Minutari per una vita che scorre: Francesco Grisi e Carlo Coccioli

Dal carpe diem di oraziana memoria son trascorsi molti giorni eppure l’essere umano ha sempre avuto il bisogno di uno strumento particolare per «cogliere l’attimo» che fugge e fissarlo, cercando non solo di farne la fotografia, ma di interpretarlo, indagarlo, metterlo in questione. Da questa esigenza nascono i diari che trasformano il flusso della vita in scrittura e poco importa se essi siano destinata alla pubblicazione o meno. Nello scrivere si ha sempre davanti una sorta di «lettore implicito» che non abbandona facilmente la coscienza di chi scrive.
I diari possono registrare un’intera vita diventando autobiografie, oppure fasi di un vita. Possono però registrare anche solo un periodo breve ma denso della propria esistenza, essere una raccolta di minute, «minutari». E’ possibile includere in questa categoria i due libri che qui presento: La notte lunga di Francesco Grisi (Cosenza, Pellegrini, 2001) e Piccolo karma. Minutario di San Antonio in Texas di Carlo Coccioli, uscito in prima edizione nel 1987. Sono due libri molto differenti tra loro, come lo sono i loro autori, che di comune hanno apparentemente solo l’essere nati negli anni ’20. Grisi è stato cattolico conservatore e, secondo alcuni, «integralista». Coccioli è uomo inquieto, che è passato dal cattolicesimo all’ebraismo, al buddismo, all’induismo per approdare a una visione di fatto sincretistica. Le Monde nel 1988 lo definì «errant spirituel». Proprio l’accostamento stridente tra le due figure, il primo morto del 1999 e il secondo nel 2003,  aiuta a comprendere che entrambe i loro libri hanno un filo comune, nonostante le differenze: pongono un rapporto intensissimo tra vita e scrittura, tanto da essere delle vere e proprie tracce di vissuto che solo una lettura veramente partecipe può valorizzare.

La scrittura come sismografo dell’esistenza
La notte lunga è un diario degli ultimi mesi di vita dello scrittore calabrese Francesco Grisi (1927-1999): è la testimonianza straziante di una persona che resta lucida sino alla fine sia come uomo sia come autore e intellettuale. Nel suo discorso la malattia (un tumore) si intreccia con i fatti della cultura, della letteratura e della politica. E’ dunque non un testo «dolente» ma aggressivo, vitale. Mostra insomma uno scrittore che, davanti alla morte, è più vivo che mai. Anche perché non cede alle lusinghe della rimozione del male. Anzi, si confronta apertamente con l’esperienza di scrittori che hanno «attraversato il fiume»: Buzzati, Pirandello, Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Hemingway. Notiamo proprio il giudizio sul grande scrittore statunitense: «L’illusione dello scrittore è sempre quella di raccontare la vita. Ma quando venne a trovarlo la malattia che entrò ambiguamente nel suo corpo Hemingway si rende conto che aveva sbagliato tutto. La vita che aveva descritto era soltanto letteratura. La vita era un’altra. Era quella della sua malattia che lo torturava nella paura e nelle lunghe notti».

Grisi dunque non scrive per distrarsi, ma per entrare nel cuore di ciò che gli accade dentro e attorno. A questa confessione si associa però la tenerezza della parola, o meglio quella densità umana della parola, spesso possibile solo in chi ha la precisa percezione della propria debolezza, della propria finitudine. Anche i suoi romanzi A futura memoria (1985), Maria e il vecchio (1991) e La poltrona nel Tevere (1993) in fondo sono come una sorta di diario unico. Tra l’altro, notiamo che Grisi si era occupato di scrittori cristiani nel suo saggio Scrittori cristiani (volenti o nolenti), pubblicato da Piemme nel 1995. Nella scrittura egli ritrova se stesso non solo come coscienza, ma anche come «corpo»: «Io ho sempre pensato al mio corpo come strumento per amare, correre, vestirmi, mangiare, bere e così via. Ho sempre pensato al mio corpo con affetto padronale. E lui mi ha sempre risposto prontamente. Non ho pensato mai che avesse il mistero. Mai alla misteriosità del corpo. Adesso la malattia mi ha fatto capire». La malattia «obbliga la ricerca» e insieme rende la vita più concreta, liberandola dalla pura astrazione.

La scrittura registra, come un sismografo, le scoperte e le reazioni sull’anima: «resto con il cuore sospeso e annoto», scrive Grisi. La scrittura diventa «una forma d’amore». Cosa registra questo sismografo? I nuovi sentieri della vita dopo che gli schemi abituali si sono rotti. Il tempo cambia di significato e così la cronaca: la vita si presentifica e «il resto è nella fede che aiuta». La storia e il passato coincidono con la memoria: «nella memoria anche mio padre è ancora vivo mentre nel ricordo è definitivamente morto. La infinitudine ha confini nella resurrezione. Il ricordo è storia. La memoria si incontra con Dio». L’atteggiamento verso il mondo è fatto di «amorosa commozione» e l’attesa resta legata a piccoli eventi: «sono nate le prime piccole roselline rosse. Mi dispiacerebbe non vederle spuntare tutte. […] Signore del cielo e della terra aiutami a vedere i campi verdi e le roselline prima di attraversare il fiume». Come il tempo così lo spazio. Prima c’erano i centimetri, i metri, i kilometri, gli spazi misurabili. Adesso lo spazio, con la malattia, si allarga e perde il suo rapporto col tempo: «Allora il viottolo era un duecento metri, ora è infinito». Le coordinate dell’essere nel mondo vengono ribaltate e ricodificate.

La scrittura si fa «notturna». Il buio ferisce, ma viene vissuto nella certezza che «poi verrà la luce morbida». La notte è il tempo del silenzio non occupato da altro che dalla coscienza che si riappropria del mondo e della vita, dopo la dispersione del giorno: «Nella notte profonda mi sveglio sempre. E scrivo queste note. E la notte la colpisco con le mani. Ecco». E frutto di questa lotta sono riflessioni splendide e intense: «Alcune notti apro la finestra e guardo i colori. Prima di notte dormivo mentre adesso vedo i colori. Si intrecciano in uno stato confusionale. A volte luccicano. A volte si smarriscono. Hanno gli occhi carichi di memoria. Forse è una invenzione. La mia malattia è rossa come il sangue. Scorre come un fiume silenziosamente e chiede di portarmi verso la foce dove il mare mi accoglierà. Ho amato il mare greco della Calabria ionica. Laggiù il rosso della malattia non vincerà il verde e l’azzurro delle onde. Tutta questa kemio finirà nel colore di Pitagora».

La chiave di lettura del suo ultimo libro ce la offre lo stesso autore: «Penso la morte come a una nuova stagione. Chi muore continua a vivere. Qualche volta mi dimentico del passato. Resto nel silenzio del presente. Amo ancora vivere. Ed è così La notte lunga». E ancora: «Per me l’importante è già scritto. E poi. I destini. Infiniti giochi. Siamo attesi. Il viaggio. Questa infinita Terra Promessa». Commenta Pierfranco Bruni, il curatore del testo, pubblicato postumo: «Francesco Grisi scrittore cattolico. Viaggia nel fiume di una infinita religiosità e attraversa esistenzialmente e letterariamente il sacro e il mistero». E lo scrittore ormai era giunto ad affermare che la malattia gli aveva fatto cercare un’identità tra speranza e fede: «mi ha dato il reale non più distaccato dal cielo». Le ultime parole di La notte lunga sono lapidarie: «la vita è senza morire».

Forse ho confuso la mia collera…
Se le pagine di Grisi sono segnate da una tensione religiosa, non in termini diversi occorre parlare di quelle di Carlo Coccioli. E tuttavia i suoi percorsi sono di ben altro tono. Coccioli, nato nel 1920 a Livorno, approda a una visione sincretista che lascia francamente perplessi. Lascia perplesso forse lo stesso Coccioli, lì dove afferma: «Considerando il mio itinerario religioso, […] mi domando se io non abbia, una volta di più, sbagliato tutto: se in fondo non abbia confuso la mia collera contro il Dio biblico tradizionale (immagine del mio superpadre) con una collera di Dio contro di me».

Tuttavia tutto si potrà dire, ma si deve riconoscere che la scrittura di Coccioli è intrinsecamente e radicalmente teologica. Forse è proprio questo il motivo per cui egli ha preferito, negli anni ’50, lasciare un panorama letterario italiano neorealista dominato dall’«arrogante Moravia, circondato da bizantineggianti leccapiedi» e poco attento a queste tensioni, trasferendosi in Messico. Coccioli ha scritto in italiano, ma anche direttamente in spagnolo e francese e certamente è più noto all’estero che in patria, tanto che è stato definito lo «scrittore assente» o, questa volta da Carlo Bo, «scrittore alieno» i cui libri «vengono da altra letteratura». Questa breve presentazione non può far a meno di segnalare una produzione di una quarantina di volumi. Alcuni titoli: Il cielo e la terra, Fabrizio Lupo, La pietra bianca, L’erede di Montezuma, Ambroise, Uomini in fuga, Davide. Un bilancio della sua vita si ritrova nel volume intervista Tutta la verità (Milano, Rusconi, 1995). Dei suoi romanzi hanno parlato a più riprese riviste come La Civiltà Cattolica ed Ètudes. Ne discussero Bernanos, Mauriac e Marcel. Soprattutto di Fabrizio Lupo, pubblicato quest’ultimo per la prima volta direttamente in francese nel 1952 e solo 26 anni dopo in italiano, centrato con particolare intensità sul rapporto e le relative tensioni tra la condizione omosessuale e la vita di fede.

Piccolo karma è forse, come affermò lo scrittore Pier Vittorio Tondelli, uno dei vertici di tutta la produzione di Coccioli. Proprio Tondelli ha, forse meglio di altri, individuato «l’incessante tormento teologico» di Coccioli. Tondelli ha affermato, dopo un incontro che ebbe con lui nel 1987: «Ritrovare nell’opera di un autore italiano quei tormenti e quegli entusiasmi per una religiosità pura e incorrotta, per una fede da vivere nella pienezza del proprio corpo e nell’univocità della propria storia […] fu un’illuminazione e, indubbiamente, contribuì a riformulare giudizi, a guardare a quelle inquietudini con una lucidità nuova».
Abbiamo utilizzato l’avverbio «dialetticamente» in maniera cosciente e avveduta. Un percorso come quello di Coccioli è da ripercorrere avendo piena coscienza delle sue varie tensioni interne che non possono trovar requie. Occorre ricordare sempre che non si può cercare senza aver già trovato e ogni vera ricerca non parte mai dal nulla, ma da una posizione precisa. La vera ricerca ha poco da spartire con l’atteggiamento sincretista. Le obiezioni di Coccioli contro il cattolicesimo si orientano sostanzialmente in questa direzione, ma toccano anche altri temi teologici importanti come quello della reincarnazione e questioni di morale soprattutto circa il rapporto con gli animali e il modo di vivere la omosessualità.

Il divino nelle piccole cose
Posto ciò però, al lettore attento non sfuggirà che le pagine di Piccolo karma sarebbero impensabili se non avessero radici cristiane. Le tematiche centrali del rapporto tra grazia e peccato, la questione sul senso e la possibilità dell’incarnazione, il culto visibile di Dio invisibile, la compassione profonda per tutte le creature sono certamente anche impregnate di un’esperienza cristiana che successivamente ha imboccato sentieri lontani – in cui il cristiano non può più riconoscersi – senza però diluirsi nel vigore delle sue domande essenziali. Se si tiene presente questo, allora leggere le pagine di Piccolo karma può diventare un’esperienza spirituale perché esso si presenta, comunque e in ogni caso, come un libro spirituale, la cui «domanda basilare» è «Chi e che cosa è Dio?». E la domanda si fa richiesta: «Dio, Dio, Dio: chi sei, come sei?».

La vita registrata in questo minutario (definito sobriamente dal suo autore «un breve modesto libro formato da notarelle») è quella dei momenti vissuti nell’arco di un mese: dal 22 ottobre al 21 novembre 1985. Il tutto occupa 320 pagine. Così scopriamo che Coccioli non si allontana quasi mai dal foglio e gli appunti si susseguono anche a distanza di appena qualche minuto. Il tempo è «lacerato», come scrive lo stesso autore, in minuti. La vita quotidiana assume una dimensione sacrale anche negli aspetti più quotidiani e, in apparenza, banali: contatti con piante e animali, libri letti, viaggi brevi e lunghi, incontri, pensieri… persino telenovelas viste alla televisione («un teleromanzo ben fatto, e ve ne sono di eccellenti, non vale meno che Balzac o Zola. […] i teleromanzi […] sono una genuina epica contemporanea: probabilmente la sola tuttora valida»).

Il frammento è valorizzato in tutta la sua valenza di traccia di un tutto inattingibile. Il nichilismo non sfiora neanche di lontano queste pagine: più si procede rasoterra e più lo stupore cresce; più gli istanti passano, correndo il rischio di trascorre senza lasciar traccia, e più essi si incidono indelebilmente nella coscienza. Nella sua «indescrivibile emorragia poetica» Coccioli si sofferma sulla «tacita bellezza delle Cose» e sulla sua dirompente intensità: «Se servissero solamente a dimostrare che fra il senso del Divino e la vita quotidiana, fosse pure la più banale, non vi è soluzione di continuità, e ancora meno opposizione, queste noterelle avrebbero magari una loro funzione…».

Coccioli, nel fondo, è abitato dal «terrore di dannarsi», ma anche da una panica voracità di vita ed è stimolato dal «Mistero tremendo di un Dio che non capisco». Le invocazioni a un Dio («Dio, chiunque tu sia…»; «ricordare Dio, ricordare Dio, ricordare Dio!») si alternano a momenti di dubbio («io non ho certezze. Credo o non credo? Lo ignoro! Il mio primo problema è sempre stato sapere se credessi o no»). Ma questo dubbio giunge a risolversi in un’idea, che non può non richiamare la Croce: «che anche lui, Dio, sia impotente. E allora ho avuto compassione di lui, e una volta ancora mi sono messo ad amarlo».

Forti e chiare sono soprattutto le dichiarazioni sul mistero dell’essere e sulla passione che genera il mondo («Dio, com’è appassionante il Tuo mondo!»). Anzi è proprio questo mistero la fonte della vera letteratura, per Coccioli che, parlando di Fuentes, Cortázar, Vargas Llosa, García Márquez, non teme di definirli «inutile vanità del defunto boom letterario latinoamericano. Forse è buona letteratura, non so, ma io non le trovo ragione di esistenza: vi è assente la preoccupazione estrema, l’unica che conti, quella del mistero dell’essere». I «suoi» autori sono altri: lo è C.S. Lewis, ad esempio, ma lo sono soprattutto quelli che vagheggiavano il «paese dell’anima» come i toscani Bargellini, Lisi, Betocchi e, a suo modo, Papini. Il minutario si chiude con l’immersione in un inedito «itinerario mistico» che prende corpo all’interno di una visita a un Luna Park. E’ forse la parte più emblematica del volume, da leggere, su invito dello stesso autore, con estrema calma e attenzione. E’ il luogo in cui il mistero della vita si dispiega in maniera inspiegabile.
Grisi e Coccioli sono personalità diversissime, eppure, nonostante le differenze, si ritrovano spinti alla scrittura da una forte tensione interiore.

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