Ciò che qui si perde
Quivi ad alcuni giorni e fatti sui,
ch’egli già avea perduti, si converse;
che se non era interprete con lui,
non discernea le forme lor diverse.
Tra le tante cose che abbiamo imparate in questo tempo stra-ordinario (e che magari speriamo di riuscire a trattenere) spicca sicuramente la seguente: aver capito, avendo più tempo del solito a disposizione, che cosa la nostra volontà coglie e che cosa invece neanche sfiora. In cosa ci annichiliamo, in che cosa invece siamo risvegliati. Il tempo che abbiamo vissuto è stato osservare la quotidianità/normalità da una prospettiva deformata di essa: si potrebbe dire di aver fatto, sulla nostra terra, una qualche sorta di esperienza “lunare”, di aver toccato con mano come i “vani disegni”, i “vani desideri”, tutto ciò “si raguna” laddove la nostra presa non può nulla. Questa fortunata rappresentazione, questa duplicità, oltre che la tormentata vicenda di Orlando, ci richiama una singolare farsa del 1966 girata da Pier Paolo Pasolini, messinscena cinematografica di un racconto mai pubblicato, che esordisce con la seguente didascalia:
Visto dalla luna, questo film che si intitola appunto La terra vista dalla luna, non è niente e non è stato fatto da nessuno… ma poiché siamo sulla terra, sarà bene informare che si tratta di una fiaba scritta e diretta da un certo Pier Paolo Pasolini.
In questa fumettistica vicenda vengono narrate le peripezie di un padre e un figlio, Ciancicato Miao e Baciù (rispettivamente interpretati da Totò e Ninetto Davoli), i quali, dopo la tragica dipartita della moglie-madre Crisantema, partono alla ricerca di una nuova figura femminile che svolga gli stessi ruoli: dopo essersi imbattuti in una vedova impazzita, in una prostituta e in un manichino, trovano finalmente la donna giusta, una povera e bellissima sordomuta di nome Assurdina Caì (Silvana Mangano). Essa si rivela subito una solerte ed amorevole presenza, in grado di trasformare la catapecchia dei due in una graziosa dimora; tuttavia essi, non soddisfatti, la spingono ad inscenare un tentato suicidio per impietosire le folle dall’alto del Colosseo, minacciando di suicidarsi se non sarà aiutata a sopravvivere – mentre padre e figlio raccolgono il denaro offerto dagli spettatori della scena. Di tale disgraziata trovata, però, la donna rimarrà vittima, scivolando davvero nel vuoto per colpa di una buccia di banana: Ciancicato e Baciù, disperati per la seconda perdita, tornano alla loro casetta – senonché vi trovano proprio Assurdina, vestita da sposa e come ignara di quanto accaduto. Rivelerà loro, sorridendo, di essere morta, ma di poter comunque portare avanti tutte le funzioni di prima: i due, esclamando “è la felicità, è la felicità!”, la riabbracciano pieni di gioia.
La didascalia finale ci lascia spiazzati:
Morale della favola: essere morti o essere vivi è la stessa cosa.
Abbiamo detto come l’osservare da una prospettiva altra la realtà, constatarne una diversa consistenza ci ha permesso di apprendere di più sulla nostra quotidianità: ma ci pertiene davvero questo “sguardo alieno”? Discerniamo davvero tramite esso qualcosa di diverso?
La favola che abbiamo raccontato è, per quanto picaresca e fumettistica, un’amara parabola, il possibile rovescio del mondo in cui eravamo abituati a vivere: l’ambiente è quello di una periferia deserta, il colore – piatto e quasi disegnato – è l’elemento espressivo del racconto che più dà il senso di quanto narrato: si tratta, infatti, non della terra dove la gente normalmente vive, ma appunto della terra filtrata (anche cromaticamente) da una prospettiva che superi la maniera comune di vedere le cose.
Il contesto è caratterizzato da paesaggi quasi completamente deserti e privi della presenza umana – e non da ultimo, i personaggi sono afflitti da una profonda incomunicabilità (massimamente esemplificata dal sordomutismo di Assurdina, dalla gestualità ipertrofica e non funzionale di Ciancicato). La terra vista dalla luna fonda il suo significato su quella morale finale, riducendo l’esistenza alla decisiva ed ultima dicotomia tra la vita e la morte: tuttavia, in questa versione della terra fuori dalla terra, tale dicotomia viene tragicamente ridotta ad eguaglianza.
Il pericolo che ci minaccia è forse lo stesso: non poter più scorgere la differenza, in questa fase di transizione seguita a quella dura (ma comune a tutti) della vita costretta nel nostro interno, tra quel che è stato e quello che man mano ci vien restituito, con le dovute cautele e gradualità. Non sentire più il bisogno dei rapporti nella loro assiduità e presenza, della relazionalità curata da vicino – nel timore, forse, di ritrovare gli altri cambiati allo stesso modo, attraversati dallo stesso tenore solipsistico, dimentichi dell’importanza di tutto (come dice lo stesso Ciancicato al figliolo, “la vita è un sogno” e gli ideali sono finiti “sotto le scarpe”).
Rischiare di scomparire nel sogno, in un surrogato della vita, e sentirne le conseguenze per molto tempo: questo è il sotterraneo torpore in cui si rischia di rimanere invischiati e di cui ci rendiamo conto solo se “visti dalla luna”, in quest’ottica sfasata.
– Perché dovemo esse così diversi da come se credemo?
– Eh figlio mio, noi siamo in un sogno dentro un sogno.
È quanto sentiamo dire ad altri personaggi, in altro contesto, ma curiosamente legato al primo. Si tratta di Che cosa sono le nuvole, il secondo girato farsesco che Pasolini realizzerà con gli stessi interpreti un anno dopo: vediamo Totò e Davoli prendere le sembianze di due marionette, protagonisti caricaturali dell’Otello di Shakespeare. I pupi, rispettivamente Iago e Otello, sono ben consci del doppio piano su cui si trovano, nel mondo, ad esistere: ma al contrario di due attori in carne ed ossa, ne sono ingenuamente e meravigliosamente sopraffatti. Piccoli più degli uomini, tanto da avere spazio per una sola emozione alla volta, grandi come gli uomini nell’avere bisogni, domande, paure. Il tutto è una metariflessione sul teatro – significativa è in effetti la locandina che si accompagna al titolo del girato, che riporta Las Meninas di Velàzquez – ma insieme con la precedente pellicola si propone di veicolare un messaggio assai più profondo:
Qual è l’ideologia di queste mie due farse? Non è molto comica, a dire il vero […] L’ideologia di fondo è un’ideologia picaresca, la quale come tutte le cose di pura vitalità, maschera un’ideologia più profonda che è l’ideologia della morte.
L’ideologia della morte “fa corpo con l’inesplicabile mistero della vita, di quella disperata vitalità che assume valore e significato solo grazie al mistero del suo avere fine”. Forse il frutto più evidente dello scontro con un reale ostile e ferito, mutato nelle sue fattezze, è proprio il ritrovamento di questa “disperata vitalità”, segnata dal memorandum della sua fragilità a livello sia individuale che collettivo. Ma se questo tempo ha fatto emergere, con altrettanta disperata forza, una qualche sorta di senso interno, maggiore è il tentativo di rapportare tale senso di cui ci siamo appropriati ad un esterno indistinto, sebbene questo esterno sia attraversato dalle stesse ferite di prima e ancor più doloranti, sebbene ci si debba (letteralmente) proteggere da esso. In definitiva, sapere che c’è la realtà, non chiedendosi dove sia o quale sia, sapere che non è scomparsa è forse l’unica ideologia cui aderire avendo lasciato da parte l’inessenziale, è la meta del viaggio di ritorno dalla nostra luna alla nostra terra.
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