Un mondo terribilmente complicato

“Ah, Cindy Sondheim, saresti dovuta nascere in un’altra epoca”, commenta nostalgico l’improbabile Conte Dracula di Amore a primo morso mentre l’oggetto delle sue attenzioni trangugia due Xanax. “Le cose erano più semplici, meno complicate. Sai quante donne hanno avuto un esaurimento nervoso nel Quattordicesimo Secolo? Due.”

Più semplici, meno complicate. Meno conoscenze, meno informazioni da elaborare e, al posto loro, una rassegnata fiducia nella Provvidenza, unico argine a una serie di iatture (pestilenze, guerre, calamità) sulle quali si aveva un controllo piuttosto modesto. E meno responsabilità: felicemente ignari dei successivi doni di Freud che ci avrebbero portato in dote un po’ di autoconsapevolezza, certo, ma anche – ohinoi – molti esaurimenti nervosi.

Le avrebbero complicate, le cose, innanzitutto certi manigoldi del Seicento – Galileo, Keplero, Newton, Leibniz… – che sul metodo, sulla matematica, sulla verifica sperimentale hanno fondato insieme a molti altri i principi ancor oggi validi del metodo scientifico.

Il “linguaggio segreto” della Natura (la matematica) e il suo alfabeto (i numeri) perdono i loro aspetti più speculativi e si scoprono dotati di nuove possibilità euristiche: la techne (termine che indica ambiguamente scienza, arte e artigianato) si trasforma definitivamente in sola scienza grazie alla comparsa del “dato”: l’ente discreto e indivisibile su cui fondare le proprie certezze.

Ma i dati aumentano, così come aumentano le loro relazioni, che devono essere innanzitutto causali. Non è più possibile pensare a una “cartografia” dell’esistente con un rapporto 1:1, come per la mappa di borgesiana memoria (in “Del rigore della scienza”): abbiamo bisogno di riduzioni, di sintetizzazioni, di estrapolazioni. Cerchiamo il trend e il pattern che ci guidino verso risposte che, avendo a che fare con le decisioni, alla fine sono spesso binarie.

Troppi dati e il mondo diventa, appunto, terribilmente complicato. Torniamo con la mente a quell’epoca non complicata e la immaginiamo barbara e superstiziosa, ma anche semplice. Crediamo di aver rinunciato a un po’ di innocenza in cambio della indistruttibile sicurezza nelle nostre scelte e questo alla sola condizione di seguirne i rigidi protocolli.

Eppure.

Eppure in questo nostalgico atto di memoria è rimosso il ricordo che Keplero non nascose mai i suoi rapporti con la tradizione ermetica e col misticismo pitagorico; che Leibniz reincorporava, seppur in maniera nuova, temi della magia rinascimentale; che Newton stesso, di cui rimane una mole sconfinata di pagine sull’alchimia, fu definito da Lord Keynes negli Anni Trenta – e non a torto – “l’ultimo dei maghi”.

Questa omissione non è un atto di malizia né un intenzionale falso storico: semplicemente non sappiamo come integrare queste informazioni con le altre, non comprendiamo come si possa formulare la legge di gravitazione universale e allo stesso tempo credere di star disvelando antichi misteri egizi.

Scrive Carlo M. Cipolla in Miasmi e umori:

La storia della medicina in Europa dalla fine dell’età classica agli inizi dell’età contemporanea è la curiosa storia di un paradigma teorico fondamentalmente sbagliato che purtuttavia riuscì a dominare e condizionare il pensiero medico per una sequela di secoli eccezionalmente lunga. Come e perché un paradigma totalmente erroneo continuasse per secoli a dominare incontrastato il campo della scienza medica è e resta uno dei più affascinanti problemi della storia culturale dell’Europa. Una parte della spiegazione sta nell’elegante semplicità e nella rigorosa logica e coerenza interna del modello teorico. Personaggi di spiccata intelligenza, di indiscussa razionalità e di acuto senso di osservazione non mancarono tra i medici dell’Europa dei secoli XII-XVIII. E purtuttavia anche personaggi di notevole calibro intellettuale non osarono mai mettere in dubbio il paradigma umorale-miasmatico così nitido, logico e coerente e così autorevole per vetustà e tradizione. Osservazioni fattuali corrette vennero ripetutamente fatte e registrate, ma per un perverso meccanismo quanto venne correttamente osservato non servì a mettere in dubbio la validità del paradigma prevalente ma venne dialetticamente adattato al paradigma stesso a sua ulteriore riprova.

Fin ben oltre il Seicento, mentre in Toscana si adottavano misure di sanità pubblica di eccezionale modernità, mancava una nosografia che distinguesse una “febbre” da un’altra (delle malattie contava sostanzialmente che fossero o non fossero peste); e se possiamo accettare che non si concepisse l’esistenza della Yersinia pestis, è più difficile capire come il vero ruolo dei vettori – topi e pulci, così platealmente e direi intrusivamente visibili – non fosse considerato nella giusta prospettiva in favore del più esoterico potere contagioso dei “fetori”.

Gadamer menziona

…la naturale ingenuità che ci farebbe giudicare il passato secondo le misure così dette ‘evidenti’ della nostra vita attuale, nella prospettiva delle nostre istituzioni, dei nostri valori e delle nostre verità acquisite…

ai danni di un senso storico che è

…la disponibilità o il talento di comprendere il passato, talora anche a partire dal contesto dal quale esso nasce.

Ciò su cui la frase di Gadamer dovrebbe metterci in vero allarme però è che la stessa “naturale ingenuità” ci riguarda anche – se non di più – nella considerazione che abbiamo dell’oggi.

Pretendiamo di aver raggiunto l’agnosticismo filosofico, di aver sposato la santità del dato rifiutando per sempre il demone del pregiudizio. Riteniamo con un filo di superbia di non poter incorrere negli errori di Keplero che, come scrive Paolo Rossi ne Il tempo dei maghi, “insistette più volte, con incredibile tenacia, a cercare dati che si adattassero a immaginose ipotesi metafisiche e servissero a confermarle.”

Questa, beninteso, è una generalizzazione che non si applica all’autentico procedere scientifico che avanza con scrupolo, apertura mentale, curiosità: ma è sempre più evidente in una società civile frastornata da un eccesso di informazioni e avida di rassicurazioni semplici più che di risposte complesse. E in tanta ignava ratio, o “cattiva scienza”, che applica formule a dati incerti o parziali nella fretta di fornire quella risposta binaria di cui tanto abbiamo bisogno e che in fin dei conti è sempre la stessa dai tempi della Sibilla: “Morirò in guerra o tornerò a casa?”

E occorre anche la forza per tollerare i finali aperti, incerti, quelli che sembra vogliano dirci qualcosa ma in una lingua che non conosciamo.

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