Il pesce dopo due giorni puzza

Damien Hirst (fish)Creata nel 1991, l’opera in questione, intitolata L’impossibilità fisica della morte nella mente di qualcuno in vita, rappresenta un gigantesco squalo tigre australiano, conservato in formalina in una teca di vetro. Il tema è quello solito di Damien Hirst: l’ossessione della morte e il tentativo di controllarla. Ma gli sforzi dell’artista sono destinati a fallire, dal momento che il suo pescione, punta di diamante del MoMA di New York, versa ora in un cattivo stato di conservazione. La teca, infatti, non è stata neppure esibita nella prima retrospettiva della carriera dell’artista, che Hirst, rifiutando le offerte dei più celebri musei del mondo, ha voluto tenere al Museo Archeologico di Napoli, nel gennaio scorso. Forse perché nei vicoli bui della città del sole c’è puzza di sangue e di morte, forse perché i corni, i santi, i numeri e i miracoli assolvono alla stessa funzione del vetro e della formalina nelle sue opere, e cioè esorcizzano la fine; o forse perché Napoli è una città dalle immagini potenti di una religiosità incarnata nella vita quotidiana… fatto sta che da Napoli l’artista, appartenente alla minoranza cattolica inglese, è rimasto sedotto.

A volte sembra che la cosa più bella delle raccapriccianti opere di Hirst (corpi di bovini e suini sezionati, lastre di catrame e mosche morte, armadietti di medicinali e strumenti chirurgici, tavoli da obitorio) siano i titoli: «Dove stiamo andando? Da dove veniamo? C’è una ragione?», ad esempio, è una teca a croce, racchiudente innumerevoli scheletri e scheletrini di animali. Ma se la domanda è giusta, romantica, struggente, la risposta, per quanto funny a tutti i costi, ricade sempre nel solito cerebro-nichilismo di maniera. Hirst avrà amato Napoli, ma non vi si è abbandonato: la vita, più che la morte, nelle sue opere, sembra imbalsamata in formalina. Meglio allora la teca a Spaccanapoli con il capello di Maradona: meglio le imprecazioni e i debiti per la ruota del lotto, meglio le devozioni e gli svenimenti per il sangue di san Gennaro, meglio una vita affidata al mistero, ma vissuta da esseri umani; affidati cioè a un’inesorabile quanto inspiegabile finitezza.

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  1. raffaele ha detto:

    Non lo conosco. Ma non sarà che anche in Hirst c’è la voglia di ‘stupire il borghese’, che è tanta parte dell’arte novecentesca?
    Ho l’impressione che ci sia stata troppa gente che ha giocato col senso di morte, che invece è una delle cose veramente reali di tutto il novecento.
    Celine è uno di questi, ma in lui e per quello che ho letto questo sforzo di ‘stupire il borghese’ si nutre di un “sano” (cioè malato ma autentico) odio di classe, di una indigerità rivalità sociale che finisce nel nazismo.
    Ma non è sempre così.
    Continuo a pensare che pittori come Bacon e Freud, e letterati come Celan e Artaud, abbiano rappresentato aspetti del dolore novecentesco con molta verità. Ma ben pochi altri.
    Altrimenti bisogna andare in Usa, verso gli autori e le autrici che tu ami.
    Oppure cercare le donne, specie le femministe o le vive nella esperienza femminista.
    In Italia cose del genere mancano.
    Solo Pasolini si avvicina e spesso entra dentro questa tematica con verità: questo per la sua assoluta vitalità e per la sua passione per le persone; una passione religiosa nell’ateismo di Pasolini.
    Una tua riflessione su Pasolini sarebbe, infatti, più interessante e proprio per il livello di indagine autentica sul male che c’è in Pasolini. Indagine che nasce dalla disperazione della vita in questa società, la quale manca di vita, in tutti i suoi meccanismi di fondo.
    E’ quello che penso di autori come Cattelan, il quale vende attraverso la gratuita offesa e l’inutile provocazione capace di arrivare sui giornali, ma non al cuore/mente di chi legge.
    Una strada che occorre ritrovare e che in molti c’è.

    ciao

    raffaele

  2. Andrea Benei ha detto:

    Non sono per nulla d’accordo sul modo (e sulla maniera) in cui Raffaele ha liquidato l’opera di Cattelan. Cercherò quindi di spezzare una lancia in difesa non solo di Cattelan, ma dell’intera categoria.
    Premesso che “stupire” (e non solo il borghese) era, prima dei graffiti sulle pareti delle caverne, facoltà esclusiva della natura, e l’unico scopo per cui l’uomo realizza arte (in ogni forma, dal perfetto gesto di un passante sovrappensiero al David di Michelangelo) è appunto sostituirsi ad essa nella ricerca di un effetto di stupore (gradevole o no,volontario o no); premesso che un giudizio come “gratuita offesa e inutile provocazione” sembra dettato più da un pensiero facile, in quanto condiviso dalla massa, e oscurato da un vago pregiudizio educativo/scolastico, piuttosto che da una conoscenza approfondita delle arti figurative dell’ultimo trentennio; premesso infine che Cattelan stesso accetta più volentieri di essere chiamato operatore artistico, piuttosto che artista, in quanto si rende perfettamente conto di presentare al pubblico concetti più che tecniche, posso con certezza affermare che l’arte attuale, contemporenea, è la meno direttamente traducibile di tutte le arti mai prodotte dall’uomo. Ed per essa questo è un ossimoro, perchè commistia il linguaggio del ready-made e la materia del prodotto industriale, entrambi elementi ben noti all’osservatore. Da qui: molte delle persone che si imbattono in un’opera d’arte contemporanea la giudicano negativamente in quanto essa è costruita con tecnica facilmente comprensibile e con materiale di uso comune. Questo fa sì che l’osservatore riconosca l’opera nel suo aspetto fisico, e non si senta distante dall’artista, in quanto praticamente in grado (nella sua profana teoria) di poter anche lui realizzare qualcosa di simile. E’ questa una grande ingenuità che rivela due cose: prima di tutto un osservatore che ha questa reazione si dimostra essere rispettoso dell’arte solo quando essa si presenta in forme non facilmente raggiungibili a livello artigianale (parlo della maestria di un Botticelli o di un Dorè), precludendo così l’accettazione di ogni forma d’arte che non rispecchia canoni concentrati sul significato, piuttosto che sul significante. Secondo: l’osservatore in questione lascia che sia qualcun’altro a dettare per lui le regole con le quali un prodotto della creatività umana ha diritto al nome di Arte, cosa che è davvero limitativa per la mente, che dovrebbe invece essere allenata a considerare il nuovo (e con questo intendo dire: soltanto capire il nuovo, non a giustificarlo o apprezzarlo).
    L’opera moderna è quindi spesso liquidata con parole simili a quelle di Raffaele, il quale probabilmente non si è mai soffermato a riflettere sul significato dell’opera moderna stessa, che è l’unica e sola cosa su cui si sorregge.
    Riconosco che è molto più facile rimanere incantati da un Van Gogh, che già tre generazioni hanno confermato essere arte, piuttosto che dagli Strange Fruits di Zoe Leonard, riconosco anche che ha ragione Marco Fidolini quando nel suo “Pustole” afferma che per far arte non basta “una semplice mossa cinetica, pur calcolata, che sposta una trave tarlata…o il cofano contorto di una vettura…allo spazio asettico e lucente di una galleria d’arte”, ma non riesco davvero ad accettare un commento così generico e qualunquista su uno dei due unici artisti che rappresentano gloriosamente l’Italia nel mondo fin troppo americanizzato dell’arte.
    Detto ciò, per non lasciar sterili le mie opinioni, propongo a Raffaele, e a coloro che la pensano come lui, due esercizi per familiarizzare con l’arte moderna.
    Il primo riguarda un opera di Cattelan stesso, costituita da una serie di scheletri animali posto l’uno sopra l’altro in una piramide dimensionale crescente. A prima vista anche il più distratto degli osservatori porta alla mente i disegni dei sussidiari riguardo l’evoluzione delle specie animali, e quando si legge il titolo dell’opera, beh…si intuisce quanto l’artista conosca l’unico e puro mezzo con cui che la natura (qualunque cosa dicano i bioscienziati d’oggi) ci ha dato per far sì che ci sia assicurata una progenie.
    Il secondo esercizio riguarda un’altra opera, ancora più semplice, di Henrik Plenge Jakobsen, costituita da cerchi concentrici di diversi colori con al centro una scritta “everything is wrong”. A prima vista sembra un bersaglio per le freccette, ma quella frase, introdotta in un vortice cromatico, rivela un enigma (e anche un piccolo trabocchetto) che schiude la mente a interrogativi degni del profondo filosofo.
    Scopo dell’arte moderna è appunto questo, lasciare l’osservatore con una riflessione in più, non con un semplice ricordo di aver visto un’altra mostra.

    E’ tutto.
    A Raffele e a chiunque legga questo commento, mi faccia sapere come sono andati gli esercizi.
    A presto!

  3. Tonino Pintacuda ha detto:

    Andrea, grazie per la precisazione. Lo spazio vuoto che deve necessariamente completare il fruitore dell’opera deve essere calibrato al millesimo, lasciarne troppo o troppo poco condanna il fruitore ad un senso di spossatezza. Quanti di noi escono da una mostra pensando “sarà arte questa? o sono io che non ci capisco una mazza?”.

    C’è da recuperare anche il senso da dare al termine arte che dal passato fulgido e chiaro di “qualunque produzione secondo regole” (techne e ars) si è sbrindellato sino a inglobare tutto e il suo contrario. Ne ho parlato di recente con lo scrittore Dadati su http://www.orepiccole.org e anche lì non volendo ammettere, sulla scia di Garroni, che l’arte non è una classe, la diatriba si secca presto.

    Nello specifico mettere animali in formalina e caricarli di chissà quali significati è uno stimole interessante, tanto che perfino un film di qualche anno fa (The Cell con Jennifer Lopez http://www.imdb.com/title/tt0209958/) era un chiaro omaggio a Hirst (la mente del serial killer in cui la psicologa si avventurava pullulava di opere che erano citazioni di Hirst).

    Nel mio piccolo ho infilato dei rubinetti in uno scanner e ho partecipato alla seconda biennale di Porto Ercole, di cui mi è rimasta incastrata un’elica ricoperta di peli. http://www.saturnismo.com/saturnisti/dicotomico/dicotomico.html

    Ritorno a Kant della Critica del Giudizio e la pretesa legittima all’universalità dei nostri giudizi estetici.

  4. Kosta ha detto:

    Preso da Internet.
    Quanto è bello Internet quando fa così!
    Piglia l’ignorante di Cattelan, come me, e lo mette di fronte a realtà sconosciute e tutte da interpretare
    L’articolo è di Christian Rocca.
    La risposta, naturalmente, è di Cattelan.
    Il mio commento – per ora sospeso – è un logorroico: “senza parole”
    Ma gustatavélla l’intervista.

    New York. Chi è Maurizio Cattelan? Ve lo dico subito. Un artista del cazzo. Lo dice lui, eh. E dice anche: “Ho la faccia da pippa”. E se non vi bastano le referenze, ecco quello che fa, anzi quello che non fa: dipinge? No. Scolpisce? No. Disegna? Boh. Ma che diavolo d’artista è? Non ne ho la più pallida idea, ma nel mondo dell’arte tutti parlano di lui. E’ l’uomo del momento. L’artista contemporaneo più acclamato e richiesto. Pensate che qualche mese fa una sua “cosa” – un’istallazione la chiamano loro ­ è stata venduta all’asta per due miliardi. E’ un Papa di cera abbattuto da un meteorite. Vi sembra scandaloso, provocatorio e tutto quanto? Guardate che è la cosa più normale che abbia fatto.
    Prima di raccontarvelo è necessaria una premessa, che aiuta a capire il personaggio. L’ho incontrato a New York, dopo una trattativa che è durata due mesi e 48 (quarantotto) e-mail. Il tono dello scambio epistolare era questo: “Caro Christian, opto per un’intervista via mail, non ti preoccupare se non sei un esperto d’arte, anch’io non ci capisco nulla”. Ottimo, ma gli spiego che vorrei incontrarlo di persona, vedere come lavora eccetera. E lui: “Non darmi questa responsabilità, sei proprio sicuro che non possiamo fare via e-mail? anche da NY se vuoi”. No, gli dico, Max mi manda a New York proprio per intervistarti di persona. E Cattelan: “Mica a Max devi mostrare le prove fotografiche che ci siamo incontrati. Tu vieni, ti fai la vacanza e facciamo tutto veloce via e-mail”. Io per conquistarlo – lo so, è un colpo basso – uso l’argomento della f… ehm delle donne: “Caro Maurizio, mi dicono che sei un pazzo criminale e truffatore e carogna. Mi sei simpatico. Mi dicono anche che non vuoi più lavorare e che cerchi il modo di avere più ragazze possibili. A Max, come sai, le ragazze non mancano”. Funziona. “Yuppppppy” è la sua risposta, anche se fiuta l’inganno: “Ma intendi quelle vere o quelle stampate?.
    Alla fine ci siamo visti, e la prova è quella sua foto con la faccia sghemba scattata con la mia digitale e pubblicata qui accanto. Ci siamo visti a New York City, a un angolo tra la Seconda avenue e la dodicesima strada.
    Tutta questa manfrina dell’intervista via e-mail ha una spiegazione. Lui è timido e odia parlare con i giornalisti. Così alle domande via posta elettronica fa rispondere un suo amico, Alessandro si chiama, che taglia e incolla i suoi pensieri già esposti altrove.
    Cattelan ha 41 anni ed è di Padova. Vive nell’East Village, il quartiere degli artisti. Ovvio. Quando l’ho incontrato aveva i jeans e una camica sbottonata. E’ alto. Portava un paio di infradito, che a New York tra i bohémien vanno fortissimo. Io speravo che mi portasse nel suo studio. Dopo un po’ siamo entrati in un bar thailandese. Niente massaggi, solo tè. Be’, più che tè era una sbobba dolciastra e spumosa, “specialità di Bangkok” dice lui. Armati di bicchieri e cannuccia ci siamo seduti su una panchina di Stuyvesant park. Dello studio nemmeno l’ombra. Gli ho chiesto dove lavora. E lui: “A casa, non ho bisogno di uno studio”. E come le fai le tue opere? “Col telefono, chiamo e dico: fatemi questo, fatemi quello. A volte mando anche un fax per spiegarmi meglio”.
    A Palermo, per esempio, ha installato “Hollywood” una gigantesca scritta come quella che abbiamo visto mille volte nei film. Solo che anziché su Sunset boulevard, “Hollywood” si affaccia sulla discarica della città. Lui ha avuto l’idea, mica si è messo a ritagliare le lettere. Un’altra volta che s’è deciso a raffigurare un Hitler in ginocchio, ha chiamato un artigiano a Parigi, lo stesso che gli aveva realizzato il Papa e l’ha installato in una galleria di Stoccolma. Successone di critica. Ad Amsterdam, un giorno, era senza idee, ma i galleristi insistevano: “Devi fare qualcosa”. Cattelan non aveva voglia: “Siete matti, in due settimane non si può fare niente be’… veramente una cosa la posso fare, ma…”. “Meraviglioso, vai avanti” gli dissero quelli. “Siete sicuri?”, ammiccò Cattelan. Non sapevano a che cosa sarebbero andati incontro. L’idea di Cattelan era questa: siccome non ho idee, rubo quelle degli altri. Noleggiò un furgone, entrò in una galleria d’arte e si impossessò delle installazioni di un artista concorrente. Come andò a finire? Lo portarono in caserma.
    “Se fosse successo qui a New York ­ mi dice ­ non sarei più uscito di galera”.
    Le leggende sulle sue “trovate” sono infinite. Gli è capitato di denunciare ai carabinieri il furto di “un’opera invisibile”, oppure di lasciare un cartello con la scritta “torno subito” sulla porta della galleria vuota. Al Castello di Rivara se l’è svignata dalla finestra con un lenzuolo. Un’altra volta ha venduto il suo spazio a un’agenzia che lanciava un nuovo profumo e con i soldi è andato in vacanza. A corto di idee, un giorno ha copiato perfettamente la mostra di un altro artista, e come se niente fosse l’ha inaugurata nella galleria di fianco.
    Ora Cattelan sta preparando uno scheletro di gatto. Avete presente quelli dei dinosauri esposti nei musei? Ecco, per una galleria di Chicago farà la stessa cosa con le ossa di un gatto formato gigante (9x7x2). “E’ un modo divertente di trasformare le cose quotidiane e domestiche in qualcosa di pauroso”. Cattelan, ma quando le pensi queste cose? “Quando prendo un lavoro non so da che parte cominciare. Mi concentro, ma non serve a niente: se pensi insistentemente a una cosa ti viene la soluzione per un’altra. Quando si avvicina la data di consegna entro nel panico, comincio a chiamare amici, vado in giro alla ricerca di uno spunto, poi sto quattro giorni a fissare una finestra e zac mi viene l’idea. La Nona ora, quella del Papa, mi è venuta a pochi giorni dall’inaugurazione: la figura era pronta, ma non mi convinceva più, la volevo distruggere. E allora m’è venuto in mente di abbatterla con il meteorite”. E hai fatto due miliardi. “Io non ho preso una lira, quando è stata messa all’asta non era più mia”.
    Con i galleristi, Cattelan ha un rapporto particolare. C’è chi dice che si diverta a torturarli. Una volta ha costretto due pover’uomini a pedalare come forsennati su una bicicletta-dinamo che dava energia alle luci della sala. “I galleristi ­ dice ­ sono strumenti, così come le cose che devo fare, e dal momento che accettano di lavorare con me cerco di portarli sul mio terreno”.
    Con l’ironia e la dissacrazione, Cattelan sfida il paternalismo e l’autoritarismo della società. Un paio d’anni fa, per prendersi gioco delle Biennali d’arte dove lui ormai è una star, ha organizzato la Biennale dei Caraibi. Ha trovato gli sponsor, ha invitato tutti i bei nomi dell’arte contemporanea, ha prodotto un catalogo, ha scritto i comunicati stampa, ma mostre e opere zero. Tutti al mare di St. Kitts, Caraibi.
    “Io non mi prendo sul serio, questa è la mia forma di difesa. Ho sempre odiato lavorare ­ mi racconta ­ e ora che finalmente ho trovato una cosa che mi piace mi costringono a fare l’impiegato dell’arte: devo andare di qua, di là; mi invitano, mi vogliono intervistare… Nella mia vita ho fatto di tutto: la donna delle pulizie, il postino, il becchino, il giardiniere, il cuoco, il contabile, il disoccupato, perfino il donatore di sperma, a Verona. Ora mi inseguono tutti e rimango stupefatto, perché io sono sempre lo stesso idiota di prima”.

    Il commento di Cattelan all’articolo:

    Da: [email protected]
    Data: Mon, 4 Feb 2002 14:53:21 EST
    A: [email protected]
    Oggetto: MAX SEPT 2001

    mai divertito cosi’ tanto
    bravo!

  5. Kosta ha detto:

    Ah… dimenticavo. Quant’è bello l’acquerello napoletano – tempi nostri – di Elena Buia. M’immagino il custode del Museo Archeologico di Napoli (faccia e tutto il resto da prototipo, anche letterario, dell’indolente sagacia d’una città) che, convogliando la folla dei turisti colto-sprovveduti di buon senso, risolinando li accompagna:
    “Ah… vuie vulite vedé ‘u pesce muorto de l’artista famoso? E benite accà, ca ve ce porto”.

  6. raffaele ha detto:

    Il mio problema non è l’arte contemporanea.
    Ritengo che l’espressione “arte contemporanea” sia, di per sé, piena d’equivoci e di spazi; equivoci interessanti e spazi ricchi, beninteso.
    Ma non sono mai entrato in una mostra di arte contemporanea con l’idea che “dovevo capire tutto”. Penso che sia un atteggiamento sbagliato.
    Infine non sono io ad essere importante. La mia era una osservazione marginale.
    Cattelan è un autore che ha un ambito di azione che trovo irritante. Ma che, sicuramente, è perfettamente dentro gli spazi equivoci di quelle esperienze chiamate “arte contemporanea”.
    A mio avviso si limita ad arare, con qualche genialità, aspetti e modalità del fare arte che possono essere chiamati di tipo “pubblicitario”. Operazione assolutamente legittima. Ma silenziosa, secondo me, agli aspetti emotivi della nostra mente. Almeno della mia mente.
    Il primo che compie la trasformazione dell’esperienza visiva in una esperienze di serializzazione dello sguardo, così come è nello spazio pubblicitario, e lo fa con serietà assoluta, è Andy Wharol, il quale – appunto – riespone la ovvietà del normale facendone vedere gli aspetti visivi e iconici. Oppure rovescia l’operazione e mostra tutti gli aspetti normali di quella che è stata chiamata “esperienza dell’arte”.
    C’è genialità e lavoro. Ma è, per me, un percorso freddo.
    Cattelan sta ripercorrendo questa strada con un’aggiunta di provocazione che, a mio avviso, è del tutto ovvia, è gratuita.
    Vale a dire che io trovo una grande differenza di peso, per la mia esperienza emotiva, tra la Nona ora 1999 di Cattelan, dove un Woitila inerte ed indifferente è schiacciato da una grossa pietra, e l’Innocenzo X di Francis Bacon.
    Non pretendo alcuna autorità critica; ma sono anche convinto che una tale autorità manca a chiunque. Infatti sono convinto che l’importanza di un autore in un periodo è una cosa che emerge solo ed esclusivamente dal passare del tempo.
    Io parlo solo dal punto di vista della mia fruizione, anche più immediata, emotiva e culturale di una esperienza d’arte.
    Semplicemente la Nona ora 1999 mi lascia indifferente e lievemente infastidito, papa Innocenzo X mi turba e mi colpisce. Mi stimola a riflettere ed a pensare.
    Certamente è possibile decidere che produrre oggetti d’arte, cioè fare quelle cose di cui è possibile una fruizione essenzialmente visiva, sia semplicemente produrre delle cose gradevoli o divertenti, senza che nient’altro ci sia oltre al gradevole ed al divertente.
    In fondo è quello che fa Andy Wharol ed è ciò che lo ha fatto così grande ed importante.
    Sono molto lontano dal pensare che l’avrei potuto fare anche io. Semplicemente io non l’ho fatto ed invece l’hanno fatto loro; questo è un dato di realtà che basta a se stesso.
    Il problema che però rimane è “che cosa mi dice?”. Che cosa un’opera d’arte mi racconta, racconta alla mia esperienza emotiva.
    Quando guardo le cose che ha fatto Louise Bourgeoise resto sempre preso dalla potenza emotiva di queste cose. Impressione che Cattelan non mi dà mai.

    Dopodiché cercare di definire che cosa oggi è “arte”, con tutta la solennità che noi storicamente attribuiamo a Michelangelo o a Caravaggio, mi sembra una operazione del tutto perdente.
    È arte, oggi, a mio avviso, tutto quello che noi – un noi sociale ed anonimo – decidiamo sia arte e che ha, dietro di sé, una quantità sufficiente di lavoro, di riflessione, di elaborazione.
    Naturalmente e sempre con tutti i dubbi che, da una ricerca sempre aperta di continuo arrivano.

    “Cogne et foutre,
    dans l’infernal brasier où plus jamais la question de la
    parole ne se pose ni de l’idée.

    Cogner à mort et foutre la gueule, foutre sur la gueule,
    est la dernier langue, la dernier musique que je
    connais,
    et je vous jure qu’il en sort des corps
    et que ce sont des CORPS animés.”

    Che cos’è che fa di questo testo di Antonin Artaud, che praticamente chiude “Suppôt et suppliciations”, un testo di poesia ? Il fatto che lo ha scritto Artaud? O altro?

    Credo sia una decisione che oggi dobbiamo prendere ogni volta che ci troviamo davanti ad una cosa che si presenta come “esperienza emotiva”. Senza affidare una tale decisione a nessun tecnico, il quale manca del tutto. Secondo me, ovviamente. Ma che in realtà manca comunque, pure se io non fossi d’accordo.
    Ovvero, il fatto di essere, sostanzialmente, autogiustificati nel fare un lavoro che appartiene alla sfera della esperienza emotiva è qualcosa ci mette nel dovere di esprimere, con la massima precisione possibile, quale è il senso del lavoro che facciamo rispetto a ciò che si muove attorno a noi. Ovvero si tratta sempre di scegliere la nostra posizione rispetto al mondo.
    Attorno a noi si muovono certamente cose come conti in banca e belle case. Ma anche molto dolore.
    La scelta tra il primo ambito di cose del mondo ed il secondo è una scelta libera e legittima.
    Come libera e legittima è la scelta di chi seleziona i suoi interessi, e le ragioni con cui giustifica quella scelta.

    Ciao
    raffaele

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