il sentimento di una possibilità di, che si apre alla mente e passa per le mani del compositore attraverso le parole. Mentre, passo dopo passo, la pagina perde il suo colore iniziale, l’esperienza dell’inizio diviene esperienza della continuazione.
Nel suo significato etimologico, la parola inizio (lat. initium) indica una modalità di azione (come il termine greco archein): avviare, introdurre a, principiare, condurre, incominciare. L’inizio si lega, così, ad un’azione e ad una situazione, entrambe imbrigliate nella temporalità. Questi tre elementi si confondono nello sguardo piegato sulla pagina bianca: l’istante del prima di è un momento che reca in sé la percezione di ciò che non è ancora e sopporta il grande carico, come la nave pronta a salpare carica di libri, metaforicamente ricordi, soggetto di una lirica di Ingeborg Bachmann, di ciò che non è più.
Nella riflessione sull’inizio, la Arendt individua in esso una potenzialità aperta ad ogni campo dell’agire umano, dal pensiero alla partecipazione attiva nella dimensione pubblica e sociale. Rispetto alla situazione della pagina bianca e dell’individuo che si accinge a cominciare qualcosa di nuovo, l’azione dell’inizio non può non relazionarsi al pensiero: l’istante in cui il progetto del nuovo e l’esperienza precedente si incontrano, prima di divenire un continuo immesso in una strada sua propria, è momento del pensiero, nasce nella mente di chi si trova a decidere, tra le molteplici possibilità, come incominciare. Nel pensiero, rispetto all’atto di iniziare, la speranza che accompagna il progetto di ciò che non è ancora e quello che rimane nel ricordo del già stato si relazionano come termini di un processo in divenire, non concluso. In questo processo la peculiarità del pensiero diviene quella di riuscire a individuare il nocciolo dell’inizio e richiamarlo ogni volta che sovviene la necessità, il desiderio, la scelta di aprire una pagina bianca e riversarle dentro ogni immaginazione e ogni speranza di progetto. È da questa prospettiva che mi piace leggere alcune parole della Arendt: «Dal punto di vista pratico, pensare vuol dire che ogni volta che ci troviamo di fronte a qualche difficoltà nella vita siamo costretti a decidere ripartendo da zero» .
L’esperienza dell’inizio rivela un carattere temporale, conquista un primato di presenza nel pensiero, raccoglie briciole di vita passata e immagini progettuali a cui aggrapparsi in una muta promessa, celata dinanzi al foglio ancora vuoto. E quando la prima parola si avvicina, l’inizio si trasforma divenendo un principio, un punto sbiadito da cui si era partiti e a cui, nel tempo, potrebbero sovrapporsi altri inizi. Così, ogni qualvolta ci sarà una nuova pagina bianca, un altro inizio verrà a proporsi in altre direzioni o in altri modi, sempre di nuovo. L’esperienza dell’inizio e degli inizi si ripete ogni volta come la prima volta, ma con qualcosa di nuovo da introdurre nell’azione e nell’idea dell’azione:
L’uomo è libero perché è un inizio. Con la nascita di ogni uomo si riafferma quell’originario inizio, in quanto con ogni nascita si introduce qualcosa di nuovo in un modo preesistente e che continuerà a esistere dopo la morte di ciascun individuo. È proprio in quanto è un inizio, l’uomo può dare inizio a cose nuove: umanità e libertà coincidono. Dio ha creato l’uomo per introdurre nel mondo la facoltà del dare inizio: la libertà .
La componente della libertà entra in gioco nello sviluppo del concetto dell’inizio, a fianco dell’elemento temporale e dell’influenza determinante del pensiero. Limitatamente a questa espressione arendtiana, l’inizio coincide con la nascita dove la potenzialità di creare un nuovo viene riaffermata come atto intriso di una libertà originaria. La prospettiva dell’inizio nel pensiero della Arendt è indissolubile dalla dimensione della natalità, poiché ogni argomento teso a sviluppare l’azione iniziale fa riferimento a quel primo atto di inizio che per la Arendt risiede nella generazione di una nuova vita, con cui vengono affermate la prima capacità di introdurre un nuovo e la possibilità di essere un inizio. In questa prospettiva, dalla nascita, prima esperienza dell’inizio, si può allungare lo sguardo del pensiero ad altri modi in cui ritrovare l’atto dell’iniziare, in quanto quella componente della libertà, indispensabile al discorso arendtiano per affermare il mito dell’inizio nella nascita, diviene un elemento di riferimento importante: idealmente, il presupposto perché si traduca in pratica il potere operare introducendo qualcosa di nuovo è che sia presente la condizione di libertà in cui dovrebbe trovarsi ad agire ogni uomo. Nell’esempio di una pagina bianca su cui si posa lo sguardo di un compositore di parole, la guida verso la comprensione della piena esperienza di un inizio o di altri inizi potrebbe essere ritrovata in una fedele adesione al proprio essere libero ed in un integro rispetto del proprio compito di pensatore.
Quando mi sono ritrovata a pensare al modo in cui snocciolare l’argomento per il mio primo articolo su Bombasicilia, non riuscivo a trovare nulla che mi convincesse abbastanza da superare la prima pagina, poi ho pensato che la strada più vicina a me sarebbe stata quella di immaginare l’inizio e la fine in rapporto alla scrittura. Non so se è la scelta più giusta, ma è quella più vera. Come nella vita, nelle diverse situazioni in cui veniamo a trovarci, nelle emozioni in cui ci troviamo coinvolti, pur avendo un mondo nel cuore, non riusciamo a esprimerlo (come ripete Fabrizio De André in una sua canzone), così dinanzi a una pagina bianca la difficoltà non è la prima parola, ma continuare, andare fino in fondo, attraversare quella direzione che si è scelta tra le tante possibili, incontrare il nuovo e farne esperienza per intero. Ricordando come ci si trova dinanzi a una pagina bianca, ho pensato a tre momenti significativi quali esperienze sorte dalla relazione a quella pagina: quella dell’inizio, della continuazione e una legata alla fine.
L’esperienza della continuazione la penso come una reiterazione della capacità insita nel momento iniziale che si muove in una progressiva composizione, sull’onda dell’intuizione e del ricordo dell’imput iniziale: proseguire colmando il vuoto della prima, della seconda, della terza pagina in un allontanamento dal punto iniziale, mantenuto come un presente costante a cui rivolgersi. Il continuare, rispetto all’inizio, diviene una sorta di comprensione costruttiva, proiettata in una complessa architettura di espressioni tese a rendere concreto il vago sentimento dell’inizio da cui si parte. Passo dopo passo questo continuo creare e trasformare attraverso il pensiero e le parole diviene il senso dell’operare di uno scrittore e di una scrittrice, la responsabilità di non abbandonare l’inizio da cui si era partititi e svolgerlo per condurlo a termine. L’esperienza della continuazione si dirama per differenti vie e l’intuizione guida le strane creature della scrittura, si arrampica, come l’edera tra le pietre e i muri, tra i diversi angoli di mondo in cui cresce e rinvigorisce il pensiero.
Nel suo ultimo romanzo, Istanbul, Orhan Pamuk usa il proprio sguardo per dipingere un ritratto profondo e vissuto della città sospesa tra un passato glorioso e un presente difficile nascosto nella solitudine. Il pregio è nell’uso che Pamuk fa della scrittura, lasciando che divenga un ponte ideale tra una grossa città e un bambino adolescente con un cuore che batte per trovare la propria strada. In base a questo uso, la scrittura si mostra come una forza in grado di svelare, passo dopo passo, l’anima profonda di Istanbul e, parallelamente, ciò che si cela nell’animo inquieto di un giovane Pamuk, fino alla chiusura finale in cui trova uno sbocco il continuo lavoro silenzioso della scrittura, nell’ammissione della propria scelta, dinanzi alla madre: «Non diventerò pittore, diventerò scrittore, io» . Lo stupore per chi legge risiede che tra l’iniziale descrizione del bambino, incantato dai battelli che attraversano il Bosforo e una conclusione che cela in sé una nuova storia, un altro percorso, passa un’intera vicenda collettiva al di fuori del tempo, in grado di catalizzare l’attenzione su come quel ponte colleghi tempi diversi e differenti azioni.
La pagina bianca è mutata nel suo colore, quel momento prima di una scelta è divenuto la voce di un bambino convinto dell’esistenza di un suo gemello (Il bambino in questione è il giovane Pamuk: si tratta dell’incipit del romanzo ) e la via intrapresa, continuando a penetrare nella ricerca di un altro, ha trasformato lo sguardo iniziale in una storia. Quello che rimane è una conclusione, una fine parziale, dove il bambino tenta di afferrare il suo sogno. Fuori dall’esempio fornito dalle pagine di Pamuk, il punto finale, in cui quella che era la pagina bianca diviene l’ultima pagina, offre al pensiero un argomento di domanda: che cosa rappresenta la fine in un lavoro di scrittura? Io credo che ci sia di più di una chiusura della storia o dei versi composti. La fine non è semplicemente una fine, è una soglia a cui si giunge e da cui si riparte, rincorrendo un altro inizio, un’altra intuizione. La fine invita lo sguardo del pensiero a porsi oltre, a immaginare l’intera storia narrata e letta da un’altra angolatura, alla luce di un senso conquistato passo dopo passo, impone a colui che ha tentato di riempire le pagine bianche il confronto con ciò che si è portato alla luce, indica un rischio: l’abbandono di una via conosciuta per un vuoto in cui niente è ancora definito. Quando si arriva alla fine, sia essa, per esempio, la scelta di un adolescente solitario oppure il sorriso di un uomo che offre il proprio cuore a una seconda nascita, dopo essersi spinto attraverso l’estremo sopito nello spirito, qualcosa rimane: l’immaginazione di un altro inizio, il rischio di trovarsi su una soglia dove deporre ogni saputo e il tremito nel lasciare vagare lo sguardo oltre una pagina bianca.
Bellissimo pezzo, complimenti Simona!