Vuoto

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Yves Klein, “Saut dans le vide” (“Salto nel vuoto”)

C’è un’immagine che la mia mente ha recuperato mentre cercavo di visualizzare l’idea – meglio: la sensazione – di spazio vuoto. È una fotografia in bianco e nero, scattata nel 1960, che fissa il “Saut dans le vide” (Salto nel vuoto) di Yves Klein dal secondo piano di una casa a Parigi. Dalla foto è stata rimossa la parte inferiore: un telone tenuto fermo dagli amici dell’artista, pronti a raccoglierlo. Sono andata a rivedere entrambe le fotografie e il confronto mi è sembrato curioso, perché in una sembra esserci il vuoto, mentre nell’altra no. Che sia unicamente l’assenza di protezioni, il senso di vertigine, lo spazio privato di corpi (e in realtà un corpo c’è, seduto su una bicicletta nella parte destra dell’immagine, e non rende il vuoto meno vuoto), a creare il (la sensazione di) vuoto?

Che cosa rende tale, dunque, uno spazio vuoto? E, prima ancora: esiste il vuoto assoluto? È possibile pensarlo, rappresentarlo, trovarlo in natura? Si tratta di un luogo, di uno spazio vero e proprio? E ammettendo che il vuoto esista – sia come realtà fisica che come spazio personale – è possibile darne una definizione univoca?

Klein Saute uneditedL’idea di vuoto, per quanto presenti confini sfocati, fa parte del nostro lessico e della nostra esperienza quotidiana. Pensiamo ai cibi conservati sotto vuoto spinto, al vuoto nei tubi catodici, all’aspirapolvere (in inglese vacuum cleaner, o più semplicemente vacuum), ai vuoti di memoria, al senso di vuoto, al vuoto a rendere (e a perdere), al bicchiere mezzo vuoto, alla fobia del vuoto, al vuoto pneumatico, all’horror vacui.

Storicamente, per millenni il concetto di vuoto è stato oggetto di studio e discussione nel campo della fisica e dell’indagine filosofica, modificandosi radicalmente nel tempo e arrivando fino a noi non privo di interrogativi e possibilità di sempre nuove ridefinizioni.

Nella Grecia classica esistevano diverse correnti di pensiero, fra loro discordanti, riguardo all’idea di spazio vuoto. Ad ammetterne l’esistenza erano gli Atomisti – per i quali il vuoto rappresentava lo spazio infinito tra gli atomi che ne permetteva il movimento e l’aggregazione, – i Pitagorici e gli Stoici, sebbene questi ultimi collocassero il vuoto unicamente al di fuori dell’Universo. A negare l’esistenza del vuoto furono invece Parmenide e gli eleati, per i quali il vuoto coincideva con il non-essere, e Aristotele, che nella Fisica definì il vuoto come luogo che non contiene alcun corpo negandone l’esistenza in natura. Le argomentazioni aristoteliche sono riassumibili nel noto detto “Natura abhorret a vacuo”, ovvero la natura ha orrore del vuoto, lo rifugge e interviene finalisticamente a impedirne la formazione riempiendo ogni spazio.

Questa difficoltà a concepire il vuoto, insita nella cultura delle antiche civiltà occidentali, è legata al nesso tra visibilità, esistenza e pensiero: solo ciò che era visibile esisteva veramente e poteva essere pensato, da qui la difficoltà di pensare il non essere, il vuoto, che non è visibile e di conseguenza “non esiste” (non a caso i greci, così come i romani, non conoscevano lo zero – concetto che viene dalla tradizione indiana nella quale il nulla è invece accettato).

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La visione aristotelica fu messa in crisi con la nascita della scienza moderna e, più precisamente, con la dimostrazione sperimentale dell’esistenza del vuoto: è nel 1644, in piena epoca Galileiana, che Torricelli prova, attraverso il noto esperimento, che il vuoto può esistere in natura e che l’aria possiede un suo peso. In fisica per vuoto si intende, generalmente, l’assenza di materia in un volume di spazio: James C. Maxwell lo definisce, infatti, come quanto rimane quando si è tolto tutto quello che si poteva togliere: corpi materiali, molecole, atomi, particelle, luce e via dicendo.

La fisica moderna dimostra, almeno concettualmente, l’esistenza di un vuoto assoluto. Ma esso è diverso dal niente, in quanto ha proprietà fisiche ben identificabili e non esiste, dunque, uno spazio vuoto inteso come luogo privo di proprietà. E in ogni caso, sebbene il vuoto fisico sia concettualmente ben definito, è in realtà impossibile da realizzare.

Con la meccanica quantistica viene definitivamente abbandonata l’antica concezione del vuoto quale “assenza di essere”, che lascia spazio all’idea di non vuotezza del vuoto, secondo cui il vuoto sarebbe pervaso da costanti fluttuazioni energetiche da cui si genera materia.

Ma anche al di fuori della fisica quantistica, e spostandoci verso Oriente, l’antinomia tra vuoto e pieno si rivela estremamente interessante. Laozi, il leggendario filosofo cinese fondatore del Taoismo, scrive nel Tao Te Ching che ciò che è vuoto diventerà pieno, suggerendoci che prendere coscienza del vuoto è indispensabile per poter attivare quei processi trasformativi positivi e propositivi che portano, appunto, alla pienezza.

Un altro spunto di riflessione, questa volta dall’America, ci viene dal racconto di Raymond Carver “Legna da Ardere”. Il vuoto è l’inizio di tutte le cose, scrive Myers sulla prima pagina (bianca, vuota) del suo taccuino, suggerendoci forse che esiste uno spazio vuoto che ha il sapore e la consistenza dell’attesa, un istante in cui si è insieme se stessi e oltre se stessi, in cui diventa possibile essere qualcosa d’altro da se stessi. Non a caso Myers è descritto, nel racconto, come “sospeso a metà tra una vita e l’altra”: questo richiama un’idea di vuoto come possibilità, come spazio flessibile, non occupato e non caratterizzato, e per questo in qualche modo disponibile e adattabile, declinabile a usi potenzialmente infiniti. Il vuoto sembra dunque esistere anche come spazio interno, come punto di partenza per ricentrarsi, per ritrovare, o ricreare, se stessi. Come già aveva scritto il filosofo francese Montaigne: «e poi, trovandomi assolutamente sprovvisto e vuoto di qualsiasi altra materia, mi sono offerto da me a me stesso, come argomento e soggetto».

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Yves Klein, “La Vide”

Il vuoto come punto di partenza e il concetto di pagina bianca richiamano l’idea di vuoto creativo e di vuoto nell’arte. Quello di vuoto e arte mi sembra un binomio fondamentale, soprattutto nel Novecento. Nell’arte, come nella filosofia e nella fisica, il concetto di vuoto si interseca con quelli di creazione, di nulla, di spazio. «Gli spazi vuoti, gli orizzonti vuoti, le pianure vuote, tutto quello che è spoglio», disse Joan Mirò, «mi ha sempre profondamente impressionato».

Il 28 aprile 1958, in una minuscola galleria di Parigi – una stanza svuotata e interamente pitturata di bianco – Yves Klein, artista francese precursore della Body Art (che abbiamo visto lanciarsi nel vuoto poco più sopra), allestì la mostra diventata nota come “Le Vide” (Il Vuoto). I visitatori ne furono entusiasti. Tra loro anche Albert Camus, che nel registro dei visitatori scrisse:

Con il vuoto, pieni poteri.

In quel momento, per la prima volta, lo spazio vuoto venne pensato e riconosciuto come opera d’arte: Klein aveva deciso di raffigurare il vuoto, ossia di dargli un’espressione semantica, di mostrarlo, di concretizzarlo, di portarlo a soggetto puro e assoluto. È quello che avviene anche in ambito musicale, dove il più interessante e controverso punto di arrivo di questa ricerca di rappresentazione del vuoto è probabilmente la composizione in tre tempi “4’33”” di John Cage, costituita da una totale assenza di suono.

Un altro spunto di riflessione è offerto dal cinema di Antonioni, abilissimo “creatore di vuoti”; un cinema in cui il vuoto è protagonista: non solo il vuoto interiore dei protagonisti ma anche, e soprattutto, il vuoto degli spazi – spazi urbani amorfi, sconnessi, vuoti, svuotati; “deserti urbani” in cui i personaggi sono attirati fino all’estremo limite dal vuoto, dal freddo, dagli spazi astratti che assorbono e inghiottono la figura umana (si pensi al finale de L’eclisse o a quello di Deserto rosso).

Nel cinema di Antonioni, scrive Bonitzer, il campo vuoto non è vuoto: il concetto stesso di vuoto non coincide con quello di nulla. Il vuoto è, anzi, al tempo stesso un pieno, come il Tao. L’occhio di Antonioni sembrerebbe insegnarci questo: la contemplazione dell’invisibile, la capacità di guardare altrove per capire, nel vuoto («Ma cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare?», si/ci chiede Giuliana in Deserto Rosso).

L’arte di Antonioni richiama proprio quella pienezza del vuoto che Roland Barthes associa, a ragione, all’estetica dell’Oriente.

Mentre nella cultura occidentale, infatti, il vuoto tende ad avere una accezione negativa poiché rappresenta il nulla ed è legato all’idea di assenza, di mancanza, di oblio, di dimenticanza, a una sorta di carenza rispetto a qualcosa che si ritiene ci debba essere; nella cultura orientale il vuoto rappresenta una presenza fondamentale ed è considerato lo stato supremo dell’Origine nonché l’elemento centrale del meccanismo che permette al mondo e alle cose di funzionare. Sia nel buddhismo che nel taoismo e nella filosofia zen, sebbene declinato in diverse concezioni, il vuoto rappresenta il luogo in cui “l’essere terrestre si redime e i suoi sensi si fanno tutt’uno con l’anima” ed è dunque qualcosa da ricercare attivamente. Una concezione che si riflette nell’idea che «se siamo vuoti, possiamo contenere l’universo» (Buddha).

Il contrasto tra Occidente e Oriente, tra rifiuto e accettazione del vuoto inteso come nulla e tra frenesia della vita quotidiana e ricerca della solitudine richiama anche i romanzi di Jack Kerouac, in particolare “I vagabondi del Dharma” («Sono il vuoto, non sono diverso dal vuoto, né il vuoto è diverso da me; in realtà il vuoto sono io» si ripete il narratore Ray Smith, che rappresenta Kerouac stesso) e “Angeli di desolazione”, che ne rappresenta una sorta di seguito. L’incipit di “Angeli di desolazione” è autobiografico, e il monte Hozomeen rappresenta per Kerouac proprio il Vuoto buddista:

Quei pomeriggi, quei pigri pomeriggi, in cui ero solito starmene seduto, o disteso, sul Picco della Desolazione, a volte sull’erba alpestre, con centinaia di miglia di rocce innevate tutt’intorno, il Monte Hozomeen torreggiante a nord, il vasto nevoso Monte Jack a sud, l’incantevole quadro del lago in basso a occidente e la gobba nevosa del Monte Baker alle spalle, e ad oriente le scavate e increspate mostruosità addossate alla Cascade Ridge, e dopo quella prima volta m’ero reso conto all’improvviso “Sono io che sono cambiato e ho fatto tutto questo e sono andato e venuto e mi sono lamentato e addolorato e ho gioito e urlato, non il Vuoto” e così tutte le volte che pensavo al vuoto mi mettevo a guardare il monte Hozomeen (poiché la sedia e il letto e il prato guardavano a nord) finché compresi “Il Vuoto è Hozomeen – perlomeno Hozomeen rappresenta il vuoto ai miei occhi”

Per finire, uno sguardo nell’altrove (per alcuni vuoto, per altri brulicante di vita aliena) dello Spazio Profondo: «In tutte le nostre ricerche, la sola cosa che rende il vuoto sopportabile siamo noi stessi» dice l’extraterrestre nel film Contact (R. Zemeckis, 1997).

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