La voce

Nell’indagine che quest’anno BombaCarta si propone di svolgere intorno al corpo umano potrebbe apparire peculiare la scelta di iniziare dalla voce. Tra tutte le parti del corpo, la voce sembra essere infatti la più immateriale, impalpabile, invisibile, tanto che anche il solo definirla una “parte del corpo” pare essere un azzardo. Per altro verso, tuttavia, la voce rappresenta uno degli elementi che rendono maggiormente riconoscibile un individuo, consentendogli di comunicare ed esprimere la propria gamma di emozioni, pur rimanendo in qualche modo invariata nel proprio inconfondibile suono. Non a caso, in senso figurato, si dice spesso che un artista debba “trovare la propria voce”, avendo riguardo non tanto allo stile, quanto a quello specifico elemento – immateriale, impalpabile, invisibile – in grado di distinguerlo da tutti gli altri. Ma cosa intendiamo, quando parliamo di voce?

Il vocabolario la definisce così: “Serie o insieme di suoni articolati emessi dall’uomo, o di suoni inarticolati emessi da vari animali (o anche dall’uomo), alla cui produzione concorrono fondamentalmente, soprattutto nell’uomo, l’apparato respiratorio, con funzione di mantice, che ne condiziona l’intensità, la laringe, che ne regola l’ampiezza, la faringe con la cavità orale e le fosse nasali che ne determinano il timbro”. Non si tratta, dunque, di una vera e propria parte del corpo e tuttavia, almeno dal punto di vista meccanico, appare strettamente legata alla fisicità del corpo, come prodotto dell’azione di polmoni, laringe e faringe. Il vocabolario non opera una distinzione né sulla base dell’autore da cui proviene la voce (uomo o animale) né sulla base del contenuto espresso (suoni articolati o disarticolati) svincolando, dunque, del tutto la voce sia dal soggetto che dall’oggetto. Similmente nel greco antico il termine φωνή indica sia la voce che il suono, distinta sia da λόγος (discorso, parola, ragione) che da μέλος (canto, melodia, musica).

Dunque, la voce sarebbe suono, indipendentemente dal significato di cui si fa espressione, che può addirittura non esserci o perdersi. In tale direzione sembrano andare le ricerche sulla vocalità svolte nel tempo da alcuni artisti – su tutti Demetrio Stratos, cantante e musicista greco –  volte ad esaltarne l’aspetto tecnico, utilizzando la voce come un vero e proprio strumento musicale. Se, da un lato, emergono così le potenzialità sonore della vocalità umana, dall’altro, si ha la conseguenza di scindere voce e senso, rendendo la voce “solo” suono. Ciò emerge con evidenza da specifici esperimenti, quali la recitazione degli scioglilingua. Nello scioglilingua, la ripetizione reiterata di un vasto numero di parole in un tempo esageratamente ristretto, conduce alla distruzione del senso espresso dalla parola. Non è più la voce ad essere portatrice della parola, ma la parola a farsi voce. I sacerdoti greci ripetevano queste litanie per smarrire se stessi e il proprio senso, e ricongiungersi a un senso più alto, divino.

La voce diventa così pura φωνή, svincolandosi definitivamente dal λόγος, in una prospettiva non dissimile a quella tracciata da Platone, prima, e Agostino, poi. In tal senso, celebri sono i dissidi platonici sul rapporto tra oralità e scrittura, ma anche l’ammonimento di Agostino sull’origine della verità, da ricercarsi nella parola di Dio e non nel suono.

E tuttavia, anche intendendo la voce come mero strumento, cioè mezzo, e pertanto scindendola dal contenuto che essa intende veicolare, non è possibile limitarla a un ambito puramente neutrale. Così annota Carmelo Bene, in un proprio quaderno, riprendendo un frammento postumo di Nietzsche:

ciò che nel linguaggio meglio si comprende non è la parola, bensì il tono, l’intensità, la modulazione, il ritmo con cui una serie di parole vengono pronunciate, insomma la musica che sta dietro le parole, la passione dietro questa musica, la personalità dietro questa passione: quindi tutto quanto non può essere scritto.

In questa sovrapposizione di φωνή e μέλος,  la voce non smarrisce il proprio senso se separata dalla parola, ma, al contrario, si rende portatrice di un senso altro rispetto alla parola, accompagnando il significato che esprime, circoscrivendolo, integrandolo o, addirittura, tradendolo. Diviene, cioè, significante. La voce esprime ciò che la parola non può o non vuole, rivelandone invero il suo senso più autentico, oltre il dato letterale di immediata evidenza. Ancora più in là si spinge Derrida, che, nel suo La voce e il fenomeno, pone la voce a fondamento della metafisica, come significato puro che si dà immediatamente, verità che giunge prima e a prescindere dal segno, al contrario della scrittura, che è invece “segno di segno”.

Diversamente dalla parola scritta, la voce è parola che si sottrae. Nel momento stesso della propria espressione, la voce già non è più, come gli affreschi scoperti nella Roma di Fellini, che una breccia rivela per la prima volta da secoli agli occhi dell’uomo, al contempo sottraendoli per sempre allo sguardo a causa dell’azione dell’aria penetrata dalla stessa breccia.

Se il tempo della scrittura è il futuro, la voce si misura sul presente: immediatamente giunge e immediatamente si smarrisce, portando con sé la parola. Ma cosa lascia indietro?

Intendendo la voce come mera φωνή, ossia suono, il rischio ultimo è quello di negarne il senso: un urlo, un bisbiglio, un vocalizzo sarebbero semplicemente rumore, svincolato dall’intenzione di chi lo produce. Similmente, ritenendo la voce come strumento di trasmissione del λόγος, la si svilirebbe a un ruolo ancillare, privandola di un senso proprio, che resterebbe invece appannaggio del contenuto, della parola espressa. Resta la via del μέλος. La φωνή che si dà come μέλος non è suono privo di senso, né senso che prevarica il suono, ma suono che si fa senso.

Scrive Paul Valéry che la poesia è un’esitazione prolungata tra il suono e il senso. In quello spazio sta la voce, intreccio di suono e senso, suono prima del senso, senso che rimane quando svanisce il suono.

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