Il BAR
C’è un quadro di Edward Hopper, Nighthawks (1942, «I nottambuli»), che mostra le vetrine di un tipico diner americano affacciate su un angolo di Greenwich Village, a Manhattan. È probabilmente l’opera più famosa del pittore americano, per una serie di ragioni legate alla luce, ai colori, alle prospettive. Ciò che colpisce, a una prima occhiata, sono però soprattutto i tre frequentatori del locale: un uomo di spalle e una coppia rivolta verso il barista, piegato in avanti. Tutti e tre si appoggiano su un bancone, sopra il quale hanno posato i loro bicchieri con delle bevande da consumare. Nonostante ciò, sembrano non comunicare in alcun modo tra loro, quasi ignorandosi.
Anche se ogni paese ha delle precise caratteristiche legate agli usi e alle tradizioni culturali del contesto, il bar è concepito generalmente come il locale pubblico per eccellenza, luogo d’incontro, di chiacchiere ma anche e soprattutto di passaggio, dove si consumano velocemente bevande o cibi, molto spesso al bancone. Il termine bar deriva proprio da una contrazione del termine inglese barrier, sbarra, oppure barred, sbarrato: nel primo caso si fa riferimento ai primi esercizi pubblici dove era permessa la vendita di alcolici in una zona separata dal resto del locale, appunto, da una sbarra; nel secondo caso, invece, sembra che ai tempi del proibizionismo inglese, durante il XIX secolo, sulle porte degli spacci di alcolici fosse fissata un’asse con la parola barred. Oggi, piuttosto, la sbarra fa venire subito in mente il bancone dove si consumano le bevande, dove cioè l’avventore di turno è separato da colui che lo serve, il barista, delimitando così una zona a cui il primo non può accedere.
Il barista, oltre ad avere una funzione di servizio, sembra rappresentare una figura quasi mitologica all’interno della cultura popolare. Attento ma discreto osservatore e ascoltatore, il suo ruolo è spesso associato a quello di un confidente, cui rivelare gratuitamente – o, se si vuole, per il solo prezzo di una consumazione – i problemi o le questioni che attanagliano il consumatore solitario. «Il bar non ti regala ricordi ma i ricordi portano sempre al bar», canta Vinicio Capossela. Per questo, il barista è una specie di incrocio tra uno psicologo/psichiatra e un prete, con la differenza che: a) non si fa pagare direttamente per la sua prestazione; b) non chiede all’avventore di pentirsi di quanto rivelato. Per questo, in cambio di pensieri e ricordi a profusione, non può che offrire ai propri clienti il suo prezioso silenzio.
Oltre a rappresentare un luogo di riflessione solitaria, e spesso notturna, il bar è soprattutto un ambiente d’incontro, che offre amabili occasioni di conversazione. In questo caso, però, raramente viene utilizzato il bancone: quando disponibili, infatti, i tavoli con sedie o sgabelli offrono certamente una maggiore intimità, lontana dalle orecchie indiscrete del barista o degli altri avventori. Anche se la discrezione non dovrebbe essere la principale caratteristica di un locale pubblico, in molte opere letterarie o cinematografiche, ma anche nella realtà, il bar viene frequentemente utilizzato, proprio in virtù della consueta confusione, per discutere di questioni segrete o stipulare accordi confidenziali tra due o più controparti. Inoltre, se il fatto di mettere a contatto persone sconosciute nello stesso luogo amplifica, da un lato, la caratteristica del bar come connettore umano, dall’altro, invece, ne accresce la possibilità di produrre occasioni di scontro e conflittualità: le famose risse da bar, dove il barista, per salvare la propria pelle, non può che nascondersi dietro al bancone, palesandone un’ulteriore funzione.
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