Il corpo

Uomo vitruviano

Pochi concetti appaiono certi e allo stesso tempo ambigui come quello del corpo. Di esso abbiamo esperienza immediata e incontrovertibile: eppure quello stesso oggetto della nostra esperienza ne è anche in un certo modo soggetto in quanto agente delle sensopercezioni.

Ciò vale però solo per il nostro corpo, giacché quello degli altri – per quanto possiamo coglierlo empaticamente come affine – ci rimane in questo rispetto estraneo e si confonde con gli altri oggetti del mondo.

Pur essendo immersi da sempre nella nostra esperienza corporea, scopriamo il corpo a poco a poco senza ritenere mai una vera esperienza dell’inizio. L’incontro col mondo (volendolo far coincidere con la nascita, cosa niente affatto scontata se consideriamo la progressiva maturazione delle capacità percettive del feto) è segnato da “pena e tormento per prima cosa” (Leopardi, Canto notturno); eppure non ce lo ricordiamo: in quel frangente non abbiamo alcuna capacità di discriminare ciò che è dentro da ciò che è fuori, ciò che è nostro da ciò che non lo è. Siamo, a ogni stimolo (una colichetta, il senso di fame), un sentire senza oggetto, totale e totalizzante; stimolo che non è ancora “un” dolore collocato in “una” parte del corpo: siamo dunque noi, in quel momento, tutto-dolore, tutto corpo, tutto disperazione fino alla salvifica poppata che ci rende improvvisamente tutto appagamento e piacere. Un giorno, più in là, scopriremo le “nostre” mani e i “nostri” piedi con curiosità e un po’ di sconcerto.

Lo schema corporeo si costruisce così progressivamente in una “continua attività interna di autocostruzione e autodistruzione” (Schilder, 1935) che lascia sempre spazio all’enigma: innanzitutto quello delle nostre attività viscerali (l’interno, invisibile e intoccabile, che ci manda stimoli diversi rispetto a quelli del mondo esterno), su cui si proiettano le più angoscianti fantasie ipocondriache; o, per fare un altro esempio, il problema di avere un corpo bello e sano, colto più o meno (come nel caso della dismorfofobia) correttamente.

Anche nella storia del pensiero occidentale il concetto di corpo non appare dall’inizio. Il termine soma (σῶμα) per Omero non è mai riferito a persone in vita: indica piuttosto il cadavere. Spiega B. Snell che per l’uomo omerico una parola univoca che designi il corpo non esiste: esso è di volta in volta “figura”, “statura” (démas, δέμας), “membra” (guia, γυῖα o mélea, μέλεα), “pelle” (chròs, χρῶς, nel senso di involucro), a seconda della circostanza, dell’azione, della qualità che del corpo viene chiamata in causa. Il corpo dell’uomo omerico è espressione transitoria di una sua parte o, al massimo, attività, movimento, articolazione – mai un’entità unitaria e distinta.

Alla mancanza di una concezione unica del corpo corrisponde la mancanza di una concezione unica della mente – e a entrambe la mancanza di una titolarità nei confronti del proprio destino: gli eventi che coinvolgono l’uomo omerico sono mossi dagli dèi, non frutto di scelte e decisioni, e l’esistenza è disorganizzata in un insieme non correlato di accadimenti. Ciò vale anche per le malattie, punizioni inferte dal dio per capriccio o per colpe da mondare e non ancora gli squilibri naturali descritti molto più tardi nella sistematizzazione ippocratica.

Il corpo, che sia per dardo divino o per agente patogeno, comunque si ammala e (a volte) guarisce. Così come cambia nella storia la concezione del corpo, cambiano anche le nosografie che lo riguardano, i rimedi offerti dalla medicina e la definizione stessa di salute.

Il corpo insomma parrebbe qualcosa di scontato ma appena cerchiamo di coglierne il senso esso subito “contrappone” qualcosa o “si contrappone a” qualcosa: sfuggono il suo inizio (è un piccolo insieme di cellule appena fecondate già un “corpo”? e non è forse un corpo quello di un feto vicino al tempo del parto?), la sua fine (coincide con l’arresto del battito cardiaco? o con la sparizione dell’attività cerebrale, così come determinata da uno strumento condizionato dalla propria capacità di risoluzione e dunque di arbitraria obiettività?), la sua delimitazione (circoscritto sì dalla pelle, ma in un continuo via vai di umori e materiali, di annessi che crescono e si perdono, capace di sopravvivere anche perdendo parti di sé – come un arto – o soccombere ad altre parti di sé – come un tumore), il suo essere sano o malato, la sua analogia e insieme differenza col corpo dell’Altro, il suo essere sempre lo stesso pur mutando radicalmente con lo sviluppo, la crescita, la vecchiaia e, infine – problema ultimo – il suo rapporto con la psiche che lo abita.

Il dualismo mente-corpo, nato con Platone e cristallizzato da Cartesio nella distinzione tra res cogitans e res extensa, continua ancor oggi a vedere contrapposte posizioni diverse e incompatibili. Se, infatti, il corpo non è che una macchina regolata da complesse ma non intenzionali interazioni elettrochimiche, la psiche ne emerge come un mero effetto – e con essa il nostro libero arbitrio (scrive spavaldo A. Benini in Neurobiologia della volontà: “L’uomo si illude di decidere, mentre in realtà non fa ciò che vuole, ma vuole ciò che fa”). Se rimaniamo invece prigionieri di questo dualismo, non ci rimangono che soluzioni metafisiche (il tentativo cartesiano di trovare un punto di incontro fra le due res nella ghiandola pineale appare a posteriori goffo e un po’ arbitrario).

Ne cerca un superamento la fenomenologia, operando innanzitutto la distinzione fra Körper (il corpo organico) e Leib (il corpo vivente in un mondo). Scrive U. Galimberti:

Sottratto al mondo, il corpo diventa incomprensibile.

E ancora:

Il “mio corpo”… si rivela come ciò che mi inserisce in un mondo, ciò grazie a cui esiste per me un mondo.

Ho invece presente il corpo-cosa (Körperding), quello oggettivato dalla scienza, “perché lo vedo”, esperendolo secondo questa modalità come estraneità.

Il Leib crea “quei vissuti (Erlebnisse) di un spazio non geometrico, di un tempo non cronologico”, di un esistere “secondo le modalità della propria esistenza (Dasein) e co-esistenza (Mit-dasein)”. La psichiatria fenomenologica in particolare si prende carico di considerare la malattia non tanto come disfunzione organica da “spiegare” (erklären) quanto come un particolare modo – diverso per ciascuno – di essere-al-mondo che richiede invece un “comprendere” (verstehen).

I tre elementi prima menzionati – corpo, anima, destino – rimarranno correlati per tutta la storia dell’umanità. L’uomo moderno – tecnologico ma soprattutto scientifico – ritiene di essere padrone della propria mente, di conoscere il proprio corpo e di determinare il proprio destino e il proprio essere. Tra le numerose questioni lasciate sin qui in disparte, vale la pena quindi di menzionarne – senza entrare nel merito – ancora due, che in questo senso sono estremamente contemporanee.

La prima è l’estensione del corpo in corpo tecnologico. Scrive M. McLuhan (1967):

Tutti i mezzi di comunicazione sono estensioni di una qualche facoltà umana, psichica o fisica. La ruota è un’estensione del piede… il libro è un’estensione dell’occhio… i vestiti, un’estensione della pelle… i circuiti elettrici, un’estensione del sistema nervoso centrale… L’estensione di un qualsiasi senso altera il modo in cui pensiamo e agiamo, il modo in cui percepiamo il mondo. Quando questi rapporti cambiano, cambiano gli uomini.

La questione rimane di strettissima attualità, soprattutto se pensiamo alla riconfigurazione dei rapporti sociali, della percezione di sé, della comunicazione e anche della psicopatologia apparsa insieme ai nuovi media.

La seconda vede il corpo – in particolare il corpo sessuato – come campo di battaglia politico e ideologico. Nel secolo scorso molto si è discusso del corpo della donna (in particolare, ma non solo, rispetto al tema dell’aborto); il secolo presente vede crescere la questione del delicato e non così nitido rapporto tra sesso, genere e identità. Nessuna delle due questioni appare oggi pacificamente risolta (il dibattito, anzi, sembra assumere toni sempre più accesi e poco costruttivi).

“Il sesso è il naturale dell’uomo”, scrive C. Paglia. “Il corpo è il naturale dell’uomo”, aggiungeremmo noi per estensione. Circa trenta secoli dopo Omero – a dispetto di quanto certe ideologie ce lo facciano vagheggiare – il mistero del rapporto con questa natura (nutrice o matrigna, nostra oppure estranea) non sembra essersi ancora sciolto e l’uomo non ha forse ancora veramente capito di cosa abbia piena conoscenza – e controllo. A partire dal proprio corpo.

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