Fingere

FingereCi si può fingere? Meglio: si può fingere a se stessi? E’ una domanda curiosa, ma è la prima che mi viene in mente. Che io possa fingere agli altri è cosa ovvia, almeno così sembra. Ma a se stessi? Verrebbe da rispondere di no.

Se io fingo a un altro vuol dire che io so come stanno le cose, ma faccio finta che le cose siano in maniera diversa. Diciamo dunque che per fingere devo sapere come stanno le cose. Se non so come stanno le cose non posso neanche fingere. E’ autentico senza possibilità di scelta solamente chi non sa come stanno le cose. Non lo sa e dunque non può fingere. Altra cosa è fingere di sapere se non si sa: in questo caso si sa… di non sapere. Dunque si sa perfettamente come stanno le cose.

Fingere dunque è la traccia del fatto che l’uomo si rende conto, è capace di sapere come stanno le cose: non si appiattisce su quel che vive subendolo passivamente, ma sa cosa accade e cosa gli accade. Poi l’uomo ha anche la libertà di agire come se le cose stessero in un altro modo, come se la realtà fosse diversa da quel che è o è stata. Non può immaginare invece che il futuro vada in un altro modo rispetto a come sarà proprio perché ancora non è. Non si può fingere il futuro. Ma non è però così vero. L’uomo ha capacità di prevedere il futuro, in realtà. Non di immaginare di sana pianta ciò che sarà davvero, ma di fare una raccolta di dati e di fare dei calcoli di previsione. E dunque si può fingere su questi calcoli, si può fingere persino sul futuro. E anche questa è una grande prova della grandezza dell’uomo: non solo si rende conto, ma può persino immaginare che le cose possano andare in un altro modo di come dovrebbero.

La capacità di finzione dunque dice che l’uomo è razionale, conosce il mondo, si rende conto, è in grado di prevedere, è in grado di immaginare ciò che non c’è, è libero, è capace di raccontare storie… L’uomo è tale perché è un potenziale fingitore. Un uomo incapace di fingere non è un uomo, dunque. Se uno non vuole fingere è un galantuomo. Ma un uomo che facesse molta fatica a fingere allora sarebbe un uomo davvero poco interessante. Una parte dell’interesse di una persona sta nella sua capacità (e sottolineo capacità) di finzione.

Ma proprio perché così delicata, questa capacità è rischiosissima. Perché? Perché apre un varco tra la realtà e il mio modo di presentarla agli altri. Fingere significa mostrare qualcosa che non esiste ma che ha la forma di ciò che esiste. Si gioca col nulla. La finzione è uno specchio che riflette un’immagine inesistente. Ma solo questa possibilità rende possibile, paradossalmente, la possibilità di un mio rapporto sano col mondo. Ma fin qui parliamo di una finzione che riguarda altro o altri.

Ma io? Io posso fingere a me stesso? Fingere a se stessi implica una cosa pazzesca: il sapere come stanno le cose ma nello stesso tempo non saperlo. Sarebbe qualcosa di più che il semplice “fare come se” non fosse. E’ pretendere una cancellazione. E’ come se l’ignoranza diventasse una malattia autoimmune. In un appunto scritto poco prima della sua morte Pier Vittorio Tondelli scrive: “h. 4, 15 quello che il destino mi ha poi riservato non è stato tanto, come avrei creduto, un percorso o, forse una evoluzione verso l’assoluto della scrittura e della finzione più alta” L’espressione “della finzione più alta” è cancellata e sostituita con “letteratura”. E poi prosegue: “quanto un ritorno rovente al mondo del mio primo libro”. Se si vive nella finzione, per quanto alta, si è lontani da una presenza rovente al proprio mondo. La finzione pone una scollatura tra ciò che è il mio mondo e il modo di comprenderlo in funzione della vita. Se io fingessi a me stesso vivrei la vita di un altro, vivrei la vita di una immagine che io vedo davanti allo specchio ma che non è la mia.

E’ mai possibile? Non lo so. Credo sia possibile approssimarsi a questo ma non realizzarlo pienamente. Forse troviamo un equilibrio in Leopardi in quel suo verso: “Io nel pensier mi fingo”. Leopardi “si finge”. Nel suo Infinito la siepe esclude lo sguardo dell’ultimo orizzonte. Allora il poeta, sedendo e mirando, si finge nel pensiero spazi interminati, sovrumani silenzi, profondissima quiete. La barriera, l’ostacolo è solo spunto creativo per “mirare” spazi e silenzi e quiete: interminati, sovrumani, profondissimi. La capacità creativa prende spunto dal limite e dalla separazione. La visione è interiore, gli occhi forse sono socchiusi. L’anima ha come il bisogno di “fingersi”, figurarsi l’infinito. Qui “fingersi” è immaginare, certo. Ma quel che mi preme osservare è l’indicazione di luogo “nel pensier”. Leopardi non dice “io mi fingo”, ma dice “io nel pensier mi fingo”. Cioè individua dentro di sé un luogo franco dove è possibile che io mi finga senza che la mia finzione mi scolli dalla realtà che ho davanti. Quello è anche il luogo in cui è possibile “fingersi” le cose importanti della vita: l’amore, l’infinito, ciò che non vediamo ma che sappiamo esistere perché di esso ne abbiamo l’intuizione.

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  1. Andrea Monda ha detto:

    ho letto, non ho capito molto, troppo complicato per i miei gusti, dovrò leggere e rileggere, bene! ma una domanda preliminare: l’immagine da dove è tratta e di chi è? mi piace!

  2. melania ha detto:

    Leopardi dice “nel pensier mi fingo”…
    Riprendo con molto interesse lo spunto di Antonio sull’indicazione del luogo “nel pensier” e subito mi viene di aggiungere “ove per poco il cor non si spaura”: quindi nella mente c’è un luogo dove poter mentire appunto o fingersi, ma mi chiedo, nel cuore?
    Dopo l’immaginazione nel pensiero non c’è spazio di finzione per lo smarrimento, nè per la dolcezza del naufragio nell’infinito. Il cuore è il posto dentro noi stessi occupato dalle emozioni e queste scorrono, inevitabilmente.
    Le emozioni possiamo controllarle, comunicarle, comprimerle, nasconderle, lasciarle andare, ricordarle…ma è possibile fingerle a noi stessi? é possibile sapere di non saperle?

  3. Federico Cerminara ha detto:

    Mi piace molto la questione del fingere a sé stessi, sollevata da Antonio. Vale la pena di accostare alla sua riflessione un estratto dai “Quaderni di Serafino Gubbio Operatore” di Luigi Pirandello (un altro siciliano), che descrive brillantemente il legame di ciascun uomo con la metafora di sé, con le sue innumerevoli finzioni, coscienti o incoscienti. Interessante notare come in entrambi ci sia il richiamo alla vita di un altro.

    “Ah se ognuno di noi potesse per un momento staccare da sé quella metafora di sé stesso che, inevitabilmente, dalle nostre innumerevoli finzioni, coscienti o incoscienti, dalle interpretazioni fittizie dei nostri atti e dei nostri sentimenti siamo indotti a formarci! Si accorgerebbe subito che questo lui è un altro. Un altro che non ha nulla o ben poco a che vedere con perché il vero lui è quello che grida dentro, l’intimo essere, a volte costretto a restarci per tutta la vita ignoto. Vogliamo ad ogni costo salvare, tenere in vita quella metafora di noi stessi, nostro orgoglio e nostro amore. E per questa metafora soffriamo il martirio e ci perdiamo. Quando sarebbe così dolce abbandonarci, vinti, arrenderci al nostro intimo essere che è un dio terribile se ci opponiamo ad esso, ma che diventa subito pietoso di ogni nostra colpa appena riconosciuta e prodigo di tenerezze insperate. Ma questo sembra un negarsi e cosa indegna di un uomo. E sarà sempre così finché crederemo che la nostra umanità consista in quella metafora di noi stessi.”

  4. valerio ha detto:

    Ecco un argomento caldo per me… lo è sempre stato. Adesso ho come un’apertura in più: l’accorgermi di fingere con me stesso mi fa accedere a spazi vitali, di vita mia, mia davvero, insospettati.
    Come se la mia vita vera stesse per iniziare…

  5. antonio ha detto:

    la finzione….
    tutta la vita e’ una finzione

  6. annamaria ha detto:

    X Andrea. Il titolo è In fuga dalla critica di Pere Borrell del Caso (Puigcerdà 1835-Barcellona 1910) 1874
    Dipinto su tela; cm 76 x 63

    Madrid, Collection of the Bank of Spain
    Credit: Collection of the Bank of Spain

    “Il critico d’arte entra nell’opera mentre l’autore ne esce” ob portinari

  7. giovanna ha detto:

    Meraviglioso testo, meravigliosa analisi della finzione. Chiunque si sia cimentato nel teatro come me sa che fingere è muoversi in uno spazio misterioso, che è una sintesi del mondo ove si possono fare sperimenti molto particolari su se stessi, il proprio mondo interiore e capire che il rapporto realtà e finzione è misterioso, cospira di continuo, allude, illudi, infine rivela.
    una maschera

  8. Edoardo ha detto:

    Fingere a noi stessi è molto frequente. Quotidiano, direi. Il controllarsi è fingere. Il non dire tutto ciò che si sa è fingere, agli altri e a sé stessi. I rapporti interpersonali prevedono una dose di finzione non rilevabile con facilità ma spesso riscontrabile dall’esterno del rapporto in questione. Una forma di difesa, la menzogna rivolta in modo suicida: tutti diciamo balle a fin di bene, ogni tanto lo facciamo anche con noi stessi.

    Ma spesso questa finzione non è volontaria, razionale. A volte è la struttura che gli altri ti costruiscono intorno a costringerti a mentire ai tuoi genitori, ai tuoi amici, alla tua ragazza, al tuo capo e, certamente a te stesso. Chi afferma: “Io da solo non posso cambiare il mondo” sta mentendo. Ed è una menzogna insinuata, una finzione scenica della vita sociale. Da soli si possono fare infinite cose, persino una guerra. L’unica cosa che non ci è concessa nella solitudine è la felicità. Quella vera, non quella fittizia.

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