Esercizio: passaggi

Questo post verrà aggiornato continuamente nei prossimi giorni (chi era presente all’Officina può mandare il proprio elaborato all’indirizzo comunicato in sede).

Durante l’Officina di marzo (sul tema “Passaggi”) è stato proposto un esercizio.

Sono state proiettate tre immagini-stimolo (senza titolo né spiegazione): è stato chiesto di sceglierne una e di scrivere una storia a partire da essa.

Queste le immagini:

1. Helen Levitt

2. Mark Kauffman – Old Lady Held Back With Appearance by Mamie Eisenhower

 

3. W. Eugene Smith – “Walk to Paradise Garden”

 

Agnese (foto n. 1)

Per l’emozione di un momento

La sera prima Billy era tornato a casa tardi e suo padre gliele aveva date di santa ragione. Dopo essere entrato in camera, si era buttato sul letto a piangere. Sapeva che il suo papà si sarebbe arrabbiato ma era stato più forte di lui: non aveva nessuna intenzione di tornare a casa e così era rimasto ancora fuori a giocare con gli altri.

Quella mattina le guance gli facevano ancora male per gli schiaffi presi, perciò si era ripromesso di non far arrabbiare i suoi genitori per nessun motivo e di non cacciarsi nei guai. La mamma gli aveva ordinato di restare a casa e Billy si era messo a fare colazione in cucina. Ad un tratto però sentì un colpo alla finestra: erano Tom e gli altri.

-Dai, vieni giù a giocare!- gli disse Tom e, quando Billy raccontò ciò che gli era successo la sera prima; gli dissero di non preoccuparsi, tanto nessuno avrebbe saputo che era uscito. Aveva così tanta voglia di giocare che si fece convincere, prese la giacca e uscì.

Iniziarono a fare una passeggiata e arrivati su una grande strada videro un camioncino, aperto sul retro. Greg fu il primo a salirci e gli altri lo seguirono. L’ unico che non si mosse fu Billy: sapeva di non poterlo fare; sapeva che suo padre si sarebbe arrabbiato molto e sapeva che se ci fosse entrato, avrebbe superato ogni limite.

Fece un respiro profondo e saltò sul camioncino. Si divertì un mondo senza pensare a quello che sarebbe successo dopo: alle botte che avrebbe preso se il proprietario del camioncino si fosse accorto che erano lì dentro, allo sguardo severo di suo padre… Esistevano solo lui, i suoi amici e l’ emozione di quel momento.

Greta (foto n. 2)

Ed eccoci, schierati, vestiti di confuse speranze, la piazza sembra ardere di sguardi, mentre lasciamo che parlino bandiere e striscioni, stendardi di pedine che ribellandosi vogliono far loro la scacchiera. La paura serpeggia fra di noi e si nasconde nell’odore acre dei fumogeni, per poi brillare sui caschi e sulle armi di coloro che ci osservano dal lato opposto.

Poi, dal silenzio un fremito, dal fremito un grido, e infine il contagio: le prime due file si sono accese e chi è dietro non può evitare di prendere fuoco.

Qualcosa si è rotto, mentre la punta del primo anfibio nero brillava sotto il sole già altri mille marciavano verso di noi. Ora le bandiere sono sorde e gli striscioni impotenti di fronte al frastuono delle mani che si tendono e della piazza che si colora di calda porpora.

Matteo, Valerio, Marta, Alessio (foto n. 3)

(Matteo, Valerio, Marta e Alessio hanno portato a termine un inconsueto lavoro di gruppo, realizzando un prodotto in tre parti.)

Prosa:

Ripensandoci credo che allora fossimo molto più felici, meno consapevoli, ma felici.

Guardavamo al futuro senza paura, perché eravamo insieme. Non dimenticherò mai quel giorno, quando uscimmo da quel bosco. Sebbene fossimo soli io non avevo timori perché c’eri tu con me, mi avevi giurato che vi saresti sempre stato. E io mi fidavo, eccome se mi fidavo! Mi hai preso per mano e mi hai portato fuori dal bosco verso la luce. Quello è stato il momento più importante della mia vita: il passaggio dal buio alla luce. Tu mi hai portato la luce e pensavo lo avresti fatto sempre. Ma adesso dove sei?

Poesia:

Vaghiamo senza una meta
di tappa in tappa
senza pressioni nè altri pensieri.
Abbandoniamo ciò che conosciamo già
per trovare ancora qualcos’altro da condividere.
Tutto questo può avere un senso
solo se con me ci sei anche tu.

Acronimo:

Possiamo
Andare
Solo
Se
Andiamo
Giorno per
Giorno
Insieme

Vincenzo (foto n. 3)

I passi di George erano pesanti nonostante i teneri piedi, ogni tanto si girava, poco convinto, per vedere dove fosse Mary. I suoi pensieri viaggiavano più veloci di lui e cercava di carpirli con lo sguardo, la curiosità gli era più cara di qualsiasi altra cosa. Quando uscirono dal tunnel del sottobosco, la luce si aprì davanti a loro e finalmente Mary riuscì a vedere il suo viso ed i suoi veri occhi, aveva le lacrime al volto. Mary continuava a chiedersi cosa fosse successo a suo fratello, mentre lui continuava a camminare. Un vento improvviso sfiorò le mani dei due bambini, che in un gesto inconsulto si strinsero in un abbraccio, il sentiero era più duro sotto i loro piedi e la natura respirava rumorosamente. “È tutto finito”disse all’improvviso George,” Adesso ci aspetta la luce”.

Antonio (foto n. 2)

Si è aperto un varco tra la folla, un mare che si è diviso in due, e c’è una terra di mezzo. Non lo avrei mai creduto; un attimo prima ero mano nella mano con lui.

Signore, abbia comprensione per me; da sola non ce la posso fare. Lui da me o io da lui, la prego.

Non so niente di politica, ordine pubblico, sicurezza, so solo che mi ritrovo in mezzo a una divisione che lascia un resto imbarazzante, scomodo, incomprensibile. Sono debole, non importa che lei, signore, impieghi tutta questa energia per tenermi da questo lato. Abbassi quel braccio, signore, e io mi avvicinerò da lui con passo lento, ma fermo, perché so dove andrò. Raggiungerò un vecchio intimorito e indifeso quanto me, che in questo stesso momento starà esprimendo le medesime istanze ad un altro signore vestito come lei, che come lei starà facendo il suo dovere. Posso immaginare il suo sguardo inquieto in questa direzione, alla ricerca di un indizio che lo rassicuri della mia presenza. Forse starà annusando l’aria, è sottovento, e cercherà di riconoscere il mio profumo, la fragranza della mia pelle, l’odore di naftalina del mio soprabito.

La prego, signore, nessuno la biasimerà, nessuno potrà incolparla per aver fatto un passo misericordioso nei confronti di una povera vecchia. Non abbiamo più molto tempo, sa, ogni giorno mi sveglio e mi premuro di sentire il suo respiro, e respiro anch’io, è un sollievo quotidiano. Ma oggi, signore, lei vede quanta agitazione nella folla?

I nostri figli sono grandi, li vediamo nel giorno del Ringraziamento, e poi a Natale. Non tornano più la domenica. Non frequentiamo molta gente, e ci siamo abituati ad una mutua solitudine e ad un sostegno reciproco. E’ trascorsa già una mezz’ora, in questa agitazione di folla mi sembra di impazzire, e lui starà pensando altrettanto.

La prego.

Valerio (foto n. 3)

– Perché non ti sei voltato quando ti ho chiamato poco fa?
– Non lo so, è stato per qualcosa che ho sognato. Ma che ora non ricordo.
– Cosa?
– Ricordo che stavi dietro di me, io camminavo e poi non c’eri più.
– E dov’ero?
– Indietro, nel grembo della Terra.
– Era un posto dove volevo stare?
– Era un posto dove nessuno vorrebbe stare.
– E poi?
– Nulla, non ricordo. So solo che non mi dovevo voltare. O ti avrei persa per sempre.
– Sono contenta che non ti sei voltato allora.
– Sta iniziando a fare freddo.
– Promettimi che non mi perderai.
– Torniamo a casa, Euridice.

Valentina (foto n. 3)

Aprii la porta. Un tepore si affacciò sulle mie guance. Alle mie spalle, era possibile intravedere le mie orme scolpite nel fango. Il giardino era tetro, umido. Mi divertivo a sfidare il freddo lanciando soffi di aria calda dalla mia bocca, ma era chiaro: solo una bambina poteva pensare di vincere il forte ghiaccio delle pendici appenniniche con il fumo della sua bocca. Quella casa. Mia madre aveva cercato in tutti i modi ingannarci. Aveva tirato fuori dagli stucchi, le pietre rosse pregiate della valle con cui era stata costruito l’immobile. Si vantava con tutti dell’enorme valore che doveva attribuirsi a quelle pietre. Aveva dato evidenza ai travi in legno. Aveva inserito splendidi infissi. La sua idea era chiara. S’immaginava di poter trasformare quella cupa ostile ed acquitrinosa collina in un giardino incantato. Ci immaginava bambini. Io e mio fratello. Ci sognava in abiti ottocenteschi, esplorare curiosi la natura e riemergere mano nella mano dal ciglio del bosco. La stalla ereditata dai nostri poveri nonni contadini era stata mascherata, travestita. Si atteggiava oggi ad antico casolare toscano. Avrebbe potuto divenire forse ambita meta per turisti stranieri.

Che dire?

Oramai avevo deciso. Avrei lasciato quella piccola realtà di montagna. Avevo sempre negli occhi il freddo del giardino, il fango delle scarpe, la noia della nebbia e i segni dei catenacci sui muri, una volta utilizzati per tenere incatenati gli animali.

Nessun vincolo, morale, affettivo o materiale avrebbe potuto impedirmi di partire, lasciare quella casa e spiccare il volo.

Dante (foto n. 3)

Una vita davanti. Eppure già è tutta qui. Già si vede, si tocca.

Quella sensazione di morte, tragica, che senti un mattino, quando non sei più piccolo. Quella lì, mista ad un’altra. Strana. Eppure già sentita, già familiare. Quello strano senso di necessità, che però non fa paura, di tempo che finisce e non scorre più (o forse scorre ancora ma non è rilevante), lasciando spazio alla vita. Il mistero di questa parola e lo scandalo nel pronunciarla. La vita intera in un momento, o meglio nella visione immediata di tutti i momenti, e nel miracolo di restare vivi dopo la visione, presenti. La vita intera, di persone piccole e poi grandi e poi morte, ma vive sempre e sempre diverse. La vita intera è qui ed ora, e quindi domani e tra milioni di anni e da milioni di anni. La vita è nella visione della vita intera che si squaderna intorno, sopra, sotto, prima e dopo. Non te ne accorgi?

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