Mondi (in)comprensibili

Questa è la mia lettera al Mondo / Che non scrisse mai a Me.

È con l’immagine di una lettera senza risposta, che Emily Dickinson sceglie di rappresentare la distanza che sente tre sé e la realtà. Una poetessa che cerca di comprendere il mondo attraverso le parole. Un mondo che si nega, che chiude ad ogni possibilità di comunicazione. In questi due versi Dickinson condensa tutta la sua solitudine, il suo sentirsi ignorata in un dialogo fondamentale come quello con il reale. Forse, semplicemente, Emily e il Mondo parlano “lingue” diverse.

Il modo in cui comunichiamo è da sempre la chiave di volta del nostro rapporto con ciò che ci circonda. Il linguaggio è uno strumento, più che utile, necessario per comprendere la realtà: nel trovarci di fronte qualcosa di nuovo, iniziamo a conoscerlo quando gli diamo un nome, lo rendiamo identificabile e quindi comunicabile. Non è un caso che in molti racconti della Creazione sia l’uomo a dare nome al creato – come nel caso di Adamo – o perfino che la realtà prenda forma nel momento in cui l’essere umano la nomina.

Un esempio più immediato di questo bisogno di “dare un nome” è quello dei toponimi. Sarebbe quasi impossibile definire il nostro muoverci nel mondo, se non avessimo un nome per ogni luogo da cui proveniamo, che attraversiamo o verso cui siamo diretti. Ma in base a cosa scegliamo questi nomi?

Se pensiamo ai numerosi miti della fondazione creati proprio per spiegare questa scelta, intuiamo subito quanto fosse importante la questione nell’antichità – dalla gara tra Atena e Poseidone per il nome della futura Atene, alla vicenda dei gemelli Romolo e Remo, solo per citare i più celebri. Solitamente il nome di una città, di un territorio, addirittura di una nazione, è frutto di processi storico-culturali e porta con sé i valori che vogliamo associare a quel luogo. Questo vale anche quando, invece che ad un luogo, stiamo dando nome ad una persona.

In Brevemente risplendiamo sulla terra Ocean Vuong racconta la storia di Little Dog e della sua famiglia, formata dalla madre Rose e dalla nonna Lan. Costretti a fuggire dal Vietnam a causa della guerra, si stabiliscono negli Stati Uniti affrontando grandi complicazioni, sia relative ai traumi subiti nel paese d’origine, sia dovute all’enorme differenza tra questo e gli USA. Little Dog spiega così l’origine del suo nome:

Ho e ho avuto tanti nomi. Lan mi chiamava Little Dog, cagnolino. Quale donna che aveva scelto per sé stessa e per la figlia il nome di un fiore avrebbe potuto dare del cane a suo nipote? Una donna che bada alla sua famiglia, ecco chi. Come tu sai bene, nel villaggio in cui è cresciuta Lan, un ragazzino – spesso il più piccolo o debole del gregge, proprio come ero io – viene identificato e denominato con gli epiteti più spregevoli: demone, bambino fantasma, moccio di maiale, nato scimmia, testa di bufalo, bastardino; cagnolino è un appellativo appena più tenero di questi. Se gli spiriti maligni che vagano sulla terra alla ricerca di bambini sani e bellissimi sentivano il nome di qualcosa di brutto e spaventoso che veniva richiamato a cena, sorvolavano la casa in cui abitava, risparmiando il bambino. Amare qualcosa, allora, significa darle il nome di una cosa senza valore, in modo che venga risparmiata e lasciata intoccata, viva. Un nome, leggero come l’aria, può essere anche uno scudo.

Il fatto che Lan dia al nipotino un nome quasi offensivo, è pressoché incomprensibile, se non si conoscono il pensiero e la cultura da cui ciò proviene. La nonna crede di aver commesso un errore nel dare un nome bello e delicato alla figlia Rose e pensa con questo di averla condannata a soffrire gli spiriti maligni – Rose è in realtà perseguitata dallo stress post-traumatico. Per il nipote sceglie, dunque, quello che dall’esterno potrebbe sembrare un nomignolo, seppur il meno tremendo tra quelli citati, e che rappresenta invece, dal punto di vista di Lan, un atto d’amore. Perché se la sofferenza a cui lei e sua figlia sono state sottoposte è stata tanto ingiustificata, forse la loro unica colpa è stata scegliere per sé stesse un bel nome. Secondo Lan, un nome può proteggere le persone che amiamo, influenzare il loro destino. Ma come e fino a che punto la scelta di una parola piuttosto che un’altra – Rose o Little Dog – può influenzare la realtà?

In un mondo in cui si cerca di utilizzare sempre meno parole, il legame tra linguaggio e realtà diviene piuttosto evidente. Si tratta del mondo distopico di 1984 di Orwell, in cui la dittatura del Grande Fratello impone, tra le altre cose, una lingua sempre più scarna, con un obiettivo ben preciso:

“Tu, Winston, non apprezzi davvero il parlanuovo,” disse quasi con mestizia. “Anche se lo scrivi pensi ancora in parlavecchio. Ho letto qualcuno dei pezzi che ogni tanto scrivi per il ‘Times’. Non sono male, ma sono traduzioni. In cuor tuo preferisci restare ancorato al parlavecchio, con tutta la sua vaghezza e le sue inutili sfumature di significato. Non afferri la bellezza del distruggere parole. Lo sai che il parlanuovo è l’unica lingua al mondo il cui vocabolario diminuisce di anno in anno? (…) Non capisci che l’unico obiettivo del parlanuovo è quello di restringere la portata del pensiero? Alla fine renderemo il reopensare letteralmente impossibile perché non ci saranno parole con cui esprimerlo. Ogni concetto necessario sarà espresso con esattezza da un’unica parola, il cui significato sarà rigorosamente definito mentre i significati secondari saranno soppressi e dimenticati. Già ora, nell’Undicesima edizione, non siamo lontani dal punto di arrivo. Ma il processo continuerà a lungo anche dopo che tu e io saremo morti. Ogni anno sempre meno parole, e la portata della coscienza sempre più ristretta. Anche ora, certo, non c’è né ragione né scusa per incorrere nel reopensare. È solo una questione di autodisciplina, di controllo della realtà. Ma alla fine non ci sarà più bisogno nemmeno di quello. Quando la lingua sarà perfetta, la Rivoluzione sarà completa“.

Il parlanuovo plasma la mente dei cittadini, non solo eliminando tutte le parole che potrebbero portare ad un pensiero contrario rispetto a quello del regime, ma anche definendo un’unica sfumatura di significato per ogni parola in modo che non ci sia neppure libertà di interpretazione. Questa operazione sulla lingua e sul pensiero è, a detta di Syme, questione di “controllo della realtà”: il Grande Fratello spera che cancellando – ad esempio – la parola “ribellione” sarà possibile evitare che questa si verifichi. Ciò che possiamo pensare, che possiamo esprimere, può trasformarsi in azione e cambiare il mondo che ci circonda.

Winston, a differenza di quanto imposto dal regime, pur conoscendo il parlanuovo, rimane legato al parlavecchio e ai suoi valori. Ciò provoca in lui una forte estraniazione, una condizione di disorientamento rispetto ad un mondo che non parla – letteralmente – la sua stessa lingua:

Si sentiva come se errasse nelle foreste sul fondo del mare, smarrito in un mondo mostruoso dove il mostro era lui. Era solo. Il passato morto, il futuro inimmaginabile. Che certezza aveva che una sola creatura umana vivente fosse al suo fianco?

Il protagonista percepisce il mondo del parlanuovo e del Grande Fratello come “mostruoso” perché diverso dal mondo a cui lui fa riferimento. Allo stesso tempo, lui si definisce “mostro” in quanto “anormale” rispetto a ciò che lo circonda. Dunque, la sua solitudine – così come quella di Emily Dickinson da cui siamo partiti – proviene dal trovarsi in un luogo con cui non riesce a stabilire un contatto.

Questo scollamento tra soggetto e realtà costituisce il lato oscuro del linguaggio: da strumento indispensabile, esso può divenire ostacolo insormontabile, quando arriviamo in un mondo che si esprime diversamente da noi.

Allora, come orientarsi in un mondo in cui non siamo stati noi a dare un nome alle cose?

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