Il punk gregoriano di Jeff Buckley
Alcuni avvenimenti rimangono impressi nella memoria, mentre altri finiscono nel dimenticatoio o cancellati per sempre. In un freddo pomeriggio d’inverno, davanti a un caminetto, mia sorella – durante una conversazione – tira fuori un cd portatile e comincia a tessere le lodi a un interprete, figlio di Tim Buckley. Mostro scetticismo, immaginando il destino che già lo attende. Con un genitore così illustre, il talento potrebbe non bastare (vedi Jakob Dylan e Julian e Sean Lennon). Lei insiste perché lo ascolti. Chiedo quanti albums ha inciso. La risposta è addolorata: “Uno, perché Jeff non c’è più”. Ribatto: “Uno, solo uno?! Ed è già un mito?”. Ci siamo: la solita mitopoiesi delle rockstar giovani ma dannate, quelli che amano danzare con la nera signora, la morte. Fu così per Hiller Slovak, chitarrista dimenticato dei Red Hot Chili Peppers, per Ian Curtis dei Joy Division e centinaia di talenti maturati troppo in fretta. La fine di Jeff Buckley, annegato il 29 maggio del 1997 nel canale Wolf River di Memphis, generò un pensiero malsano. Solo la morte poteva renderlo così leggendario e simile al padre. Imposto la sequenza “random” sul lettore cd, segno di un approccio superficiale al disco Grace. La madre degli ignoranti è sempre incinta.
Ascolto Last Goodbye, la terza canzone nella tracklist dell’album. L’impatto con il brano è paragonabile a un treno ad alta velocità che t’investe in piena faccia. Rimango basito di fronte a un rock che credevo sepolto nei dischi dei Led Zeppelin, scosso da una voce lieve e depressa come quella di Nick Drake. Guardo la copertina del cd e provo imbarazzo. E’ il 4 gennaio del 1999, ore 14.30 circa. Come nella Sacra Scrittura, quando Giovanni e i suoi discepoli incrociano per strada Gesù, l’Agnello di Dio. L’incontro con Lui li sconvolge a tal punto che l’evangelista fissa l’ora dell’evento, le quattro del pomeriggio (Gv 1,39). Niente sarà come prima, come nel caso di Jeff. Da quel pomeriggio di 10 anni fa, confronto ogni nuovo album rock con l’unico inciso da Buckley. E’ migliore o peggiore di “Grace”? Sento ancora il suo rimprovero per averlo irriso: “Was there a voice unkind in the back of your mind… Maybe, you didn’t know him at all” (C’era una voce sgarbata nella tua mente… Forse, non lo conoscevi affatto – The Last Goodbye).
https://www.youtube.com/watch?v=mgtxj2x2pJs
Tra gli appassionati di musica rock, le discussioni sui gusti, generi e artisti sono quasi sempre infuocate e divergenti. L’eccezione riguarda Buckley jr. Tutti concordi nel riconoscere la grandezza di un cantante mezzo artista e mezzo angelo. Ciò accade non solo nel bizzarro mondo dei fans. L’arte di Jeff Buckley mette d’accordo interpreti, autori, musicisti, producer e manager che lo hanno conosciuto prima e dopo la sua apparizione sulle scene. In un servizio trasmesso dal canale televisivo statunitense MSNBC, alcune celebrità mostrano vera ammirazione nei suoi riguardi.
In ordine d’apparizione: Chris Cornell, voce storica dei Soundgarden, suo intimo amico. Fu chiamato da Mary Guibert, la madre di Jeff, a curare il missaggio del postumo e incompiuto Sketches for My Sweetheart the Drunk. Cornell è definito in una nota di copertina e in lingua italiana “Il Dottore di Musica”. Nel video appare Lenny Kaye, ora produttore, suonò la chitarra in “Beneath The Southern Cross” di Patti Smith, con Buckley ai cori. Penny Arcade, controversa commediografa e attrice newyorkese. Da leggere il suo tributo: Jeff Buckley – Mannish Boy, Setting Sun. George Stein, personaggio che avrà un ruolo fondamentale nella vita artistica di Jeff. Un avvocato scelto da Buckley per vagliare le proposte contrattuali delle case discografiche che avevano fiutato l’affare, prima di approdare alla Columbia Records. Gary Lucas, conosciuto da Buckley in occasione di un concerto tributo al papà Tim, nella cattolica Saint Ann’s Church di Brooklyn Heights, New York. Insieme suonarono The King’s Chain, brano tratto dall’album “Sefronia” di Tim Buckley.
Gary Lucas, chitarrista dalle alterne fortune, incantato dal suo talento, gli propose di diventare la voce solista nella band Gods and Monsters, cui presto Jeff si staccò per intraprendere l’avventura da solista, dopo aver inciso insieme a Gary i demo di Grace e Mojo Pin (finiranno poi in un disco di Lucas & Buckley “Songs to No One 1991 – 1992”).
Alla fine del servizio della MSNBC, gli intervistati recitano commossi versi del brano Grace di Jeff Buckley. Le parole da lui scritte mostrano il destino che lo attenderà sulle rive del Mississippi.
And the rain is falling / And I believe my time has come
La pioggia cade / E io penso che è arrivata la mia ora
It reminds me of the pain I might leave behind
Mi ricorda il dolore che dovrei lasciarmi alle spalle
Wait in the fire
Aspetta nel fuoco
I’m not afraid to go but it goes so slow
Non ho paura di andermene ma è così lento
Nel decantare il testo di Grace, la parola “morte” non è mai pronunciata. Riguardo Jeff Buckley, non si può evitare di affrontarla (o di accettarla) né di ometterla:
“Well its my time coming, I’m not afraid to die” (è giunta la mia ora, non temo la morte).
Sconvolge ancor di più ascoltare Jeff, mentre recita un poema di Edgar Allan Poe, “Ulalume”:
Procediamo in quel chiarore tremulo,
e anneghiamoci in quella vitrea luce!
Raggian stanotte, in strana luce avvinte,
e Speranza e Bellezza. Guarda! Ascende
attraverso alla notte fino al cielo!
Come un angelo che canta il suo verbo, Jeff “… lasciò pendere le sue ali a strisciare nella polvere, dolorosamente si trascinavan nella fredda polvere”. La citazione del poema di Poe appare, pur se velatamente, in Dream Brother dell’album “Grace”:
Quell’angelo scuro si infila fra di loro
Vegliandoli
Con le sue piume nere spiegate
Una canzone scritta per un amico in difficoltà, il musicista Chris Dowd. In un passaggio, Buckley canta la sua pena, l’essere cresciuto senza l’amore di un padre:
Non essere come colui che mi fece invecchiare
Non essere come chi ha lasciato solo un nome dietro di sé
Perché ti stanno aspettando
Come io ho aspettato il mio
E non è mai arrivato nessuno…
Nel tentativo di combattere i suoi demoni, Buckley nell’album “Grace” palesa una tensione spirituale genuina, fragile perché istintiva, come un fuoco che accende all’improvviso una passione, per poi spegnersi in brevissimo tempo. Ha conosciuto l’umiliazione dell’abbandono, un’esperienza che rivivrà nell’amore verso una donna e che solleticò i ricordi di un’infanzia turbata dall’assenza di Tim. Da ragazzo, Jeff nascondeva la sua indentità. Si faceva chiamare Scott Moorehead (Scott era il suo secondo nome, mentre il cognome apparteneva all’uomo con cui la madre Mary conviveva).
Mentre scrivo, ricevo commenti di amici riguardo Jeff Buckley, dopo aver favorito una discussione riguardo la sua musica su Facebook. Inutile ripeterlo, le lodi al Nostro si sprecano. Alcune riflessioni meritano d’essere condivise. Ad esempio, Maurizio, musicista e sideman di professione, scrive di JB come un’artista capace di reinventarsi e di raccontarsi ad ogni performance. Il giudizio è tecnico: “Jeff Buckley nasce prima come chitarrista, solo successivamente viene spinto a cantare”. “I punti di forza della sua musica sono lo sguardo al passato e lo spingersi in territori inesplorati, giusta sintesi fra storia e innovazione”. Anche Simonetta, nel forum, scrive: “Il lirismo del suo rock è una meravigliosa conferma dell’armonico convivere degli stili musicali. Unica la sua musica e la sua intensa e quasi intima interpretazione!”.
Maurizio linka sul wall un documento audio preziosissimo del 1994: Buckley, nell’insolita veste di performer jazz, canta Jolly Street, incluso nell’album “Jazz Passengers In Love” dei Jazz Passengers, musicisti irriverenti e geniali che affidarono le esecuzioni canore del cd ad artisti come Deborah Harry, Mavis Staples, Jimmy Scott e molti altri. Tra le tante produzioni della band, da segnalare l’ironica Little Italy inclusa in “Implement Yourself”, uno sberleffo alle tradizioni mafiose e fantareligiose degli italiani emigrati negli Stati Uniti.
Leggo ancora: “Jeff impreziosisce le proprie esecuzioni live con vocalizi di estrazione blues, soul e jazz, colorando il tutto con l’influenza della musica orientale”. I fans conoscono la devozione di Jeff Buckley nei riguardi di Nusrat Fateh Ali Khan, artista capace di nuove commistioni tra la musica tradizionale del suo paese, il Pakistan, e la dottrina islamica del Sufismo. Convergenze tra musica e Islam definite Qawwali, forme di canti rituali che includono le lodi ad Allah, a Maometto e ai santi, elementi imprescindibili per definire il Qawwali “sacro”, secondo i principi musulmani.
Nusrat Fateh Ali Khan influenzò il modus cantandi di Jeff: come un sufista occidentale, nel canto evocava il caos ordinato e la ripetività ossessiva dei Qawwali. Jeff ebbe l’opportunità d’intervistare Nusrat per il magazine Interview, scrivendo un’introduzione al pezzo che però fu tagliata dalla redazione del giornale. [Qui l’intervista in inglese: findearticles.com]. Nello scritto originale, così scriveva Buckley: “La musica di Nusrat sembra spiccare il volo, che sana, penetra, squarcia il cielo aperto, rivelando lentamente il volto raggiante dell’Amato. Una voce canta come se fosse l’ultimo suono da ascoltare prima di morire e fluttuare nel paradiso o nell’inferno. Quella fiamma gutturale di melodia ed estasi si spirigiona dalla gola di un uomo che è talmente immerso nella musica da non esistere più”.
La versione mai pubblicata dell’intervista manifesta quel “marciume interiore” di cui era afflitto. Buckley, di tradizione, era cattolico. Aveva quella percezione ultra terrena della vita che distingue ogni artista. Era consapevole dello sporco che gli puzzava dentro, vinto grazie alla musica di NFAK: “Sei anni di ascolto della sua musica e quattro concerti hanno guarito il marcio che era dentro di me”.
https://www.youtube.com/watch?v=tf_Q-EWSRw0
Una digressione… Nusrat Fateh Ali Khan e il Qawwali conquistano l’Occidente negli anni novanta, merito dall’arguzia di Peter Gabriel, creatore della Real World. Un progetto e una etichetta discografica che diede vita al genere “World Music”, l’unione tra il sound contemporaneo e tradizioni musicali di varie nazioni, Italia inclusa. Come il coro sardo Tenores di Bitti, scoperto dal jazzista Ornette Coleman (in “Grace” c’è lo stile free jazz di Coleman!) e definito da Frank Zappa “un gruppo bovino”, per le particolari caratteristiche vocali.
Un brano di Buckley raggiunge ancora oggi i maggiori consensi, Hallelujah, cover di Leonard Cohen e inclusa nell’album di Cohen “Various Position” del 1984. In realtà, lui s’innamorò della versione di John Cale. Un brano che Jeff è riuscito a far suo, aggiungendo una strofa ascoltata nella versione di John Cale (la traccia è nell’album tributo dell’ex Velvet Underground “I’m Your Fan”). Anche l’arrangiamento ricorda quello di Cale, più che l’originale.
Scrive Leonardo, partecipe al forum dedicato a JB su Facebook: “Già il fatto che Jeff decida di cantare Hallelujah indica che la fa sua. Siamo di fronte ad un autore che nella canzoni parla di sé: non credo che canterebbe qualcosa che non gli appartenga. Infatti, lo dimostra modificandone le ultime strofe. C’è una forza che la canzone di Cohen non ha”.
Solo le prime due strofe cantate da Buckley in Hallelujah compaiono nel testo originario di Leonard Cohen. Cambia il finale nelle differenti esecuzioni del brano. In Jeff c’è un amore ferito, un alleluia al contrario, un vomito colleroso su una storia che non doveva finire.
Forse c’è un Dio sopra di noi
Ma tutto ciò che ho imparato dall’amore
E’ come sparare a chi ti convince a essere sincero
Non è un grido che senti di notte
Non è qualcuno che ha visto la luce
E’ un freddo e balbettante Alleluia
In Hallelujah, Leonard Cohen impersonifica Uria, un hittita naturalizzato ebreo di cui è scritto nella Bibbia. Tradito dalla moglie Betsabea, indotta al peccato dal re Davide, costretto poi a eliminare Uria, spedendolo in battaglia. Morirà per difendere il regno di colui che gli ha tolto il bene più prezioso (Secondo libro di Samuele, 11 e 12 capitolo). Una storia di violenza e di soprusi del ricco Davide sul povero Uria, metafora di una tragedia sociale che si perpetua nel mondo di oggi, causando sofferenze alle categorie più povere e indifese. Mentre Buckley urla il suo dolore, Cohen mostra la poca fede nella bontà degli uomini.
Ho fatto del mio meglio, ma non era granché
Quello che non potevo sentire, ho provato a toccare
e ho detto la verità, non sono venuto ad ingannarti
e malgrado ciò
è andato tutto a rotoli
Starò davanti al Signore della Canzone
Con niente altro sulla lingua che un Alleluia
Jeff dichiarò in un’intervista: “Hallelujah rappresenta qualcosa della mia vita, qualcosa che amo e che mi manca. Un giorno guardavo la casa a una mia amica, lei aveva lasciato una bottiglia di whisky fuori e io cominciai a bere così tanto da ubriacarmi. Diventai triste. Andai a suonare al Sin-è piangendo come un disgraziato. Cantai per la prima volta Hallelujah, in lacrime”. Forse si riferiva alla storia sentimentale finita con Rebecca Moore, conosciuta nel concerto tributo a Tim Buckley, nella chiesa di Sant’Anna, il 26 aprile del 1991.
Leonardo, via mail, esalta l’interpretazione di Jeff Buckley: “Mettendo da parte il fatto che gli episodi biblici che cita – sono incontri che poi portano a eventi tragici, “… ma tutto ciò che ho imparato dall’amore / è come sparare a chi ti convince a essere sincero” è il grido di chi l’amore lo ha scelto e lo ha vissuto fino in fondo. L’unico modo che credo esista sta proprio nel farsi consumare. È un’esperienza spesso dolorosa, che può non essere contraccambiata. E l’amore non contraccambiato è un’esperienza che in pochi riescono a sostenere. Jeff Buckley è rimasto bruciato da questo amore, ma non da mollare. Impaurito, timoroso, pronto ad estrarre la pistola per difendersi da altre ferite, ma non arreso. È in attesa, direi. È l’attesa ciò di cui mi parlano gli ultimi tre versi della canzone. Non ha visto nessuna luce, niente ancora gli si è manifestato. Ma non è neppure il pianto nella notte di un uomo spezzato, di chi ha visto tutte le speranze cadere, di chi riconosce che ha perso tempo o che ha perso l’ultimo treno per il compimento del suo desiderio più profondo. È il grido di lode, di invocazione, di un uomo che è capace di portare le sue ferite in una ricerca che sa essere ancora lunga, ma nella quale ha una speranza tale da poterla gridare. Non sa se esiste un Dio lassù, ma sa che esiste l’amore“.
In tanti (giovanissimi soprattutto) credono che il brano di Buckley sia l’originale, mentre quello di Cohen una cover mal riuscita, tale è la notorietà della sua versione. Alle masse, Tim è noto perché padre di Jeff Buckley! Nel brano di soprannaturale c’è solo la parola “alleluia”, ma quell’incontro da realizzarsi con la Luce – It’s not somebody who’s seen the light – è capace lo stesso di far vibrare l’anima degli ascoltatori.
Buckley considerava “Mojo Pin” e “Grace” canzoni spirituali. In origine, s’intitolavano And You Will (E lo farai) e Rise Up To Be (Risorgi). Perché Buckley le considerava “spirituali”? Le sue esecuzioni assomigliano, nella struttura, al canto gregoriano, oltre che al Qawwali. Buckley misticizza le sue interpretazioni: la sacralità è tutta nella sua voce, “una goccia di suono puro in un oceano di rumore” la definì Bono Vox. Molti brani di “Grace” hanno un’aria greve, straziante, per poi ascendere verso una luce. L’album è celestiale come il canto gregoriano, cupo e autodistruttivo come il punk.
La simbologia cristica di “Corpus Christi Carol”, un canto religioso del 1500, rimane intatta nell’interpretazione di Buckley, anche quando, in alcuni passaggi, manifesta gli stati d’animo peggiori, quelli che solitamente segnano i dischi dei Nine Inch Nails e dei Sonic Youth. Un ossimoro senza contraddizioni. Il brano è carico di riferimenti a Cristo morto e risorto, alla Vergine Maria ai piedi della croce, alla vita eterna dopo la morte.
On this bed there lyeth a knight
Sul quel letto (la Croce) giaceva un cavaliere (Cristo)
His wound is bleeding day and night
La sua ferita sanguina giorno e notte (i segni della Passione di Gesù)
By his bedside kneeleth a maid
Di fianco al letto stava una damigella (Maria, in piedi, davanti alla Croce del Figlio)
La strofa finale chiude così: “And she weepeth both night and day…”. Tradotto: “E notte e giorno lei gemeva”. Lei… l’umanità, gemeva le doglie del parto, prima di far nascere un nuovo mondo salvato dal sacrificio di Cristo. Chissà se ne era consapevole, Jeff.
Nelle varie interviste, definì Mojo Pin “… sogno di un amore impossibile” e Grace come “quel tipo di eleganza che trascende ogni bruttezza fisica”. Ai giornalisti parlava di Dio: “Chi è Dio? Non lo so. A livello subliminale, sono cresciuto cattolico. Cattolicesimo e voodoo. Sono la stessa cosa. La famiglia di mia madre era panamense. Credevano nel voodoo. Nessuna differenza tra il Papa e il brujo, lo stregone. Non credo nella religione organizzata, con un Dio seduto su un trono, tra le nuvole. Gesù non tornerà. E’ morto. Non ci resta che vivere da soli. E’ la musica l’unica cosa che ci resta. La musica contiene tutte le religioni. Esiste anche senza l’uomo. La musica è”.
Un battezzato che non amava la Chiesa: “Perché mostrano sempre Cristo che sanguina e muore sulla croce? Noi non ricordiamo John Lennon che giace con un buco in testa! Sono contro ogni religione. Sono contro l’organizzazione arbitraria di Dio come concetto. Dovremmo sperimentarlo individualmente, in modo puro. Non sono d’accordo con la separazione tra spirito e corpo, non credo che ne facciamo parte, non credo che Dio sia un uomo. In molte religioni non c’è posto per le donne. Non ci sono donne nella Trinità e io ne ho bisogno. Io amo tutte le donne. Provengo da una donna”.
Buckley non conosceva la Bibbia. Avrebbe potuto rendersi conto che gli atteggiamenti di Dio nei confronti dei suoi figli sono materni, teneri. Come una madre e un padre misericordioso. Una spiritualità, la sua, senza legami con i dogmi e la tradizione cristiana, anche se la visione religiosa della vita – e il forte legame ad essa – appare in “Grace”. Spiegando il brano “Eternal Life”, disse: “E’ solo una canzone che parla di quanto sia breve la vita e di come non abbia un senso sprecarla, sforzandosi di rovinare l’esistenza di qualcun altro”.
Dietro l’arte di Jeff Buckley, c’era un ragazzo ricoperto di piume d’angelo che ha vestito la musica di luce intensa e di dolore. In un tempo molto piccolo, ha visitato il mondo con la sua grazia, elevando l’esistenza troppo terrena di tutti: “Ti cercavo per avere esperienze trascendenti. Per essere portato via da me stesso. Via dalla solitudine e dall’alienazione”. E’ la dedica cantata da Elizabeth Fraser dei Cocteau Twins a Jeff Buckley, nel brano “Rilkean Heart” (album “Milk & Kisses”).
Joni Mitchell nel Lamento per Jeff Buckley, all’indomani della sua scomparsa, scrisse: “Grazie, o Signore, per la sua canzone. Per la sua follia, orgoglio e passione. Sii lodato per la sua scintilla che ora sfreccia nel cielo della notte. Verso uno strano posto”. Quel posto dove germoglia il fiore della nostra riconoscenza.
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L’idea del post nasce dopo aver…
ascoltato “Opened Once”, inclusa in “Sketches for My Sweetheart the Drunk”
visto “Everybody Here Wants You”, un documentario della BBC su Jeff Buckley
letto alcune biografie da cui ho tratto dichiarazioni e riferimenti biografici dell’artista:
“Jeff Buckley – Un hipster con la testa d’angelo” – a cura di Riccardo Bertoncelli, Chiara Papaccio, Cristina Zambruni, ed. Giunti 1997
“Jeff Buckley – Aspetto nel fuoco, la prima biografia” di Chiara Papaccio, ed. Giunti 1999
dedicato ad Alex
I want to find good pop music. Help me please.
Vorrei, solo per una volta, che scrivendo di Jeff qualcuno ricordasse che era “semplicemente” un uomo, innamorato della vita, della voglia di vivere e della possibilità di esistere, di essere, attraverso la (sua) musica.
La morte, il misticismo, l’angelo nero, la premonizione, il destino…parole troppe volte pronunciate che rischiano di allontanare dalla bellezza della sua performance per trasformarlo nel mito maledetto.
Basta, per favore; Jeff è anche, e soprattutto, gioia di partecipare ad un evento, la sua arte, che (come diceva Chris cornell) fa della vita un momento importante. Ascoltiamolo dunque nelle registrazioni del Sin-è, dove gioca, scherza, ride, partecipa, coinvolge in un live che è soprattutto condivisione.
Non c’è sempre bisogno di vedere, prima, il buio per apprezzare, poi, la luce.
Hey Francesco! Il buio c’è in “Grace”, almeno, io lo sento. L’utilizzo di accordi in Mi minore distinguono il disco e ogni album malinconico, manifestando un’inquietudine, un malessere che lo stesso Buckley ha cercato d’esorcizzare con la sua arte angelica (un tributo, il mio, alla storica fanzine italiana degli amici di Jeff Buckley “Lonestar – Il Verbo degli Angeli”). Nel post ho scritto: “… la visione religiosa della vita – e il forte legame ad essa – appare in “Grace”. Lui era innamorato della vita, lo stesso era capace di guardarsi dentro e di manifestare tutti gli stati d’animo. Anch’io rigetto l’idea del mito maledetto, è scritto nell’introduzione del post. Anzi, ho voluto evitare pericolosi parallelismi con il presagio della morte, non citando la strofa iniziale di “Lover, You Should’ve Come Over”. Ma rimango senza fiato quando leggo alcune sue parole… E’ inevitabile. Il set del genuino “Live at Sin-è” è composto per metà da due cover, nonostante le ore di musica registrate nella fase pre-produzione dell’Ep. In totale, quattro brani: pochi per rivelare il Buckley “uomo”. Ciascuno, comunque, ascolta le canzoni in maniera personale. Nella prima uscita di “Grace” in Giappone, Buckley si rifiutò di stampare i testi tradotti delle canzoni, dicendo: “Che ognuno le interpreti secondo la propria esperienza, la propria storia personale, la propria sensibilità”. Io l’ho fatto, tu l’hai fatto. A lui va bene così. :-)
For Kalebarkab: Jane Siberry – Dave Matthews Band – The Church – Johnny Cash – Al Green and many more…
Ciao Max, ti ringrazio per la risposta; è un piacere comunque condividere impressioni su questo grande artista.
Il post non voleva assolutamente screditare il tuo articolo, che tra l’altro trovo interessante; chiamiamolo sfogo il mio, quando in realtà è un piccolo consiglio, perché come saprai troppi artisti diventano vittime della loro stessa identità (presunta/desunta dal pubblico). Non nego una certa linea “misteriosa” dietro la musica e la vita di Buckley, però, ecco, è bello uscire dal personaggio ogni tanto (Cobain c’era finito dentro fin troppo) e credo che Jeff ne avesse una gran voglia: essere artista, trasmettere arte. Poi possiamo discutere di ogni altra cosa, però la musica..ecco è li che dobbiamo cercare, come hai fatto in alcune parti dell’articolo. Ci rimane questo in fin dei conti, è inevitabile (purtroppo) ma è un gran dono, per cui ogni volta che leggo un articolo a lui dedicato con rimandi al “mistero” resto perplesso. Per l’esempio del disco, io intendevo il live uscito in edizione deluxe, con tanti brani e intermezzi tra una canzone e l’altra..è estremamente sorprendente; questa aura tutta intorno..ma lui gioca davvero con la musica, e ne fa una faccenda seria allo stesso momento; si diverte, esplora (immense le cover di Van Morrison)ed è semplicemente importante così com’è, non trovi?
Ma questo è solo il mio modo di vedere l’uomo e la musica, come dici bene tu.
Ti ringrazio per la tua attenzione e ti segnalo un libro molto interessante su Jeff che racconta delle sue canzoni: “Dark Angel- i testi di Jeff Buckley” edito da Arcana.
Francesco
La riflessione di Francesco offre l’opportunità di scrivere sulle pubblicazioni postume di Jeff. In effetti, i miei riferimenti discografici riguardano quel poco che Jeff ha pubblicato in vita, come il primo “Live at Sin-è”, il disco che ha preceduto l’uscita di “Grace”. Gli albums e le registrazioni pubblicate dopo la sua morte, probabilmente non aggiungono nulla al talento dell’artista, come la recente pubblicazione del live “Grace around the world”. Il parere, ovvio, è molto personale. L’eccezione riguarda i brani singoli estratti da “Grace” con le bonus track (vere chicche), specie quelli pubblicati in Australia e Giappone, l’album “Sketches for My Sweetheart the Drunk” (almeno il primo dei due cd). Acquistando i cd postumi di Buckley, ho l’impressione di avere in mano un limone spremuto fino all’inverosimile. E questo, Jeff non lo merita. ;-)
D’accordissimo!Ma mi sto riferendo all’unica ristampa che forse merita la considerazione di ogni critico che cerchi di analizzare in dettaglio la musica di Buckley!Questa deluxe edition del “live at Sin-è” va oltre il mero scopo commerciale, come invece potrebbe esserlo questo “Grace around the world”; i due dischi contengono il materiale complessivo dei “caffè days” (come li chiamava Jeff), canzoni per il quale lo stesso locale (il Sin-è) iniziò la collaborazione con l’artista; e non poteva essere altrimenti!Sono convinto che questo live sia un modo indiscutibilmente utile per capire l’universo musicale di Jeff: le influenze, lo stile, la rielaborazione di classici; insomma un documento che ci avvicina in maniera chiara al suo unico vero lavoro “Grace” (non ho mai sentito “Sketches..” perché effettivamente non compiuto!)Ecco il punto; tanti libri, tante parole spese, tante biografie inutili, tanto materiale audio come merce; ma questo disco no, non può esserlo, perché più di ogni gossip o ipotesi di misticismo ci avvicina davvero all’uomo Buckley (per quanto possibile). E’ qui che lo sentiamo autenticamente legato alla sua musica che è anche la nostra!(mi riferisco alle splendide cover)
Continuo dicendo che il materiale è precedente a “Grace”, questo non fa che arricchire il tutto perché, come detto, ci mostra un’artista che sceglie l’intimità di un piccolo locale per sperimentare sul momento, per crescere come musicista, che si adopera in una vera e propria performance che coinvolge anche il pubblico (provare per credere!),insomma l’attimo prima dell’affermazione. Le chicche sono qui: le prime versioni acustiche di “Eternal life”, “Mojo pin” ed altre; le interpretazioni di “Sweet thing” e “The way young lovers do” di Van Morrison. Questo non è un inutile limone!
Rischiamo di fare un “botta e risposta” noioso, vista l’ora poi… Caro Francesco, non comprendi pienamente ciò che scrivo. Ma la colpa è mia, perché mi esprimo poco chiaramente. Le biografie sono inutili? Beh… contento tu. Le testimonianze di fans di Buckley raccolte via mail e su Facebook, anche atei e non cristiani che hanno letto il post, sono diatralmente opposte alle tue. Cosa vuol dire? Dov’è abita la verità? Assolutizzare un’idea (le mie innanzitutto) non aiuta a costruire nulla. E’ questo mi spaventa quando si tratta di musica. L’ascolto e le sensazioni che ne derivano, rimangono un fatto personale. Non c’è chi ha torto e chi ha ragione. La musica è piacere. Quando innesca “altro”, la spegniamo per ascoltare solo il nostro rumore.
Nel mio iPod ho tre versioni differenti de “L’edera” cantate da Nilla Pizzi, Beniamino Gigli e Gigliola Cinquetti [invano ho cercato quella di Tonina Torrielli]. Considero “L’edera” il brano più bello della musica italiana anni ’50. Gli amici lo sanno e mi prendono in giro. A volte, me la canticchiano apposta. Sono più che convinto che quel brano ha un valore inestimabile. Per me è così. E accetto serenamente lo scetticismo di chi, invece, pensa il contrario.
Non giudico – mai – i gusti altrui, o la percezione che gli altri hanno della musica.
Oggi i Tokio Hotel sbancano il mercato, c’è chi compra non solo i loro dischi, ma anche i gadgets, va ai concerti. Ai miei tempi, c’erano i Duran Duran. Emozionano, dicono qualcosa all’ascoltatore? Va bene uguale. Durante i corsi di Comunicazione, nell’analizzare un film o un album, mi hanno insegnato a non usare mai l’aggettivo “bello” o “brutto”. Ricordo una ramanzina del prof. per non aver compreso alcuni passaggi di un film di Stanley Kubrick, da me definito “noioso”. Rischiai di non passare l’esame. Capii allora, come gli aggettivi utilizzati per definire un’opera possano diventare “squalificativi”.
Se non hai ascoltato “Sketches for My Sweetheart the Drunk”, ti consiglio di farlo. Mi domando come puoi fare a meno di “Everybody Here Wants You”, “Opened Once” o “Vancouver”… Entrambi siamo in contraddizione: a te piacciono i dischi pubblicati dopo la tragedia del ’97, ma non ascolti “Sketches for My Sweetheart the Drunk”, a me non piacciono gli albums postumi di Jeff, ma ascolto “Sketches for My Sweetheart the Drunk” – l’ho comprato due volte. Nel secondo cd, quello brutto, si ascolta confusamente un Buckley “in fieri”. Quanta voglia aveva di staccarsi di dosso le piume d’angelo e di gettarsi a capofitto nei meandri più scuri della sua anima! Un’altra cosa (e poi basta): non sono un critico musicale, se così fosse non avrei messo in discussione il mio scritto. Non ho le competenze tecniche, mi sarebbe piaciuto farlo, ma il buon Dio ha disegnato provvidenzialmente altre strade. Altrimenti avrei annotato che i live di Buckley mostrano una carenza dal punto di vista musicale: la band che si era scelta non era all’altezza del suo talento.
La versione “Live at Sin-è” (l’unica, quella del ’93) fu Jeff a volerla pubblicare nella versione EP, per far capire alla Columbia Records:
– Che lui avrebbe stabilito quando e cosa pubblicare
– Che avrebbe gestito le strategie commerciali a suo piacimento
Le biografie sono utili, eccome.
Le edizioni successive, per quanto significative, tradiscono le sue intenzioni. Ho scritto “Il punk gregoriano di JB” per il piacere di condividere. Ciò mi diverte e mi emoziona. Col senno di poi, per essere concordi, avrei dovuto intitolare il post: “Jeff Buckley, vero dio e vero uomo”. ;-)
Non scrivo di “misticismi”. Io odio tutto ciò che finisce in “ismo”. Caso mai, ricerco la mistica: l’esperienza del divino manifestata, anche solo implicitamente, nel rock.
Chiudo, con una citazione di Christian Verzeletti (di mestiere fa il critico musicale) pubblicata su Mescalina.it, riguardo Jeff: “Sarebbe doveroso nei confronti dell’artista e della sua musica chiudere così la sfilza di pubblicazioni postume: questo sembra suggerire il titolo, “The ultimate fan experience”, ma il Sin-è, ora che è stato “aperto”, rischia di essere raschiato come un barile da cui il vino migliore è già stato bevuto”.
Ridiamoci sù, evviva! :-)
Max, dopo qualche giorno ho ancora i brividi per il pezzo…
…commossa e riconoscente, a Jeff per la sua musica…ancor di più ora, dopo averlo conosciuto meglio…lirico e punk…la mia sintonia con la sua musica è piena…
E grata a te, per quest’incredibile “guida” alla sua scoperta e per aver colto alla perfezione tutte le sfumature possibili della sua musica, strettamente legata alla sua esperienza interiore. Sfumature che hanno gli stessi colori di un’alba e di un tramonto al contempo: dolore introspettivo, fonte di buio creativo e riflessione…e poi sguardo verso l’alto, all’amore: sono gli stessi colori intensi, perfettamente miscelati, infuocati di passione vitale come quella di un ragazzo vivo e desideroso di pienezza, come ognuno di noi…colori al contempo puri com’è pura la musica, che lui ha elevato a vera “religione” della sua vita, come si evince dalla ricerca nei suoi testi (…e Dio forse si è “incarnato” nuovamente in questo mondo sofferente proprio nella musica! :)
In ogni caso, leggendo, insieme all’articolo bellissimo anche i commenti, penso ancor più che, tra tanti simboli, emozioni, evocazioni, rimane davanti a noi un uomo, Jeff, che forse avrebbe voluto vivere una vita normalissima, e che lo ha fatto ma sempre venendo a galla in lui qualcosa di amaro…è lì si cela il vero suo “momento creativo”: non il dolore fine a se stesso, ma quale unica via, a volte, per la normalità.
Se Jeff non fosse stato un ragazzo normale, come noi, avrebbe effettivamente qualcosa di troppo “divino” e pensarlo sarebbe un po’ da mitomani….Ma sappiamo bene – e Max lo ha fatto sommessamente percepire – che ogni uomo è “speciale”, ha un “talento” speciale e rispecchia Dio in quanto Dio è dentro di lui!
E’ qui che forse si spiega tutto: noi siamo il “riflesso” di qualcosa di perfetto, anche Jeff lo è stato e continua fortunatamente ad esserlo…solo che a volte ci si concentra a guardare solo lo “specchio”…!
Max, hai scritto delle cose giustissime e sono davvero contenta di aver aspettato un po’ la pubblicazione di questo tuo scritto, visto che è sempre una gioia leggerne!
Il vero messaggio, pertanto, della tua analisi del mondo Buckley, della sua (e nostra nell’ascoltarlo) esperienza interiore e della condivisione con tutti noi di ciò, forse può ormai addirittura superare la cultura musicale, che ci ha aiutati nel percorso, e giungere all’essenza dell'”uomo” (in questo caso, Jeff) e del miracolo che egli può diventare per passione…la passione, condita o meno di sofferenza e buio, di guizzi vitali e di follie generose, porta sempre frutto…in qualcuno dei nostri mondi!
Grazie per questa lunga e esperienza di lettura/ascolto, a cui son contenta di aver dedicato un ottimo silenzio notturno, come una preghiera…!
Grazie a Simonetta :-) e a Francesco ;-) per la condivisione. Ad maiora!
Girovagando sul web a tarda ora, dopo che Jeff mi ha tenuto compagnia con la sua voce ancora una notte, mi imbatto in questo articolo… e dopo averlo letto non posso fare a meno di dire che è uno dei migliori (o forse proprio il migliore) “articoli” che abbia mai letto.
Purtroppo nel web si trovano tante parole spese superficialmente… troppe dette senza senno, e altre pronunciate così tanto “per dire” che Jeff era un bravo artista.
Finalmente un articolo scritto col cuore =) davvero.
Comunque non tutti concordano col fatto che Jeff sia stato un grande… ovviamente non può piacere a tutti… è che mi pare così assurdo, perchè lui per me è un pezzo di vita, molto di più che un cantante qualsiasi!
=)
Ogni volta che si parla di pubblicazioni postume relative alla musica di Jeff non posso evitare di sentire un “fastidio epidermico” profondo, considerando quanto fosse perfezionista e quasi maniacale rispetto alla musica che pubblicava in vita. Ma forse la strada giusta è evitare posizioni troppo rigide sia in un senso che nell’altro. Per lo meno fino al “Live @ Sin-è legacy edition” anche perchè si tratta di pezzi che comunque jeff proponeva spesso dal vivo e questo mi fa valutare diversamente la loro pubblicazione rispetto a brani registarti da Jeff per chissa’ quale ragione ma che magari non avrebbe condiviso col suo pubblico in nessun caso.
Detto questo, pezzi come “The way young lovers do” presenti sul “Live @ Sin-è restano di una bellezza disarmante, anche se preferirei fosse stato Jeff a decidere quando e come regalarceli pubblicandoli.
@ Max Granieri : Mi interesserebbe sapere cosa ti fa affermare che la band di Jeff non fosse alla sua altezza, a me sono sempre piaciuti molto ma è ovvio che a livello creativo nessuno della band avesse la statura di Jeff. Mi sembra pero’ che tu non intendessi questo e mi interesserebbe appunto un parere critico rispetto ad una band che in genere viene “pluriosannata” quasi aprioristicamente.
Infine volevo dire che forse la musica di jeff e’ cosi’ coinvolgente proprio perchè in lui convivevano in maniera evidente gli aspetti “oscuri” e quelli “luminosi” dell’anima e nel disperato tentativo di trovare un equilibrio ci ha trasmesso delle emozioni quasi impossibili da spiegare a parole.
Grazie per aver ricordato Jeff con questo bellissimo post.
Ciao Geri. Riguardo la band di Jeff Buckley hai colto nel segno: i membri – scelti da lui – non potevano competere a livello creativo con Jeff. Le loro esibizioni live non aggiungevano nulla a quanto si ascoltava su “Grace”. Ecco perchè non amo le pubblicazioni postume del Nostro, specie quelle dal vivo. Mi chiedo: chi avrebbe mai potuto livellarsi a Buckley? Grazie per il tuo “feedback”. :-)
Max ma alla fine ha ascoltato Live at Sin-è?
No perché si rischia di discutere senza argomenti.
Questo disco è suonato dal solo Buckley, voce e chitarra. Insistevo delle sua importanza proprio per questo.
Certo Francesco, fa parte della mia discoteca. W Jeff! Buon tutto. :-)