Che cosa significa “sentirsi a casa”?

Sentirsi a casa è un’espressione comune. Tutti abbiamo l’intuizione di cosa essa significhi. Ma riflettendo su questo tema mi sono chiesto: come si dice il fatto di non sentirsi a casa. Proverò a suggerire due risposte, le prime che mi vengono in mente. Penso sia meglio così: cominciare a parlare del sentirsi a casa a partire dal suo opposto, dalla sua mancanza. Del resto, spesso nella vita si capisce l’importanza delle cose proprio quando ci vengono a mancare…

La prima è sentirsi spaesati. Che cosa significa la parola spaesamento? Significa non avere un paese e dunque non avere un paesaggio. Lo spaesato è colui che si sente disorientato, senza punti di riferimento e di orientamento, in un contesto non congeniale. Ecco, dunque, che cosa può significare sentirsi a casa: avere un pavimento e un orizzonte, stare in un contesto in cui ci si orienta, in cui è possibile muoversi. Uno spaesato non sa dove sia e non sa dove andare: sa andare ma non sa dove. La casa è l’inizio che rende possibile la nostra navigazione nello spazio: forse non è un caso che la pagina iniziale di un sito internet si chiami homepage: la pagina-casa, cioè la pagina da cui ci comincia, da cui si parte e da cui si entra. Chi si sente a casa sa riconoscere la propria collocazione nel mondo, nella vita perché ha ad-domesticato lo spazio in cui vive. L’ha reso una “casa”. Questo non significa affatto che non ci siano luoghi ignoti, cantine e soffitte. Tutt’altro! Cosa sarebbe una casa senza angoli “oscuri”, senza spazi di selva, senza ripostigli? Tutto sarebbe alla luce del sole. Sarebbe il tragico trionfo dell’illuminismo e della ragione calcolante nelle nostre vite! E questo è tipico delle case non vissute, delle vite che non trovano una casa. Tuttavia nella casa la zona oscura diventa parte di un cosmo, di una terra abitata, di oggetti e spazi addomesticati, fatti propri.

La seconda è sentirsi a disagio. Che cos’è il dis-agio? È quella sensazione che ci prende quando ci sentiamo s-comodi, in imbarazzo, quando percepiamo con forza che il nostro star lì dove siamo sia di troppo. Siamo a disagio quando non ci armonizziamo con il contesto (di relazioni umane o di ambienti) in cui siamo e non riusciamo dunque a collocarci (e tanto meno a perderci…) dentro di esso. Il disagio è frutto di un sentire troppo la propria stessa presenza sulle spalle. Come fai a sentirti a tuo agio? Quando puoi intervenire liberamente a cambiare qualcosa. Un esempio: aggiustarsi il cuscino a letto o su un divano. Un altro: slacciarsi il nodo della cravatta. Un altro: togliersi le scarpe e mettersi le ciabatte. Tutti segni che rendono evidente un agio, lo sciogliersi di qualcosa di noi in un contesto umano (amici, famiglia,…) o ambientale (tornare nella propria abitazione).

Qualche anno fa ho visitato a Oak Park (Chicago) la casa del famoso architetto Frank Lloyd Wright. Splendida. Veramente. Wright è uno dei più grandi architetti contemporanei. Tutto era di forma e dimensione giusta: la camera dei bambini aveva il soffitto basso. Anche la sala da pranzo era bassa: si poteva stare comodi solo seduti a tavola, tutto sommato. Le sedie avevano una spalliera alta che finiva con un parallelepipedo che incorniciava i volti. In quella stanza non c’erano quadri perché i veri quadri devono essere i volti delle persone incorniciate da quei rettangoli di legno. E così via. Tutto bellissimo. Tuttavia, appena arrivato fuori, ho tirato un sospiro di sollievo. Perché lì era tutto funzionale, tutto già adatto. Troppo adatto. E invece la vita non è così adatta. E la casa che vai ad abitare non può essere già tutta adatta. Deve essere addomesticata. La casa deve adattarsi a te mentre la vivi, e tu devi adattarti ad essa. C’è uno scambio dinamico tra house ed home, per usare i due distinti termini inglesi, che la nostra lingua invece riunisce. Questo significa sentirsi a casa: vivere questa relazione fatta di adattamenti, aggiustamenti, pentimenti, sistemazioni continue. È la tipica situazione del trasloco: la nuova casa va indossata ed essa deve indossare te. Come un abito: abito e abitazione hanno la stessa radice.

Come anche ha la stessa radice la parola abitudine. È interessante notare che la raccolta delle lettere di Flannery O’Connor è l’intraducibile espressione The Habit of Being, cioè letteralmente L’abitudine di essere. Qui il termine non significa meccanica e noiosa abitudine di essere a questo mondo, ma qualità essenziale, disposizione interiore a essere, a vivere. Questo è il vero e fondamentale sentirsi a casa. Allora la stessa esistenza diventa una casa, al di là di pareti, comignoli e quadri appesi. Anzi: la propria vita diventa una casa accogliente e comoda, come ha scritto il poeta islandese Sigurdur Palsson in La mia casa:

Non manca quasi niente
nella mia casa.
Quasi niente
Manca il comignolo
Ci si abitua
Mancano i muri
e i quadri sui muri
Pazienza

Non manca molto
nella mia casa
Manca il comignolo
Che per adesso non fuma
Mancano i muri
e le finestre
e la porta

Ma è accogliente, la mia casa
Prego
Accomodatevi
Non abbiate paura
Mangiamo qualcosa
Spezziamo il pane, un goccio di vino
Accendiamo il camino

Guardiamo
no, ammiriamo i quadri
sui muri

Prego
entrate dalla porta
o dalle finestre
se non dai muri.

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