[Report] Officina di dicembre 2021
Valerio
Quando lo sventurato Piermaria Fabris (interpretato da Fabio Traversa) giunge alla riunione di Compagni di scuola forse non immagina di ritrovarsi al centro delle reiterate canzonature da parte del gruppo. Con lui il tempo non è stato generoso, mutandolo nell’aspetto tanto da renderlo irriconoscibile. E, tuttavia, al suo cambiamento fisico corrisponde l’immutabilità di questo gruppo di bulli mai veramente maturati, nonostante siano trascorsi quindici anni dal diploma. Iniziamo a focalizzare alcuni vocaboli chiave legati all’orientarsi nel tempo e nel cambiamento: primo tra tutti il riconoscimento.
Come le riunioni tra ex compagni di scuola diventano occasione di confronto e bilancio, così i compleanni possono tramutarsi rapidamente da momento festoso a resa dei conti con se stessi e il tempo che resta. Soprattutto con certi invitati…
E tuttavia in Aprile il personaggio di Moretti, posto di fronte al tempo che passa, trova lo spunto per un cambiamento: via le “cose brutte” e, indossata la mantella invernale che non aveva mai avuto il coraggio di indossare, finalmente inizia a girare il film sul pasticcere trozkista nell’Italia degli anni ’50.
Margherita
Sono introdotti i due principali tipi di cambiamento presi in considerazione nel corso dell’officina: il cambiamento individuale e quello storico. Per quanto riguarda il primo, vengono mostrate delle tavole tratte dall’adattamento in forma di graphic novel del romanzo City of Glass di Paul Auster. Il protagonista del romanzo, Quinn, si improvvisa detective privato e rimane coinvolto in un complesso caso in cui la vita del suo cliente è in pericolo. Per sorvegliare il più attentamente possibile l’abitazione di questo cliente, Quinn si stabilisce per due mesi in un vicolo proprio di fronte al suo portone. Nel vicolo egli cerca di ridurre al minimo ogni azione o necessità che potrebbe distrarlo – fino a dormire e mangiare a malapena. Quando infine è costretto ad abbandonare la sua postazione, vede il suo riflesso in una vetrina e quasi non si riconosce: ha la barba e i capelli lunghi, è dimagrito, sporco. Pur avendo cercato una staticità quasi assoluta negli ultimi mesi, non ha potuto fare a meno di cambiare.
Per parlare del cambiamento storico, invece, viene mostrata una scena tratta da Lui è Tornato. Nel film, Adolf Hitler ricompare nella Germania moderna, con tutti gli equivoci e le riflessioni del caso. In questa scena in particolare, Hitler è ospite in una trasmissione televisiva come se fosse un comico che imita il personaggio storico. Di fronte alla telecamere, però, Hitler tiene un discorso, quasi un comizio, applicando le stesse tecniche oratorie usate in passato e la scena mostra come il pubblico venga convinto dalle sue parole e dal suo atteggiamento. Nonostante sia l’unico a non essere cambiato dal 1945, il personaggio di Hitler riesce qui a inserirsi in un tempo che non gli appartiene.
Cecilia
Cos’è che fa cambiare i tempi e in base a cosa questi cambiano? La risposta prova a darla Tolstoj nella Parte II di Guerra e pace, nell’appendice filosofica del romanzo che vede come protagoniste alcune nobili famiglie russe ai tempi dell’invasione napoleonica. Tolstoj sostiene che gli storici che provano a spiegare i movimenti dei popoli tramite l’azione di forze trascendenti, come ad esempio il destino, si comportano come i contadini che spiegano il momento del treno con l’azione del diavolo o del maligno. Escludendo anche che il popolo possa essere guidato dalle grandi idee, l’autore si prende gioco poi di chi si prefigge di spiegare la storia come il frutto della volontà di un uomo potente che la indirizza o si fa portavoce delle tendenze del suo tempo. Come non si può individuare la ragione del movimento del treno nelle sue sole ruote, ma solo nella complessa interazione tra le sue parti, così non è possibile individuare nella storia motore diverso che ogni singola azione di ogni singolo individuo. In questo modo i tempi sarebbero guidati da decisioni o casualità infinitesimali. Ogni singolo atto che compiamo si riflette su di noi anche quando non ne abbiamo consapevolezza.
Avanza una locomotiva. Si domanda: da che cosa è mossa? Un contadino dice: è il diavolo che la fa muovere. Un altro dice che la locomotiva avanza perché si muovono le ruote. Un terzo afferma che la causa del movimento è nel fumo portato via dal vento. (…)
L’unico concetto che può spiegare il movimento della locomotiva è il concetto di una forza eguale al movimento visibile.
L’unico concetto per mezzo del quale può essere spiegato il movimento dei popoli è il concetto di una forza eguale a tutto il movimento dei popoli.
Nelle Metamorfosi di Ovidio si parla di Mirra, la giovane che dopo aver intrapreso una relazione incestuosa con il proprio padre si pente e chiede agli dei di trasformarla in una forma che si collochi a metà tra la morte e la vita. Così diviene una pianta. La trasformazione di Mirra viene in altre occasioni interpretata come una morte e anche nelle parole di Ovidio si coglie questo aspetto poiché la fanciulla perde sensibilità e non ricorda nemmeno i peccati della sua vita precedente. Lei non è morta, ma la sua forma iniziale è il suo passato sono morti per lei. Le sue lacrime di pentimento hanno però dato forma al suo fogliame. Come Mirra, ognuno di noi può non riconoscersi nel cambiamento e vedere il proprio passato come separato da sé, ma porta scritte nel corpo e nell’anima le proprie decisioni.
E allora non sapendo a chi votarsi,
combattuta tra il timore della morte e il disgusto della vita,
formulò questa preghiera: “Se c’è un dio che ascolta chi ammette
le proprie colpe, questa è, sì, la fine angosciosa che merito,
e non la rifiuto. Ma perché io non profani vivendo i vivi
e morta i trapassati, cacciatemi dal regno di entrambi:
fate di me un’altra cosa, negandomi vita e morte!”.
Un dio che ascolta i rei confessi c’è; o almeno un nume che esaudì
l’ultima parte dei suoi voti. Mentre ancora parla,
la terra avvolge le sue gambe, le unghie dei piedi si fendono,
diramandosi in radici contorte, a sostegno di un lungo fusto;
le ossa si mutano in legno e, restando all’interno il midollo,
il sangue diventa linfa, le braccia grandi rami,
le dita ramoscelli; la pelle si fa dura corteccia.
E già, crescendo, la pianta ha fasciato il ventre gravido,
ha sommerso il petto e sta per coprirle il collo:
non tollerando indugi, lei si china incontro al legno
che sale e il suo volto scompare sotto la corteccia.
Ma benché col corpo abbia perduto la sensibilità di un tempo,
continua a piangere e dalla pianta trasudano tiepide gocce.
Lacrime che le rendono onore: la mirra, che stilla dal tronco,
da lei ha nome, un nome che mai il tempo potrà dimenticare.
Greta
Quanto un individuo può cambiare nel tempo e cosa invece rimane costante? Ne “L’altro”, Borges immagina di incontrare se stesso da giovane, scoprendosi diverso e uguale a lui:
– La poesia ci guadagna, se indoviniamo che è la manifestazione di un desiderio, non la storia di un fatto.
Restò a guardarmi.
– Lei non lo conosce – esclamò –, Whitman è incapace di mentire.
Mezzo secolo non passa invano. Dietro alla nostra conversazione di persone di varia lettura e gusti diversi, capii che non potevamo intenderci. Eravamo troppo differenti e troppo simili. Non potevamo ingannarci, il che rende difficile il dialogo. Ciascuno dei due era la parodia caricaturale dell’altro. La situazione era troppo anormale per poter durare molto più a lungo. Consigliare o discutere era inutile, con lui, perché il suo inevitabile destino era di diventare quel che sono.
A un tratto ricordai una fantasia di Coleridge. Qualcuno sogna di attraversare il paradiso e, come prova, gli danno un fiore. Al risveglio, il fiore è lì.
Mi venne in mente un artificio analogo.
– Senti – gli dissi –, hai un po’ di denaro?
– Si – mi rispose. – Ho una ventina di franchi.
– Dammi una delle tue monete.
Tirò fuori tre scudi d’argento e qualche pezzo più piccolo. Senza capire mi offrì uno dei primi.
Io gli porsi uno di quegli imprudenti biglietti americani che pur avendo tra di loro molto diverso valore, hanno la stessa grandezza. Lo esaminò avidamente.
– Non è possibile gridò – Porta la data del millenovecentosessantaquattro.
(Mesi dopo qualcuno mi disse che i biglietti di banca non portano la data.)
Tutto questo è un miracolo – riuscì a dire – e il miracoloso fa paura. I testimoni della resurrezione di Lazzaro saranno rimasti terrorizzati.
Non siamo affatto cambiati, pensai. Sempre i riferimenti libreschi.
Nello speciale natalizio di Doctor Who “A Christmas Carol” a incontrarsi sono sempre due versioni della stessa persona: un bambino e un anziano. Quest’ultimo è un uomo arido ed egoista, disinteressato al destino altrui anche quando potrebbe fare qualcosa per cambiarlo. Trovarsi di fronte al se stesso del passato provoca in lui l’improvvisa realizzazione di ciò che nel tempo è diventato e provoca in lui un cambiamento radicale.
Nel brano “Todo cambia”, Mercedes Sosa canta dei cambiamenti che attraversano non solo la sua vita ma anche tutto intorno a lei. Eppure una cosa non cambia: il legame con la sua terra, con le sue origini. Il luogo e la gente cui apparteniamo rappresentano un punto di stabilità in un mondo in continuo cambiamento.
Ma cosa significa appartenere a un popolo? Da cosa è composta la cultura di cui ognuno fa parte? Dal saggio “L’invenzione della tradizione” di Eric J. Hobsbawm scopriamo che la questione è complessa: non tutto quello che crediamo antico e immutabile lo è; anzi spesso quello che sembra tale è costruito ad hoc, proprio per l’esigenza umana di continuità.
Per «tradizione inventata» si intende un insieme di pratiche, in genere regolate da norme apertamente o tacitamente accettate, e dotate di una natura rituale o simbolica, che si propongono di inculcare determinati valori e norme di comportamento ripetitive nelle quali è automaticamente implicita la continuità col passato. Di fatto, laddove è possibile, tentano in genere di affermare la propria continuità con un passato storico opportunamente selezionato.
Non occorre che il il passato storico in cui si radica la nuova tradizione sia troppo lontano, non occorre che si perda nella presunta notte dei tempi.
Comunque sia, laddove si dà un riferimento ad un determinato passato storico, è caratteristico delle tradizioni «inventate» il fatto che l’aspetto della continuità sia in larga misura fittizio.
In poche parole, si tratta di risposte a situazioni affatto nuove che assumono la forma di
riferimenti a situazioni antiche, o che si costruiscono un passato proprio attraverso la ripetitività quasi obbligatoria. È appunto il contrasto tra il cambiamento e l’innovazione costanti del mondo moderno e il tentativo di attribuire a qualche aspetto almeno della sua vita sociale una struttura immobile e immutabile ciò che rende tanto interessante, agli occhi dello storico degli ultimi due secoli, il problema dell’ «invenzione della tradizione».
La «tradizione» intesa in questo senso va nettamente distinta dalla «consuetudine» che regge le cosiddette società «tradizionali». Scopo caratteristica delle «tradizioni», comprese quelle inventate, è l’immutabilità.
Il passato al quale fanno riferimento, reale o inventato che sia, impone pratiche fisse (di norma formalizzate), quali appunto la ripetizione.
La «consuetudine» nelle società tradizionali svolge la duplice funzione di motore e di volano. Non esclude a priori l’innovazione e il cambiamento, anche se è evidente che l’esigenza di farli apparire compatibili, o persino identici, rispetto al precedente costituisce un pesante limite.
La sua funzione consiste nel garantire ad un qualsiasi cambiamento desiderato (ovvero alla resistenza opposta all’innovazione) la sanzione del precedente, della continuità sociale e della legge di natura così come esse si esprimono nella storia.