Il treno era in orario
In una notte fredda e tetra del 1943 un treno attraversa la grigia e sconfinata pianura ucraina. Seduto per terra nel corridoio del vagone tra la puzza di sudore, fumo e lucido da scarponi, un uomo tenta invano di pregare. Il treno viaggia verso il fronte orientale e l’uomo (che ha appena bevuto un sorso di grappa per riscaldarsi) è un soldato tedesco di ritorno all’inferno dopo qualche giorno di licenza. Da quando è salito in una stazione in Germania è tormentato dalla certezza assoluta di dover morire di lì a pochi giorni. Non sa di preciso dove, forse a Cernovcy, a Nikopol oppure a Leopoli, ma sa che sarà “presto”. Il suo nome è Andreas, il protagonista di Il treno era in orario, scritto da Heinrich Boll nel 1949, uno dei racconti più intensi della letteratura del ‘900
L’ansia che divora Andreas non è paura, ma inquietudine profonda (e feconda), febbrile attesa di una risposta che rincorre da sempre, urgenza di una resa dei conti, incandescente desiderio di verità e di pace (Non ho che da attraversare il corridoio, piantare lì il mio ridicolo bagaglio e svignarmela […] e invece me ne sto qui come se fossi di piombo, voglio restare in questo treno, ho un desiderio tremendo della tristezza che grava sulla Polonia e di quella zona sconosciuta tra Leopoli e Cernovcy dove devo morire). Nel fragore cadenzato del treno Andreas gioca a carte con due commilitoni, beve con loro, ne avverte l’alito di carne in scatola e acquavite, ne accoglie la confessione dell’intima tragedia che si cela dietro la loro spavalderia. Il più anziano è ripartito dalla Germania col primo treno dopo aver trovato la moglie con un altro e ubriaco piange lacrime amare per lei, rimasta senza l’unico uomo che l’avesse amata veramente; il più giovane è schiacciato dalla colpa dell’omosessualità impostagli da un superiore che ripagava con la morte chiunque si ribellasse alle sue angherie. Anche loro intuiscono di essere giunti al termine della notte, prigionieri delle proprie storie disgraziate, feriti dalle loro stesse azioni e da una guerra che li ha spogliati della propria umanità. Andreas si sente terribilmente solo, vorrebbe piangere ma non ci riesce da anni ed è contento di viaggiare con loro nelle ore che precedono quel “presto” incombente, (Nessuna ragazza piangerà la mia morte. […] Se almeno una in qualche posto pensasse a me! Anche se fosse infelice. Dio è con gli infelici. L’infelicità è la vita, il dolore è la vita). Mentre i due compagni di viaggio dormono riesce finalmente a pregare per loro, per gli ebrei sterminati nelle retrovie e per i soldati sul treno (Sono tutti poveri bambini grigi, affamati, sedotti e ingannati e le loro culle sono i treni, le tradotte dei militari in licenza, che fanno rac-tac-bum e li addormentano). E come sempre prega per un paio d’occhi di donna incontrati una volta che giaceva ferito sul ciglio di una strada francese, occhi che non ha più dimenticato (solo per un decimo di secondo ho conosciuto il vero amore umano, l’amore tra uomo e donna). Andreas ha conosciuto solo lo sguardo di questa donna e ha desiderato invano di conoscerne pure le labbra, il petto, i capelli e tutto il corpo. Ma ora sa che non potrà più tornare in Francia per tentare di ritrovarla – è assolutamente certo che mancano poche ore alla propria morte – e si dispera perché ha sempre avuto solo quegli occhi e mai una carezza, un bacio, un battito del cuore che la sua mano avrebbe potuto percepire sotto la pelle. Sente che il suo resterà fino all’ultimo un amore per un’anima, un sentimento destinato a qualcosa d’inafferrabile. Neppure pregare per lei lo soddisfa, la mancanza della persona “tutta intera” fa della donna un fantasma e dell’amore un’esperienza incompleta perché solo spiritualizzata.
Non è l’ineluttabilità della fine ad angosciarlo, ma il peso di un’esistenza privata della possibilità di vivere un rapporto d’amore in pienezza. E nulla può lenire questo bisogno di “contatto” che anzi diventa più forte quando con l’approssimarsi dei luoghi e del tempo della sua morte Andreas rivede come in un film le proprie debolezze, vigliaccherie, piccoli egoismi (la penultima notte della mia vita non la voglio buttare via dormendo, fantasticando, ubriacandomi di grappa. Ora devo pregare e soprattutto pentirmi. Ci sono tante cose di cui pentirsi, anche in una vita infelice come la mia c’è moltissimo di cui pentirsi). Ricorda un ufficialetto pallido e triste che ha preso in giro insieme ad altri commilitoni pur avendone intuito il tragico destino (si capiva benissimo che era candidato alla morte) e una prostituta francese, tanto orribile quanto affamata e morta di freddo, che ha cacciato via con frasi maligne, ma che probabilmente non avrebbe allontanato se fosse stata bella (è terribile trattar male un essere umano perché è brutto. Non esistono persone brutte). La vergogna per queste azioni rende ancora più angosciosa la certezza della fine e Andreas intuisce che solo un’altra certezza, quella di un amore gratuito storicamente esperito, può trasformare la morte da finale annichilimento in evento di guarigione, resurrezione e completamento del proprio destino. Solo una mano amica in carne ed ossa, qualcuno capace di riconoscere l’intima ferita causata dal male (compiuto e subito) e di amarlo proprio in virtù di questa ferita, può lenire l’ansia di Andreas.
Andreas è al limite delle forze, non riesce più a pregare. Il convoglio nel frattempo giunge a Leopoli e i suoi compagni lo trascinano in un bordello di alto bordo dove si può acquistare di tutto (non c’è luogo peggiore quando ogni cosa sembra priva di senso e si desidera solo pregare). Andreas chiede se può comprare della musica, l’unica cosa bella che immagina di poter trovare in un simile postribolo. Sì, tra le prostitute c’è una polacca che per giunta sa anche suonare il piano. E così incontra Olina, una ragazza della sua stessa età che, pur appartenendo alla Resistenza, può capire il dolore di questo disperato soldato di Hitler e suona per lui il pianoforte con tanto sentimento da farlo finalmente piangere. Lui non la tocca neppure con un dito, ma la sua sofferenza scioglie la maschera di cera della ragazza. Lei gli racconta la sua vita e lui la sua, due destini sconvolti dal veleno che da sempre attraversa la Storia, ora più mortifero che mai sul fronte orientale.
Olina specchia la propria immagine nella confessione dei colpi subiti e inferti da Andreas e desidera essere, anche solo per un attimo, quella donna di cui il soldato non ha mai potuto vedere il sorriso. Il miracolo si compie quando Andreas vede quegli occhi di donna tanto amati confondersi con quelli di Olina: ecco compiersi il salvifico “contatto”. Ma Andreas è stremato, mancano poche ore all’alba e ora che la sua morte è così vicina anche la sua preghiera cambia: Dio non permettere che mi addormenti, lascia che guardi la sua faccia… Dovevo, dovevo venire qui, in questo bordello di Leopoli, per scoprire che esiste un amore senza concupiscenza, come questo che sento per Olina… non devo addormentarmi, devo vedere quella bocca…
La ragazza vuole salvarlo a tutti costi dalla morte che lo attende al fronte, l’unica possibilità è fuggire insieme, ma Andreas non vuole andarsene senza i suoi due compagni di viaggio. Ha riconosciuto in loro il proprio dolore e questo basta per essere uniti in un unico destino. Lo stesso scelto da Olina che ormai non è più né una prostituta né una donna della Resistenza, ma l’unica cosa reale rimasta ad Andreas.
Il dolore condiviso è l’esperienza che genera il vincolo indissolubile che unisce i protagonisti di questo racconto. Come in altri grandi libri di Heinrich Boll (E non disse neppure una parola, Il pane dei verdi anni, Opinioni di un clown), l’amore diventa un sentimento decisivo, capace di liberare l’uomo dall’angoscia, solo quando nasce dal reciproco riconoscimento della propria fragilità e bisogno di consolazione. Andreas e Olina non temono di mostrarsi inchiodati alla propria croce, di incarnare il volto ferito di Cristo, il volto dell’uomo-Dio che “si è fatto peccato per noi perché diventassimo giustizia di Dio” (2Cor 5,21). E qual è questa giustizia se non la misericordia che tutto perdona a chi confessa la propria miseria? La stessa che promette al ladrone crocifisso accanto a Gesù di condurlo insieme a lui in paradiso. In questo senso, Olina non solo vuole tentare il tutto per tutto per salvare Andreas, ma incarna la “giustizia di Dio” quando fa ad Andreas una promessa di cui è assolutamente certa (come il soldato lo è della sua morte): dovunque io ti conduca sarà la vita.
Nelle parole della ragazza il confine tra l’aldiquà e l’aldilà si è rotto come le acque di una partoriente e il volto di entrambi già si sta trasfigurando in quello di un uomo risorto. La notte trascorsa nella stanza di questo bordello di Leopoli non ha visto cadere in terra i loro vestiti, ma la maschera dietro cui si nascondeva il dolore e il desiderio di amare ed essere amati. Al termine della notte Andreas e Olina vivono un amore completo, fatto di anima e di corpo, una relazione che è un segno sensibile ed efficace della continuità della vita tra il “prima” e il “dopo”, l’eternità promessa a chi è afflitto, perseguitato, affamato, povero di spirito.
Sono convinta che il punto dove amore e morte s’incontrano come nel caso di Andreas ed Olina, sia un fuoco che libera dal passato e da quello che è stato e sia rigenerante per la nuova nascita che il loro guardarsi e vedersi soprattutto vedersi genera in loro.
Purtoppo non sempre l’esistenza dona momenti così preziosi e quel “presto” incombente, segno d’iquietudine, non per tutti è fonte di ricerca e soprattutto risposta!
Ma se “Dio è con gli infelici” la sua giustizia sarà altrove credo!
Comunque bello veramente, ritrovare una storia che apre i confini della solitudine e spazi d’incontro proprio lì dove neppure si sognava di stare.
E così ritrovarsi nuovamente come quando si è venuti al mondo nelle mani di qualcuno!