Officina “Aria e acqua” – pensieri sparsi

Molto densa l’Officina di sabato 17 maggio sul tema “Aria e acqua”. Molto stimolante.
Ecco qui di seguito qualche spunto che mi ha ispirato l’avervi partecipato.
Si è parlato molto di mare e anche dei suoi colori, così è riaffiorata alla memoria una poesia che fu al centro di una “antica” Officina (per ritrovare il testo l’ho dovuta richiedere ad Antonio Spadaro):
MARE (Kikuo Takano)
Ho cercato di afferrare l’azzurro
del mare, ma non è azzurra l’acqua
che ho preso – sono forse troppo
piccole le mie mani.
Se mi chiedessi da dove son venuto,
direi: sono venuto dal mare.
Se mi chiedessi dove vado, rispondo:
sempre al mare.
Di fronte al mare non servono parole
impertinenti, non arroganze o scuse;
non serve il misero confine
che me da te separa,
né i piccoli nomi, né i poveri sogni,
né tutto ciò che ci portiamo addosso.
Di fronte al mare mi sta bene esser nudo
come quando son nato –
così rendo al mare
ciò che mi tocca nell’intimo del cuore,
chiedendo perdono per il troppo che ho chiesto.
Di fronte al mare mi sembra di essere
un fanciullo sgridato –
sembriamo tutti fanciulli sgridati.
Si è parlato molto del mare, forse troppo. Nel senso che si è parlato poco dei fiumi e soprattutto della pioggia. Dico questo perché il mare è una presenza oscura, minacciosa, è una massa d’acqua ma non potabile (lo ha messo in evidenza Valerio parlando di Coleridge e di Vinicio Capossela e la sua Santissima dei naufragati), un elemento che porta morte più che vita. La pioggia invece porta vita. Scendendo dall’alto. «Come la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza aver annaffiato la terra, così è della mia parola, uscita dalla mia bocca: essa non torna a me a vuoto» (Isaia 55,10-11). Ricordiamoci la domus romana, che aveva al centro uno spazio aperto dove si incanalavano le acque piovane, portatrici di vita. E qui viene in mente anche l’idea del potere, della forza, che è stata ricordata da Margherita quando ha accennato al fatto che l’antica Roma aveva negli imponenti acquedotti che costruiva un elemento portante della sua forza potenza.
Su acqua e potere viene in mente il film La ballata di Cable Hogue, di Sam Peckimpah che racconta di quel cowboy che, tradito dai suoi compari, viene lasciato da solo a morire nel deserto ma sorprendentemente, all’ultimo minuto prima della morte, trova proprio nel deserto una sorgente d’acqua e la sua posizione da disperata diventa di forza, di successo, di potere.
E poi si è parlato anche della “debolezza” dell’acqua e dell’aria, così invisibile, impalpabili…
e quindi la nebbia. Qui ovviamente corre l’obbligo di citare la scena del film Totò Peppino e la malafemmina dove si sottolinea proprio l’invisibilità e l’impalpabilità della nebbia:
In Amarcord di Fellini il nonno si trova solo davanti casa ma l’esperienza è così straniante che a un certo punto pensa di essere “in nessun posto”, di essere morto…
La nebbia, come vapore, come debolezza che paradossalmente diventa forza, è la protagonista della celebre scena biblica della Teofania di Dio nell’Antico Testamento quando appare al profeta Elia sotto forma di “sussurro di una brezza leggera”, “mormorio di un silenzio sottile”…
1 Re 19,8-13
(Elia) Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb.
Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola del Signore in questi termini: “Che cosa fai qui, Elia?”. Egli rispose: “Sono pieno di zelo per il Signore, Dio degli eserciti, poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita”. Gli disse: “Esci e férmati sul monte alla presenza del Signore”. Ed ecco che il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello…
Questo soffio di un vento leggero ha ispirato anche Bob Dylan nella sua Blowin’ in the wind, in quel vento soffia anche la risposta. Il cantautore del freddo Minnesota (da pochi giorni 84enne) ha spesso cantato il vento e la pioggia come ad esempio in quello stesso secondo album la lunga visionaria ballata Hard rain is gonna fall in cui la pioggia è dura perché è la pioggia nucleare paventata da tutto il mondo in quegli anni (1962-63) della guerra fredda e in particolare della “crisi di Cuba”.
L’aver scelto come temi l’acqua e l’aria mi ha fatto ricordare una vecchia ipotesi di organizzare un anno di BombaCarta sul tema “mondo” suddiviso nei seguenti incontri mensili: i 4 elementi (acqua, aria, terra e fuoco) e i 4 punti cardinali (nord, sud, est e ovest).
In quest’ottica si può dire che ci sono artisti “di aria”, altri “di fuoco”, altri “di terra”… così per esempio Bob Dylan è un artista “di acqua e di aria”, mentre Bruce Springsteen è piuttosto un artista “di fuoco e di terra”. Su questo tema si potrebbe sviluppare una bella esemplificazione. Sulla stessa falsariga si potrebbe che Ennio Morricone è di fuoco e di terra e Nino Rota di acqua e di aria, si pensi soltanto al suono “liquido” della tastiera nella colonna sonora del film Toby Dammit di Fellini. Di nuovo Fellini. Un altro artista di aria e di acqua. Anche qui sarebbe lungo e interessante sviluppare questa suggestione, pensare al ruolo del mare nei film del regista riminese e soprattutto il ruolo del vento, della brezza, del “sussurro” dell’aria. Era un maestro Fellini, tra le altre cose, nel creare atmosfere magiche, impalpabili, con l’uso accorto del suono, dei rumori, delle voci… c’è sempre un vento che spira nei film di Fellini e che a volte sembra introdurre un momento epifanico.
Negli Atti degli Apostoli il racconto della Pentecoste si apre con queste parole: «Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo, e riempì tutta la casa dove si trovavano». (At 2,2) Il vento soffia e scuote, scompiglia, i-spira, spinge all’azione.
Penso che a quel vento si sia ispirato Chesterton quando scrisse l’incipit di Manalive (Le avventure di un uomo vivo) che vale la pena di rileggere:
I – Come il gran vento giunse a Casa Beacon
S’alzò a occidente un vento maestoso, come un’onda d’irragionevole felicità, e si lanciò verso oriente sull’Inghilterra, portandosi dietro la gelida fragranza delle foreste e il freddo inebriante del mare. Giunse in milioni di covi e angoli a rinfrescare un uomo come un boccale pieno e lo sorprese come uno scoppio. Irruppe come un’esplosione domestica nel dedalo delle più recondite stanze di case chiuse tra i loro pergolati; sparse sui pavimenti certi fogli di un professore, così da farli sembrare tanto preziosi quanto sfuggenti; spense col suo soffio la candela accanto a cui un ragazzo leggeva L’isola del tesoro e lo avvolse nel borbottio dell’oscurità. Ma, ovunque, quel vento sprigionò un fuoco dentro vite sfuocate, propagando per il mondo lo squillo di tromba della crisi. Molte erano le madri apprensive, come quella che, fissando le cinque magliette appese sul filo del bucato nel suo misero cortile, pensava a una piccola e orribile tragedia: le pareva di aver impiccato i suoi cinque figli. Quando il vento giunse le magliette si gonfiarono di colpo e si misero a scalciare, come se cinque grassi folletti fossero spuntati lì dentro; allora, nell’animo della donna rifiorì a tratti, da un cantuccio remoto del suo subconscio, il ricordo di quelle commedie rustiche dei suoi padri, al tempo in cui gli elfi dimoravano ancora nelle case degli uomini. C’erano molte ragazze come quella che, inosservata tra le mura di un rorido giardino, s’era buttata su un’amaca con piglio insofferente, quasi avesse voluto buttarsi nel Tamigi. E quel vento scosse il muro ondeggiante di alberi e sollevò l’amaca come una mongolfiera, trascinando così la ragazza a vedere le tinte screziate di nuvole bizzarre a perdita d’occhio sopra di lei e piccole scene di villaggi vivaci sotto di lei, quasi solcasse il cielo su una nave fatata. Per strada molti erano gli impiegati e i parroci che arrancavano impolverati lungo un’interminabile via folta di pioppi, pensando per la centesima volta che quegli alberi assomigliavano ai pennacchi di un carro funebre, ma quando quell’invisibile energia avvolse gli arbusti, li agitò e li sbatté, allora ebbero l’impressione che la loro testa fosse coronata di carezze fatte da ali di serafini. C’era in quel soffio qualcosa di persino più intenso e imperioso dell’antico vento del proverbio: perché questo era il vento buono che non ferisce nessuno.
Ecco qua, solo qualche appunto sparso, suscitato dal vento gagliardo dell’Officina.