Cercare l’invisibile – Il silenzio

MoMa, 2013

There will never be silence. Così scriveva John Cage in una lettera datata 1954. Per il compositore americano, autore del noto brano 4’33”, non era un’affermazione che poteva destare sospetti.

Nell’estate del 1952 David Tudor, sul palco del Maverick Concert Hall a Woodstock, New York, interpretò il cosiddetto pezzo silenzioso di Cage: tre movimenti durante i quali all’esecutore è richiesto di non produrre intenzionalmente alcun rumore, il tutto per la durata di quattro minuti e trentatré secondi. Un modo di fare musica che potremmo definire destrutturato: via l’attenzione dall’esecutore e spazio ai rumori dell’ambiente circostante. Nel corso della sua vita Cage ebbe modo di sottolineare il fatto che questa sua opera, più che creare una sorta di shock nel pubblico aveva, nelle sue intenzioni, lo scopo di metterlo in sintonia con il silenzio, pensato come una struttura all’interno del contesto musicale.

Nel 2013 il MoMa di New York dedicò a Cage e ad alcuni artisti suoi contemporanei una mostra intitolata appunto “There Will Never Be Silence: Scoring John Cage’s 4′33″. Le opere esposte partivano dal concetto di “spazio negativo”.

Di fatto, se pensiamo al silenzio (possiamo pensare il silenzio?) ci confrontiamo con “qualcosa” che non solo è invisibile e impalpabile ma neppure descrivibile. Insomma, con qualcosa che manca.

Più semplicemente, percepiamo il silenzio. Ne cogliamo l’esistenza nel momento in cui cessa il suo opposto (il negativo di Cage), il rumore. Gianni Zanarini, un fisico che si occupa di studiare il rapporto fra scienza e arte, musica in particolare, ha provato ad immaginare le sensazioni suscitate nel pubblico dalla prima performance del brano di Cage:

Qualcuno rimane interdetto, forse addirittura scandalizzato. Con un gesto di impazienza sfoglia, con un leggero fruscio, il programma di sala in cerca di una spiegazione che non trova, si agita sulla sedia che scricchiola leggermente, sussurra qualcosa al suo vicino, che gli risponde con un’espressione sorpresa e incredula. E non senza una buona ragione: mai, nella storia della musica, è accaduto qualcosa di simile! Forse, però, altri hanno un vissuto diverso. Qualcuno si immerge anche qui, anche ora nel silenzio che precede ogni esecuzione, denso di attesa e animato da suoni appena percettibili: respiri, colpi di tosse, fruscio di programmi, bisbigli, scricchiolii. E, anche se un po’ sorpreso, interpreta la composizione come un invito a entrare con attenzione e concentrazione in questo silenzio vivo: un silenzio che è parte della musica, che è musica esso stesso.

Il brano, per qualunque strumento o voce, è scritto in tre movimenti con le seguenti durate: 30’’, 2’23’’ e 1’40’’. All’inizio del brano appare una sola parola, la scritta Tacet che in musica indica che lo strumento o la voce per cui la parte è scritta deve tacere per il numero di battute segnato a fianco. Non viene emessa alcuna nota eppure, come ci guida l’immaginazione di Zanarini, alcuni suoni vengono percepiti.

La visita alla camera anecoica dell’Università di Harvard fu probabilmente la scintilla ispiratrice di Cage. Entrando e permanendo in quella stanza isolata acusticamente dall’ambiente esterno e allestita per eliminare qualsiasi eco, John Cage raccontò che gli unici rumori udibili erano quelli prodotti dal battito del suo cuore e dall’attività cerebrale: come a dire che il silenzio assoluto non è ascoltabile.

In fisica il silenzio assoluto ci sarebbe quando nulla vibra e tutto è fermo, situazione che si ottiene nello stato termodinamico che si chiama zero assoluto o zero Kelvin, cioè alla temperatura di -273.15°C (impossibile a raggiungersi). C’è chi ha voluto vedere nel numero 273 una scelta di Cage: 273 secondi musicali di silenzio, ovvero 4 minuti e 33 secondi. Lasciando da parte la numerologia, rimane un fatto: 4’33’’ non è un silenzio assoluto.

Se da un lato il silenzio assoluto non esiste, dall’altro, tanto nella musica, quanto nel linguaggio è proprio il silenzio la conditio sine qua non per l’ascolto. C’è un intervallo (di silenzio) fra una parola e l’altra, fra una frase e l’altra, fra una nota e l’altra. Come un momento che predispone, che apre a qualcosa che viene dopo, in più, oltre, che permette uno scambio.

Anche nell’arte il silenzio ha una valenza importante: pensiamo alla pittura. Le immagini sono per loro natura silenziose, non parlano, non strillano, non piangono e non gioiscono. Riprendendo Simonide di Ceo, La pittura è poesia muta, la poesia pittura parlante. L’ascolto di qualunque creazione artistica, la contemplazione di qualunque opera d’arte, passa necessariamente attraverso il silenzio.

Ci sono artisti che sono stati definiti artisti del silenzio. Ad esempio, il pittore danese Vilhelm Hammershøi (Copenaghen, 1864 – 1916), il pittore americano Edward Hopper (Nyack, 1882 – New York, 1967) e il pittore Mark Rothko (Daugavpils, 1903 – New York, 1970).

Quest’ultimo, in particolare, definì il silenzio “so accurate”, estremamente accurato, preciso: con un chiaro riferimento all’allestimento pittorico di cui fu autore nella cappella di Houston che porta il suo nome e che fu realizzata per celebrare il concetto dell’uguaglianza sociale e culturale.

La cappella Rothko a Houston

In questa produzione artistica si tocca con mano il concetto della quiete, che è uno degli aspetti più strettamente connessi al silenzio. Quella stessa quiete ed immobilità che ritroviamo dei dipinti di Hammershøi e di Hopper.

Hopper, Chop Suey, 1929
Hopper, Morning Sun, 1952

Entrambi propongono composizioni in cui domina l’introspezione, la solitudine, la riflessione: aspetti intimi e profondi della quotidianità di ognuno. In molti dei loro quadri compare quel senso di malinconia e quell’assenza sia di luce che di voci che rendono il silenzio il vero protagonista delle scene raffigurate, tanto che ci siano solo interni di abitazioni quanto che appaiano figure umane.

Hammershoi, “Interno. Strandgade 30”, 1901 e “Interno della casa dell’artista”, 1900

Perché il silenzio, che vive grazie ai suoi opposti, si intreccia alla solitudine, all’estasi e anche alla paura.

Emily Dickinson in una sua poesia scrive:

Silence is all we dread.
There’s Ransom in a Voice –
But Silence is Infinity.
Himself have not a face.

Il Silenzio è tutto ciò che temiamo.
C’è Riscatto in una Voce –
Ma il Silenzio è Infinità.
In sé non ha un volto.

Il silenzio incute timore: imperscrutabile come un corpo senza volto, immenso come l’infinito, senza riscatto perché senza voce. Quell’assoluto indicibile (con qualche contraddizione) che non riusciamo a trovare e che abbiamo, spesso, paura di affrontare.

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