La Tavola di Cebète
La vita dei testi dipende essenzialmente dal riuso; infatti solo i libri che continuano ad essere letti e studiati attraversano il tempo, sono sempre vivi, mentre altri cadono nell’oblio. Questa sorte è toccata, per ragioni ancora da chiarire, alla Tavola di Cebète, per lungo tempo, sicuramente dalla fine del Quattrocento agli inizi del Novecento, molto diffusa e famosa come strumento per esercitarsi nello studio del greco antico, grazie soprattutto alla chiarezza e semplicità dell’espressione, e molto utile per la riflessione personale e la formazione individuale. L’autore della Tavola, per ragioni linguistiche e di altra natura interne all’opera stessa, non può essere il discepolo di Socrate vissuto nel V sec. a. C., ma è ragionevole supporre che sia uno sconosciuto del I o II sec. d.C. che abbia voluto dare prestigio alla propria opera nascondendosi dietro il nome di un personaggio illustre del passato.
Davvero interessante è il contenuto di questo testo, di carattere morale, in veste allegorica. In sintesi possiamo dire che la Tavola, descrizione di un quadro che rappresenta la vita umana, è una pittura fatta con le parole. Protagonisti sono alcuni stranieri (il narratore e i suoi amici) che si sono fermati a contemplare una tavola votiva davanti al tempio di Crono, in una città non precisata. Essi si trovano in difficoltà per la comprensione delle immagini, ma per fortuna interviene un vecchio che illustra loro le scene allegoriche del dipinto. Questi è carico d’anni, e quindi di esperienza e di sapienza, e ha avuto la fortuna, in gioventù, di ascoltare la spiegazione della tavola direttamente dal dedicatario del tempio e della tavola stessa. Innanzitutto fa osservare che nell’immagine è raffigurato un recinto, che al suo interno ne contiene altri due di misura decrescente. C’è una porta che immette nel primo, presso la quale una gran folla aspetta di entrare. Il vecchio, con l’aiuto di una bacchetta, spiega agli stranieri che questo luogo si chiama Vita. E la gran folla che sta presso la porta sono gli uomini che stanno per entrare nella Vita (IV, 42). L’intero dipinto è dunque un’allegoria della vita umana, di cui ciascuno dei tre recinti rappresenta un momento decisivo. Infatti l’ingresso nel primo, simboleggia la nascita, e la permanenza al suo interno il tipo di vita proprio dell’uomo del vòlgo, in balia delle Opinioni, delle Brame e della Voluttà, che lo spingono ad accondiscendere ai vizi (Intemperanza, Ingordigia, Prodigalità, Lusinga), personificati da donne attraenti che ingannano con il dono apparente della felicità, ma che poi inesorabilmente portano all’Afflizione, alla Mestizia, alla Disperazione e all’Infelicità. Chi vaga in questo primo recinto, preda dei piaceri e dei vizi, è vittima di profonda ignoranza: infatti, varcando il primo recinto, tutti hanno ricevuto la Frode, tramite una bevanda apportatrice di errore e ignoranza, capace di vanificare i suggerimenti che il Demone, cioè la voce della coscienza, aveva dato a ciascuno nel momento in cui stava entrando nella vita per indirizzarlo sulla strada della salvezza. Il Demone e la Frode sono l’allegoria di due disposizioni innate in ogni uomo, come dimostra il fatto che si trovino all’esterno dei recinti, cioè fuori della vita. Negli uomini infatti ci può essere una disposizione al bene e una al male: a volte predomina l’una e ci si salva, ma quando l’ignoranza dei beni e dei mali conculca la predisposizione alla virtù, e non interviene l’educazione in funzione correttiva, allora la perdizione è assicurata. Per effetto della bevanda offerta dalla Frode l’uomo ha le facoltà di giudizio annebbiate ed è indotto a fidarsi della Fortuna, che, in piedi su una pietra rotonda, ora dà ora toglie, rendendo insicuro chi ha riposto in lei ogni aspettativa di felicità. Coloro che, abbandonati dalla Fortuna, hanno esaurito tutti i piaceri offerti dai Vizi, cadono in uno stato di profonda prostrazione, che li porta all’Infelicità. Ma saranno proprio le sofferenze, i travagli e le delusioni, che deriveranno da questa condizione, che potranno determinare in alcuni una Conversione, grazie alla quale essere capaci di allontanarsi dalla strada del vizio ed uscire dal primo recinto. Per raggiungere questa presa di coscienza, bisogna necessariamente aver subito le conseguenze dell’ignoranza che porta a confondere il bene con il male, per cui questa decisione può maturare solo dopo aver subito le conseguenze di una vita corrotta e traviata. Può insomma avvenire un cambiamento d’opinione che induce ad una svolta nella propria vita per avviarsi verso una delle due Culture, la Falsa e la Vera, la prima fondata sulle conoscenze nozionistiche delle arti liberali (qui elencate per la prima volta), la seconda di carattere morale, basata su una scala di valori. Infatti sulla soglia del secondo recinto c’è un’altra donna ad attendere coloro che giungono: è la Falsa Cultura, figura ambigua, solo apparentemente salvifica, ma in realtà incapace di far raggiungere a quanti si trattengono con lei la Vera Cultura, unica in grado di far conquistare la Felicità. Ad accontentarsi della Falsa Cultura sono i dotti, cioè i poeti, i retori, i critici, i dialettici, i musici, i matematici, i geometri, gli astronomi, oltre ai seguaci di due indirizzi filosofici (gli edonisti, i peripatetici), citati con intento chiaramente polemico, e tutti i loro simili che non capiscono che costei può solo fornire strumenti per allontanarsi dagli errori del primo recinto e raggiungere più in fretta il terzo, dove avverrà un’ulteriore Conversione. In verità le discipline che si possono apprendere presso la Falsa Cultura non è che siano del tutto inutili per pervenire alla Vera Cultura, anzi possono perfino accelerare il viaggio, ma non sono necessarie, perché anche chi ne è completamente digiuno può raggiungere l’ingresso del terzo recinto. Le discipline liberali possono dunque dare un impulso verso la Vera Cultura, ma di per se stesse non contribuiscono al miglioramento dell’uomo. È chiaro infatti che non si è virtuosi perché musici, poeti o astronomi, ma perché si è appreso il modo di comportarsi nei confronti di tutto ciò che proviene dalla Fortuna e si conosce la via da percorrere per riuscire a liberarsi dai vizi e dalle passioni. Solo coloro che capiscono che le arti liberali sono di per sé insufficienti, si ravvedono e si mettono in marcia per l’aspra salita che li porterà alla Felicità. La strada che conduce all’ultimo recinto è uno scosceso percorso sull’orlo di profondi precipizi e passa accanto ad un’alta rupe, dalla quale le sorelle Continenza e Sopportazione incoraggiano i pochi che sono riusciti ad arrivare fin lì anche prospettando loro i futuri benefici che presto raggiungeranno. Finalmente si arriva sull’altura, dove in una verde pianura, piena di fiori e di luce, vi è il terzo recinto, più piccolo degli altri, in quanto destinato a pochi. Il suo nome è Dimora dei Felici, dato che è abitato solo da coloro che hanno ottenuto dalla Felicità il premio della corona dei vincitori, capace di rendere davvero felici. Prima di poter entrare bisogna però passare presso la Vera Cultura, che sta ben salda su una pietra quadrangolare, e che possiede il farmaco capace di liberare l’uomo dall’ignoranza e dagli errori ricevuti dalla Frode e da tutti gli altri mali della vita. Solo quando si è acquisita la Vera Cultura, che è “la scienza di non dover patire più niente di male nella vita”, si può entrare nel recinto, dove tutte le Virtù portano l’uomo al traguardo agognato: la Felicità. Questa Vera Cultura, che consiste nel coraggio e nell’assenza di timore, deve diventare per i pochi che l’hanno conquistata un abito permanente, uno stile di vita. Chi arriva a questo traguardo è accolto da uno stuolo di Virtù, tutte sorelle, che lo accompagnano dalla loro madre, la Felicità, che gli pone in capo la sua potente corona, imitata dalle Virtù, che celebrano il nuovo beato come colui che ha vinto la più ardua delle battaglie, l’essere cioè diventato libero, padrone di se stesso, capace di totale autocontrollo. Purtroppo quelli che riescono a raggiungere la Felicità sono davvero pochi per cui, quanti hanno mancato questa meta, li diffameranno e scherniranno, sostenendo che la loro non è la vera felicità, ma una misera vita di rinunce e privazioni. Per questo ci vuole coraggio per abbandonare tutte le comodità della vita dei primi due recinti e decidere di intraprendere quell’ascesa così faticosa, che porta al terzo, e ci vuole anche fermezza a soppor
tare le angherie e le calunnie di coloro che non riescono a capire questa scelta non certo alla portata di tutti, ma destinata a coloro che saranno per gli altri anche medici dell’anima, capaci di sanare quelle ferite che difficilmente vengono riconosciute.
Alla fine della spiegazione del vecchio lo straniero è entusiasta di quanto ha appreso e si appresta a considerare da un’altra prospettiva tutta la sua vita passata per avviarsi ad una scelta: risolversi ad intraprendere la salita difficile verso la Vera Cultura per raggiungere la Felicità. Indubbiamente intento dell’autore della Tavola è che questo sia anche lo stato d’animo di ogni lettore che è arrivato fino in fondo a quest’opera scritta chiaramente con l’intento di contribuire al miglioramento dell’uomo.
Aver recuperato questo testo per la pratica scolastica è certo molto importante, in quanto esso serve a dare ai giovani occasioni di riflessione morale e di costruzione della propria persona, passando attraverso il miglioramento della conoscenza del greco antico, per cui è davvero meritorio il lavoro di Alessandro Barbone e Tommaso Francesco Bòrri che l’hanno recentemente (2008) reso disponibile nell’ambito della Biblioteca Greca delle Edizioni dell’Accademia Vivarium Novum con ampio commento e gradevoli illustrazioni.
La Tavola di Cebete inoltre ha grande rilievo dal punto di vista culturale, perché, anche dalla semplice esposizione, ci rendiamo conto di quanti temi e motivi (non tutti certo originali) siano filtrati nel mondo letterario e siano diventati possesso perenne tanto da ricomparire vistosamente nella Divina Commedia, anche se Dante non l’aveva di certo letta.
Bellissimo questo pezzo sulla Tavola di Cebète! Che splendida e veritiera rappresentazione della vita di ognuno. Grazie, Rosa Elisa.
Mi permetto di risponderti con alcuni versi di Giovanni Testori che sono il grido di uno di quelli che ha tentato l’ascesi dell'”aspra salita”. Non si arriva alla cima senza un grido verso l’alto, senza tendere una mano verso una mano invisibile che ti aiuti a salire. Testori lo sapeva bene, poeta che tanto ha patito e gioito nell’incedere verso la “dimora dei felici”, così consapevole dei “profondi precipizi” lungo la strada che porta alla “alta rupe” di cui ci parla la Tavola di Cebète.
Verità
antica e qui presente eternità,
verbo creante,
poi creato in carne!
Memoria,
realtà,
ritorna in me,
in noi,
in loro!
Disfa la nebbia
dell’inganno.
(Giovanni Testori)