Dostoevskij? Meglio Charles Dickens!
Aprendo una delle sue poesie più celebri – Possibilità – il premio Nobel Wislawa Szymborska annota: «Preferisco Dickens a Dostoevskij». Un’affermazione semplice e netta, che è allo stesso tempo una Dichiarazione di Indipendenza del lettore e un sisma di discrete dimensioni all’interno del canone letterario.
Ma come, viene da chiedersi, il padrino del “feuilleton” ottocentesco preferito al profeta del romanzo moderno? Il sentimentale Charles sopra il celebrale Fëdor? I personaggi macchiettistici e perfino tipizzati del giornalista inglese superiori alle cattedrali psicologiche del virtuosista russo? Fagin contro Stavrogin, Pickwick versus Myskin? E inoltre: perché Canto di Natale, David Copperfield e Oliver Twist dimostrano un’adattabilità immortale, continuando ad essere trasposti su pellicola molto più dei Fratelli Karamazov?
C’è da perderci la testa. O piuttosto – complice l’imminente anniversario dei 200 anni dalla nascita – basta perderci qualche minuto. Szymborska non è la sola ad aver preso Dickens a modello. L’elenco degli estimatori ingloba lettori raffinati come Vladimir Nabokov o Pietro Citati. Per Gilbert K. Chesterton, tuttavia, egli fu qualcosa di più: un maestro, perfino un padre spirituale. Il quale insegnò al giovane Gilbert che valeva la pena devolvere il proprio genio per descrivere la felicità. Una donazione assoluta, fino all’ultima oncia. Anch’egli giornalista, conferenziere, scrittore torrenziale che affrontò la consunzione da superlavoro con altrettanta sorridente imprudenza. Martiri del buonumore, che spargono momenti di serenità anche nei nostri anni bui.
Chesterton racconterà spesso che le pagine di Dickens gli giunsero come un’allegra scialuppa nel tetro mare di un’adolescenza irta di scogli schopenaueriani e nietzschiani. La sua gratitudine l’avrebbe poi condotto a scrivere una serie introduzioni ai romanzi del maestro, fondamentali per la successiva rivalutazione critica di Dickens, e talmente penetranti che ancora oggi, se prendiamo in mano Il Circolo Pickwick nell’edizione Oscar Mondadori, troviamo la penna di GKC convocata alla Prefazione. Una parte di questi scritti è stata ora raccolta nel volume Una gioia antica e nuova (Marietti 1820, pp. 226, € 17), tradotti e introdotti da Edoardo Rialti.
Chesterton non fu indulgente con Dickens, «scrittore mitologico più che romanziere», al quale rimprovera il patetismo che fa collassare Tempi difficili e La piccola Dorrit. Ne colse tuttavia il nucleo pulsante che magnetizzava i suoi lettori: Dickens riusciva a «esagerare la vita nel senso della vita stessa», e in questo si dimostrava «vicinissimo alla religione popolare, che è quella definitiva e degna di fiducia». Ma c’è un altro segreto assiepato tra le pagine di Dickens. Egli non solo descrive la felicità, ma riesce a descriverla concretamente perché lo fa attraverso figure sgradevoli, parodistiche, farsesche e persino grottesche.
«Nella maggior parte delle moderne Utopie – chiosa Chesterton – un uomo non può essere davvero felice. Egli ha troppa dignità», mentre nel Canto di Natale «tutti sono felici perché nessuno ha un suo decoro». Dickens non teme la dismisura, come i talenti letterari più timidi, paurosamente aggrappati al senso delle proporzioni e delle buone maniere. Naviga il mare tumultuoso della realtà e può gonfiare le vele con i monsoni del sentimento che fanno naufragare le pagine della cronaca nei quotidiani. Non è un biologo marino che ci descrive le correnti atlantiche, ma un surfista spericolato che le cavalca.
Anche nei suoi scritti più politicamente impegnati e didattici, Dickens – come sottolinea l’anglista Nadia Fusini – «non vuole convincere a una ideologia, vuole piuttosto educare la sensibilità, perché nel pensiero penetri un’emozione». Realismo e “romance”, realtà e favola: se la letteratura vuole coinvolgere integralmente la persona, facendo scoccare la scintilla di quella pedagogia esperienziale che le è propria, non potrà considerare la testa più importante della pancia, né un profondo aforisma più pertinente di una buona battuta. Leggere Dickens ricorda al critico di professione ciò che il lettore comune sa benissimo, e cioè che non si può avere un sano rapporto alla lettura se ci si avvicina ad essa soltanto con una pretesa di conoscenza. Occorrono pure l’innocente abbandono al gioco dell’inganno.
In una certa misura, è lo stesso atteggiamento che si richiede per andare incontro alla vita, come ricorda Chesterton in uno smagliante commento al Circolo Pickwick: «A colui che è abbastanza savio da poter essere beffato non mancheranno mai le occasioni di correre avventure e di averne grande gioia. Sarà felice dentro alle trappole che altri gli avranno teso, cadrà nelle reti degli inganni e vi dormirà tranquillamente. Davanti a colui che è pervaso da una dolcezza più disarmante del semplice coraggio, tutte le porte si spalancheranno. E tutto questo è detto senza possibilità di equivoci in una breve e felice frase: cascarci sempre. Cadere in tutte le trappole vuol dire vedere l’interno di ogni cosa. Vuol dire godere l’ospitalità delle circostanze. Con accompagnamento di torce e di trombe, come un ospite d’onore, il semplicione viene colto in trappola dalla vita. Lo scettico invece rimane chiuso fuori».
[articolo comparso su RomaSette 11/11/2011]
Questa riflessione sull’opera di Dickens è strepitosa. Apre in un crescendo avventuroso (imprevedibile e appassionato) delle porte che conducono a una conclusione precisa e originale (mi riferisco alla splendida intuizione del “semplicione preso in trappola dalla vita). In questo senso, scrivere un testo di critica letteraria è come arrampicarsi su un albero da ragazzi, quando ci si ritrovava su un ramo – il più alto ed estremo possibile – e si godeva di un punto di vista sul mondo inaspettato, unico, privilegiato, personale, emozionante.
Grazie!
Muoversi nell’universo di Dickens fra la Szymborska e Chesterton apre diversi e nuovi squarci interpretativi che permettono di riscattare l’immagine di un grande classico della letteratura inglese come Dickens, che a volte ha risentito dell’usura, a cui i suoi testi sono stati sottoposti nella loro ricezione filmica e televisiva e che in parte ne ha appiattito la ricchezza di significati. Da questa prospettiva il destino di Dickens non mi appar molto dissimile da quello di altri scrittori ottocenteschi come Manzoni, la cui immediata entrata nel “canone” letterario e scolastico ne ha permesso una ampia diffusione ma ne ha anche scolorito la varietà di sfumature narrative. È necessaria, credo, una riscoperta dei classici anche in virtù delle influenze da loro esercitate, consapevolmente o inconsapevolmente, sui nostri contemporanei.
http://www.dickens-literature.com/Appreciations_and_Criticisms_by_G.K_Chesterton/2.html