C.S.Lewis, una breve introduzione

Mentre nell’assolata e affollata Dallas il più “giovane” Presidente degli Stati Uniti cadeva sotto i colpi di ignoti sicari, dall’altra parte dell’oceano, si spegneva, nel silenzio della più profonda solitudine, un oscuro vedovo e professore di filologia di Cambridge: Clive Staple Lewis, per gli amici, “Jack”. Sette giorni dopo, il 29 novembre di quell’anno, Jack Lewis avrebbe compiuto 65 anni essendo nato esattamente cento anni fa, a Belfast. Ma chi fu questo professore dal nome così comune? Nei paesi anglosassoni, soprattutto qualche anno fa, questa domanda avrebbe provocato un’immediata risposta: “Ma come, l’autore de “Le lettere di Berlicche” e delle “Cronache di Narnia”!”
Qualche problema si pone, purtroppo, nel nostro strano paese, spesso così provinciale da costituire delle vere e proprie conventiones ad escludendum verso alcuni autori o, addirittura verso alcuni generi. Lewis, oltre a possedere l’handicap di essere un apologeta cristiano, aveva anche l’aggravante di scrivere libri facilmente etichettabili (e quindi condannabili ad un facile oblio) come, appunto, “Le Cronache di Narnia”, una grande fiaba per bambini, o come la trilogia fantascientifica di “Perelandra” (ma potrà mai uscire qualcosa di buono dalla fantascienza?).

Questi libri, che insieme alle “Lettere di Berlicche”, hanno dato successo e celebrità a Lewis in Gran Bretagna e in Nord America, solo di recente sono stati pubblicati in Italia, dove l’interesse per lo scrittore è in qualche modo rinato (dopo decenni di pubblicazioni presso piccole case editrice cattoliche) grazie al grande successo di quel bel film che è “Viaggio in Inghilterra” di Richard Attenborough, dove, come sempre magistralmente, Anthony Hopkins ha dato un volto all’oscuro professore anglo-irlandese. Prima di questa riuscita pellicola, il nome di Lewis, nell’Italia degli ultimi 15 anni, era collegato e oscurato dal nome del suo più famoso amico, quel J.R.R.Tolkien che con “Il signore degli anelli” (realizzato anche grazie all’insistenza e all’incoraggiamento di Jack) è diventato un autore di culto in tutto il mondo.

Parlare di Lewis, considerata la poliedricità del suo genio, non è cosa semplice ed è forse necessario distinguere vari piani e livelli.

Innanzitutto si potrebbe suddividere la sua vasta produzione (molto più variegata di quella dell’amico e collega Tolkien) secondo il genere: troveremo allora, accanto alle allegre novelle per bambini delle “Cronache di Narnia” (ricche, come ogni fiaba che si rispetti, di profondi risvolti morali), dotti e originali saggi di filologia (“L’allegoria d’amore” e “L’immagine scartatain primis), insieme alla narrativa fantascientifica gli scritti autobiografici (“Sorpreso dalla gioia” e “Diario di un dolore”), una infinita produzione epistolare (reale o fittizia come nel celebre caso delle “Lettere di Berlicche”) e un altrettanto vasta bibliografia legata alle conferenze che il professore svolgeva abitualmente a difesa di quella fede conquistata solo nella maturità.

Questa attività di “conferenziere cristiano”, insieme all’ampiezza degli interessi e dei campi investigati, fanno di Lewis un degno epigone di G.K.Chesterton, scomparso nel 1936, proprio quando il giovane professore di Cambridge incominciava ad approfondire la sua fede e la sua cultura filologica e teologica (e la lettura delle opere di Chesterton, insieme alle interminabili chiacchierate con l’amico cattolico Tolkien, contribuirono a questa difficile conversione).

Si potrebbe inoltre seguire il criterio di distinguere l’autore dall’uomo e scegliere di parlare dell’uno o dell’altro, ma questa operazione, generalmente complicata, nel caso di Lewis diventa un rischioso azzardo. Una delle caratteristiche peculiari di buona parte della sua produzione, infatti, è l’alto grado di trasparenza tra vita e scrittura, tra i suoi libri e il proprio mondo interiore che Lewis ha esplorato con spietata meticolosità e offerto al pubblico con altrettanta spietata generosità.

Il caso più emblematico di questa stretta identità tra la pagina scritta e l’esperienza reale, è quel piccolo capolavoro che è “Diario di un dolore”, uno dei più brevi e degli ultimi lavori di Lewis.

È riduttivo definire questo libro (che sta alla base del film “Viaggio in Inghilterra”) un’opera semplicemente autobiografica. Lewis, peraltro, pubblicò questo libro, nel 1961, sotto pseudonimo (N.W.Clerck) e volutamente non cita mai un nome ma solo delle iniziali, della moglie, Helen Joy Gresham, sposata 5 anni prima e morta pochi giorni prima.

Diario di un dolore” è, come indica il titolo (ancora più efficace quello originale, “A grief observed”), l’osservazione lucida, fredda, di tutto quello che il cuore e il corpo umano avvertono di fronte ad un dolore immenso come quello legato alla perdita della persona amata.

E’ un’esperienza molto forte leggere queste 80 paginette: sembra che l’uomo e lo scrittore si siano annientati e che a scrivere sia una macchina che registra le scosse e i piccoli movimenti del cuore. Più che dell’opera di un letterato, ci troviamo davanti al referto di un elettrocardiogramma.

Poche volte uno scrittore si era offerto così apertamente nella sua umana fragilità, nudo e indifeso all’occhio del lettore. Per esempio, riflettendo sulla morte della moglie, Lewis imposta tutto il problema in termini religiosi, ma con questa avvertenza: “Parlatemi della verità della religione e ascolterò con gioia. Parlatemi del dovere della religione e ascolterò con umiltà. Ma non venite a parlarmi delle consolazioni della religione, o sospetterò che non capite”.

La lettura del “Diario” permette di rivedere, a ritroso, tutta l’esperienza, umana e letteraria, di C.S.Lewis, un’esperienza segnata dal marchio della ricerca e dell’inquietitudine. Diversamente con quello che accade per molti uomini, più si torna indietro negli anni e più si scopre che in Lewis quest’animo inquieto, contraddittorio. Ricordando gli anni della gioventù, in “Sorpreso dalla gioia” (in originale il titolo, “Surprised by Joy” è un gioco di parole col nome della moglie), Lewis confessa: “Come molti atei vivevo allora in un vortice di contraddizioni. Sostenevo che Dio non esiste. Ero anche molto arrabbiato con Dio per il fatto che non esisteva. E ce l’avevo con lui anche perché aveva creato il mondo.”

A toglierlo dalle grinfie dell’ateismo ci pensò il buon collega Tolkien quando si conobbero a Oxford: “L’amicizia con quest’ultimo segnò il declino di due antichi pregiudizi:”, ricorda Lewis sempre nella sua autobiografia “alla mia venuta al mondo mi avevano (tacitamente) avvertito di non fidarmi mai di un papista e (apertamente) al mio arrivo alla facoltà di inglese di non fidarmi mai di un filologo. Tolkien era l’uno e l’altro.”
Questa amicizia segnò Lewis per il resto della vita e tutta la sua opera, anche quella apparentemente più distante, parla di questo rapporto. È sufficiente leggere un saggio come “I 4 amori” per rendersene conto: quando Lewis prende in esame l’amicizia, vivisezionando con la solita freddezza scientifica quello che chiama il “sentimento più innaturale dell’uomo” (perché “Senza l’eros nessuno di noi sarebbe stato generato, e senza l’affetto nessuno di noi avrebbe ricevuto un’educazione; al contrario si può vivere e riprodursi anche senza l’amicizia”), non fa altro che ripercorrere il rapporto d’amicizia con il suo più famoso compagno con il quale ebbe forti identità di vedute insieme a grandi scontri e incomprensioni (ma “Niente può farci sembrare vicino un amico lontano quanto un dissenso” come scrive nell’ultimo libro, uscito postumo, “Lettere a Malcom”). L’idea, cristiana e “tolkieniana”, dell’arte come “sub-creazione”, Lewis la fa sua al punto da parlarne al suo ultimo amico, l’oscuro Malcom, a cui ricorda che “Noi uomini, anche noi poeti, musicisti e inventori, non siamo mai in grado di creare, nel senso proprio del termine. Ci limitiamo a costruire: abbiamo sempre dei materiali da utilizzare….Gli autentici pagani sapevano che qualunque mendicante si presentasse alla porta poteva essere un dio travestito; e la parabola delle pecore e dei capri è il commento di Nostro Signore. Ogni minima cosa che farete, o non farete, al mendicante, la farete, o non la farete, a Lui”.
Se Tolkien liberò lo spirito prigioniero di Lewis, l’avvento di una donna come Joy Gresham (poetessa ebrea americana, madre e divorziata) liberò la mente e il corpo dello scrittore dalla tante gabbie e paure che opprimevano questo profondo conoscitore del cuore umano.

Sta qui quella vicenda paradossale della vita di Lewis (ben ritratta dal film di Attenborough): uno “studioso di laboratorio” dei sentimenti umani, in particolare dell’amore e del dolore, esperto al punto da girare il mondo per offrire agli altri le sue raffinate riflessioni su queste materie, una volta che si trova di fronte alla cruda realtà della passione amorosa e della sofferenza, vissute entrambi sulla propria pelle, ecco che si trova impreparato, indifeso, balbettante.

Della terribilità dell’amore Lewis sembrava essere a conoscenza, visto che ne “I 4 amori” aveva scritto “Non esiste investimento sicuro: amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili… L’alternativa al rischio di una tragedia, è la dannazione. L’unico posto, oltre al cielo, dove potrete stare perfettamente al sicuro da tutti i pericoli e i turbamenti dell’amore è l’Inferno. Sono convinto che il più sregolato e smodato degli affetti contrasta meno la volontà di Dio di una mancanza d’amore volontariamente ricercata per autoproteggerci. È lo stesso che nascondere un talento in una buca sotto terra, e per le stesse ragioni: “So che tu sei un uomo duro”…” , eppure, leggendo “Diario di un dolore” o vedendo “Viaggio in Inghilterra”, si scoprirà un uomo disarmato, che si sente come braccato e rinchiuso in un incubo infernale.

Anche dell’Inferno, Lewis era un “esperto”. La prova è il suo più famoso libretto, “Le lettere di Berlicche”, dedicato all’amico Tolkien (che lo trovò troppo “sulfureo”): una corrispondenza inventata tra il giovane diavolo Malacoda e l’anziano ed esperto Berlicche, uno dei diavoli ammessi ai gironi più alti (o più bassi?). Oggetto della corrispondenza è la missione di Malacoda: la dannazione dell’anima di un uomo. Ne esce fuori una sorta di “catechismo rovesciato”, una dimostrazione di profonda conoscenza da parte dell’autore della psicologia umana e, forse, anche della psicologia luciferina!

Può sorprendere in questo senso (ma solo i lettori superficiali) l’affermazione contenuta nella premessa al libro che Lewis redige il 5 luglio 1941: “La storia della guerra in Europa, eccetto nei casi sporadici in cui interferisce nella condizione spirituale di un essere umano, è evidente che non interessava a Berlicche”.
Così come può sorprendere il seguente racconto che Lewis fa all’amico Malcom, “Una volta parlai con un pastore del continente che aveva visto Hitler e che, in base a tutti i metri di giudizio umani, aveva buone ragioni per odiarlo. “Che aspetto aveva?” gli domandai “Come quello di tutti gli altri uomini” mi rispose “cioè simile a Cristo”, ma bisogna tener presente che ciò che muove lo scrittore è un forte spirito critico ed un’intelligenza rigorosa che, non a caso trovò in un poeta “intellettuale” come Borges un convinto ammiratore.

Il gusto del paradosso, lo humour frutto dell’intelligenza, un’appassionata fede nel cristianesimo hanno fatto di Lewis un autore scomodo e (almeno in Italia) “rimosso”.

Borges, parlando di Chesterton, ebbe a dire: “Le opinioni politiche sono quanto di meno importante possa esserci, di più superficiale. Ridurre un uomo di genio come Chesterton alla sola condizione di cattolico è un’ingiustizia”.
Lo stesso si può dire per l’anglicano Lewis, il Chesterton della seconda metà del ‘900, che peraltro, mai lasciò trapelare nelle sue opere, la sua opinione politica, se si tralascia questa piccola osservazione, presente in un’eterogenea raccolta di saggi: “Se e’ inevitabile avere un tiranno, “un barone ladrone” e’ assai meglio di un inquisitore. La crudeltà del barone può talvolta assopirsi, la sua cupidigia saziarsi; e poiché intuisce confusamente di far male, potrebbe anche pentirsi. Ma l’inquisitore, che scambia la propria crudeltà e sete di potenza e di terrore con la voce celeste, ci tormenterà all’infinito perché ci tormenta con l’approvazione della propria coscienza, e i suoi impulsi migliori gli appariranno come tentazioni.”.
Poteva avere successo in Italia?

Leggi i 2 commenti a questo articolo
  1. vikra ha detto:

    è uno scritto utile e interessante, ma ‘troppo italiano’, nel senso che ho avuto la precesa avvertenza che all’autore dell’articolo in fondo non piaceva granchè l’adorabile CSL, forse per ragioni politiche?

  2. filippo ha detto:

    Utilissimo scritto, ricco di nozioni interessanti, di approfondimenti preziosi, ma non ho potuto tollerare le insinuazioni delle ultimissime righe, mi dispiace.

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