Proskynesis e protesta, gesti moderni
“E prostratisi, lo adorarono”: l’evangelista Matteo (2, 1-16) racconta così, con magnifica semplicità, la visita dei Re Magi a Gesù Bambino.
E con magnifica grazia Artemisia Gentileschi ci regala la sua “Adorazione dei Magi”, una tela di imponenti dimensioni, che fa parte di un ciclo decorativo realizzato per la cattedrale di Pozzuoli tra il 1636 e il 1637, nel periodo napoletano della pittrice.
È invece una fonte del IV secolo dopo Cristo, Lattanzio, a narrarci la morte di San Pietro:
Già da qualche anno regnava Nerone, quando giunse in Roma l’apostolo Pietro e, operati alcuni miracoli per la virtù e il potere che Dio aveva infuso in lui, convertì molti alla vera fede e innalzò a Dio un tempio fedele e duraturo. Nerone, tiranno malvagio e perfido com’era, quando gli fu riferito ciò e venne a sapere che ogni giorno, non solo in Roma, ma dovunque, numerose persone disertavano il culto degli antichi dèi e, condannata la vecchia religione, passavano alla nuova, si diede con tutte le forze ad abbattere il regno celeste innalzato dall’apostolo e a distruggere la vera fede: perseguitando per primo i servi del Signore, fece crocifiggere Pietro e decapitare Paolo.
Il Caravaggio scende dentro questo testo e lo illustra con una forza addirittura fisica oltre che piena del contrasto di luce e di ombra che contraddistingue la sua pittura. E crea “La Crocifissione di San Pietro”, datata fra il 1600 e il 1601, un olio su tela conservato a Roma, nella chiesa di Santa Maria del Popolo.
Due capolavori, due storie di fede, due esempi che si collegano ad un tema che riempie le cronache di questi ultimi giorni e riporta in primo piano le lotte dei movimenti civili che rivendicano l’abbattimento dei razzismi e il riconoscimento di un’uguaglianza che l’uomo sembra non riuscire a riconoscere né ottenere, mai.
Concentriamoci su un gesto semplice e simbolico al tempo stesso, quello dell’inginocchiarsi, che attraversa la storia umana con significati diversi e informa di sé, mutandolo, il rapporto fra i membri delle società. In un periodo dominato dal concetto di distanziamento sociale, il mettersi in ginocchio assume un valore che trascende la protesta e ci riporta al senso vero di una postura che racconta storie davvero rivoluzionarie.
Il Magio più anziano, Melchiorre – il cui nome deriva da Melech, ovvero re – si inginocchia davanti al bambino: vestito con i ricchi abiti di corte del XVII secolo, è senza corona e gli offre il suo dono, l’oro, il più prezioso dei regali, che si riserva solo ai discendenti di stirpe reale. Si inginocchia e piega il capo in un gesto rispettosissimo di venerazione. La scena è avvolta da un silenzio ossequioso e il viso dell’uomo appare commosso. Il suo corpo si piega ed è animato interiormente da un sentimento di gioia, di pace, di speranza.
Nella cultura prima assira e poi persiana, il gesto della proskýnesis (dal verbo greco προσκυνέω, che significa “porto la mano alla bocca inviando un riverente bacio”) era l’atto tradizionale di riverenza al cospetto di una persona di rango sociale più elevato. Con il passare del tempo, secondo altri studiosi, l’impiego di questo verbo nei testi greci classici, pur mantenendo intatta l’etimologia, si modificò per indicare unicamente il gesto della genuflessione che veniva riservata al culto degli dei: sarebbe stato un tradimento contro l’idea greca di libertà fare la proskýnesis a un mortale.
Guardiamo ora il dipinto caravaggesco. Sotto la croce di Pietro – che verrà di lì a poco crocifisso a testa in giù per sua stessa richiesta, una richiesta tesa anche a rimarcare la sua inferiorità nei confronti di Cristo – c’è una figura maschile inginocchiata, di cui non vediamo il volto ma da cui trapela uno sforzo immane. Gli uomini incaricati della condanna a morte di Pietro stanno erigendo la croce: uno si aiuta con una grossa fune, un secondo abbraccia il legno e lo tira verso l’alto, il terzo a carponi sotto la croce cerca di sollevarla con la schiena. Sembra che nel ritrarre questi aguzzini Caravaggio abbia scelto a modello dei lavoratori di strada, volendo come sempre rendere protagonista delle sue storie la quotidianità, il mondo della gente semplice. Nel raffigurare un momento tanto drammatico viene inserito anche un gesto che è al contempo simbolo di fatica del lavoro e di umiltà e di rispetto verso un uomo che ha optato per una morte dolorosa, per un sacrificio, nel senso più profondo del termine.
Lo spettro valoriale di questo gesto passa attraverso vari gradi: da una forma di rispetto riconosciuto, quasi di sottomissione, ad una sorta di “obbligo” cerimoniale, un rito, un segno di onore e rispetto.
Mettersi in ginocchio è sì segno di prosternazione e di adorazione, ma ancor più nella “nostra” cultura occidentale (penso in particolare al potente contesto del mondo contadino) diviene un’espressione di preghiera e anche una richiesta di perdono. Pregare è assumere una postura che prevede la genuflessione: lo raccontano gli arredi delle chiese e delle cattedrali e, più semplicemente, gli inginocchiatoi da camera, detti anche pregadio.
Nei servizi giornalistici di questi giorni colgo, immediatamente, un richiamo forte alla figura dell’angelo che annuncia a Maria la notizia straordinaria che le cambierà la vita.
Non esistono termini di paragone eppure si sente tutta la forza di quel toccare terra con umiltà (humilis, humus, terra), di quel riconnettersi con la nascita e la morte (la Genesi ricorda: “Memento homo quia pulvis es, et in pulverem reverteris”), di quell’abbandonarsi al suolo che accoglie.
Osserviamo l’affresco fiorentino del Beato Angelico alla basilica di San Marco con la scena dell’Annunciazione: Maria intimorita con le braccia strette al petto e di fronte a lei un Angelo, composto e silenzioso, che replica il gesto della giovane donna, con la stessa posizione delle braccia come in segno di sottomissione. Dal grande dipinto si irradia un senso di pace, di comunione e anche di attesa.
Inchinarsi toccando terra con un ginocchio, abbassare il capo è un’immagine che sta attraversando il mondo intero dall’America all’Australia. La protesta non si fa umile, diventa però richiesta, preghiera. Una protesta che non nasce oggi ma ha diversi precedenti: basti ricordare che nel 2016 fu lo sport a dare un significativo segnale.
Il quarterback Colin Kaepernick, giocatore nei San Francisco 49ers, iniziò ad inginocchiarsi sul campo durante l’inno nazionale, per lanciare un forte messaggio contro le discriminazioni e le violenze che i neri subiscono negli Stati Uniti.
Più di un gesto il suo: il suo ginocchio a terra gli è costato la carriera. Colin è senza contratto dal marzo del 2017.
E dopo di lui, dopo il football americano, è stata la volta del baseball, del rugby e poi della musica: anche Steve Wonder ha replicato il gesto durante uno dei suoi concerti. E molti altri artisti lo hanno seguito.
Cosa c’è dentro l’immagine di una persona in ginocchio?
C’è un bacio antico lanciato sulla punta delle dita e c’è una preghiera, ma c’è anche una domanda di perdono e la pronuncia di un sì incondizionato. Ora c’è anche la protesta, il dolore.
L’arte, sempre, ci aiuta a fare esperienza di vita. Un racconto che da un’immagine ci conduce nel mondo infinito delle storie: si apre un contenitore e si scoprono legami e connessioni che aprono a universi lontani e ci portano dentro, in fondo a narrazioni che continuano a moltiplicarsi e a testimoniare il potere (semplice) dei gesti e delle parole.
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