Viaggio attraverso l’Eneide VII
Dopo aver sepolto la nutrice Caieta sul lido, ove poi sorgerà la città omonima, i Troiani riprendono il mare ed Enea con la flotta si dirige verso settentrione, costeggiando il litorale dominato dal monte Circello, ove Circe tesse e canta circondata dagli animali in cui ella ha trasmutato gli eroi già suoi ospiti. Sul far dell’aurora, il vento diminuisce tanto che bisogna procedere a forza di remi. Ed ecco che sulla costa appaiono dei folti boschi attraversati da un fiume dalle bionde acque che poi si getta nel mare. Enea allora entra in quella foce con la sua flotta.
A questo punto Virgilio, iniziando la seconda parte del poema, interrompe la narrazione per dar spazio ad un’invocazione alla Musa affinché lo ispiri nel cantare il Lazio antichissimo e la guerra che allora vi fu combattuta. Quando riprende la narrazione, racconta che regna in questo momento sul Lazio il vecchio re Latino, figlio di Fauno, nipote di Pico, pronipote di Saturno. Sua figlia Lavinia è fidanzata con Turno, ma alle nozze si oppongono due prodigi celesti avvenuti qualche tempo addietro: un immenso sciame di api venuto a posarsi sul lauro della reggia, e una fiamma prodigiosa che, pur senza farle male, ha avvolto le chiome e tutta la persona della fanciulla. Il re si era allora recato ad interrogare l’oracolo del padre Fauno, alla fonte Albunea, presso Tivoli; qui, fatti i rituali sacrifici, si era sentito rispondere che non doveva accettare per la figlia nozze latine, perché il genero a lui destinato sarebbe venuto da fuori: da questo connubio sarebbe discesa una stirpe alla quale i Fati assegnavano il dominio del mondo. Questa fama correva per il Lazio quando i Troiani approdarono alle foci del Tevere.
Scesi a terra i naufraghi si concedono un pasto frugale dando fondo alle loro ultime provviste che pongono su focacce di frumento che usano come piatti. Quando poi, non sazi del loro misero pasto, si accingono a mangiare le focacce stesse, Enea udendo il figlio Iulo che ingenuamente esclama:”Guarda! Mangiamo anche le mense!”, capisce che si sta avverando la profezia di Celeno che gli era sembrata tanto enigmatica e capisce che ormai è arrivato a destinazione: quella è la terra che avrebbe rappresentato la fine del loro peregrinare e dove avrebbero dovuto innalzare le mura di una grande città. Saluta quindi la terra promessa, liba a Giove ed invoca tutte le divinità. A quest’annunzio una grande letizia si diffonde tra i Troiani. Il mattino seguente, mentre i nuovi venuti esplorano i luoghi circostanti, Enea manda al re Latino un’ambasceria di 100 guerrieri per offrire pace e doni. I messi vengono fatti entrare nella reggia, dove ammirano le immagini degli avi latini e, appese alle pareti, armi e spoglie di guerra. Il re Latino, che vive nell’attesa della promessa dell’oracolo, accoglie benevolmente l’ambasceria e dice loro che se sono approdati nel Lazio per necessità di sosta, avranno cordiale accoglienza. Egli sa chi sono e ricorda Dàrdano che dall’Italia, in tempi remoti, era partito ed aveva raggiunto la Frigia. Come già da Didone, è Ilioneo, il più anziano, a prendere la parola; dice che non sono giunti per necessità di sosta, bensì per volontà loro: da quando cadde il regno di Troia, sono fuggiti dalla loro patria e sono stati qui indirizzati da comandi divini. Ricorda poi come il progenitore dei Troiani sia stato Dardano e come essi, nonostante numerosi popoli abbiano desiderato accoglierli, abbiano preferito assecondare la volontà divina e raggiungere il Lazio. Ascoltandolo Latino pensa che questo sia il popolo annunciato e che Enea sia il genero straniero promesso dai vaticini. Per questo offre amicizia e alleanza, insieme alla possibilità di stanziarsi nel Lazio. Invita Enea stesso a venire da lui per stringersi la destra in pegno di fede. Promette anche di dargli sua figlia Lavinia in sposa per assecondare il volere dei Fati. Poi congeda i Troiani, dando a ciascuno un cavallo e ricchi doni. In particolare per Enea dà un cocchio e due splendidi cavalli, entrambi di origine divina.Intanto Giunone solca il cielo alla guida del suo cocchio alato, di ritorno da Argo, quando vede le navi troiane in secca e i Troiani stessi alacri ed intenti alla costruzione della loro nuova città. Il suo dispetto a questo punto è immenso. Ricorda tutti gli intralci che inutilmente ha creato ad Enea e si rode per il cruccio; non sapendo che altro ormai poter fare, decide di suscitare contro di lui le forze dell’Averno, di modo che una terribile guerra almeno ritardi, se non può impedire, la costituzione del regno dei Troiani nel Lazio. Per questo la dea scende sulla Terra, evoca Aletto, la maggiore delle Furie, e la prega di suscitare tra i Latini stessi, oltre che tra i Latini e i Troiani, tutte le cause possibili di discordia, seminando occasioni di guerra. Aletto obbedisce prontamente. Dapprima si reca presso la regina Amata, moglie di Latino e madre di Lavinia, e le insinua in seno uno dei suoi serpenti, occasione di inquietudine e di sospetto. In principio l’azione è lenta: la regina inizia a dolersi, piangendo, con il marito per la sua decisione riguardo alle nozze della figlia e difende la causa di Turno. A poco a poco l’azione del veleno si fa sempre più profonda: la regina dà in smanie, corre per la città urlando, simile ad una Baccante ebbra, e, dopo aver nascosto la figlia nei boschi, raduna intorno a sé le donne latine, che con lei si abbandonano ad uno sfrenato baccanale.
Rallegrandosi per questa sua azione, Aletto si reca ad Ardea, dove vive Turno, principe dei Rutuli e pretendente di Lavinia; gli appare in sogno in aspetto di un’anziana custode del tempio di Giunone e lo incita a suscitare e muovere guerra. Ma Turno si prende beffe della vecchia, dicendole che egli sa ciò che è avvenuto, ma asserisce anche di non temere nulla e di confidare in Giunone. Allora Aletto gli si mostra nel suo vero aspetto e con violenza gli annuncia guerra e morte. All’improvviso Turno si accende di folle ira e cerca armi ovunque; poi incita tutti i suoi all’insurrezione. Aletto continua intanto la sua azione provocatrice. Aizza i cani di Iulo dietro un cervo pazientemente e amorevolmente addomesticato da Silvia, figlia di Tirro, custode degli armenti del re e fa in modo che l’animale sia ferito e torni gemente al suo stabbio. Alle grida disperate di Silvia, si radunano pastori ed agricoltori armati di randelli, pali e ogni altra specie di armi. Alla loro testa si pone lo stesso Tirro, brandendo una scure. A questo punto Aletto compie un’ultima azione sovvertitrice: salita sopra un’altura, getta con il corno l’allarme. Questo rimbomba lontano e altri coloni accorrono dai dintorni. Così tra loro e i Troiani s’ingaggia una mischia feroce: le armi balenano e colpiscono. Cade un figlio di Tirro, muore insieme a molti altri il vecchio e ricco Galeso. La Furia Aletto si presenta allora a Giunone e la informa che la guerra ormai è accesa, ma se lei lo vorrà, farà ancora altro. Giunone, temendo le ire di Giove, la congeda. Aletto si cala allora nella valle dell’Ampsanto e s’inabissa negli inferi.
La turba dei pastori in armi si riversa tutta in città, con i morti e i feriti. Intorno alla reggia si crea un gran tumulto, di cui Turno è capo e fomentatore. Tutti invocano a gran voce la guerra con i Troiani, ma Latino resiste. Grida che la tempesta incombe su tutti, ma che Turno dovrà pagarne il fio, dopodichè lascia ad altri il governo e si rinchiude nella reggia. Già allora vigeva nel Lazio l’uso secondo cui, quando una città decretava guerra, il capo stesso apriva le porte del tempio di Giano, ma allora il re Latino non volle farlo, per cui Giunone stessa scese dal cielo e le spalancò. A questo punto tutta l’Ausonia è in fiamme; tutti si esercitano al combattimento; tutti ripuliscono e temprano armi e armature. Cinque città contigue (Atina, Tivoli, Ardea, Crustumero, Antemna) diventano officine: l’amore dei campi si è mutato in amore per le armi.
A questo punto Virgilio si rende conto c he il suo poema sta assumendo una più impegnativa materia, per cui rivolge la sua invocazione alle Muse affinché lo ispirino a cantare degnamente gli eroi e le battaglie di cui saranno protagonisti. Poi dà inizio alla rassegna degli eroi.
I primi duci menzionati sono Mezenzio, già re della città etrusca di Agilla, da cui era stato espulso con una sollevazione popolare a causa della sua violenza, e suo figlio Lauso. C’è anche Aventino, figlio di Rea ed Ercole, con le paterne insegne sullo scudo. Ci sono poi Catillo e Cora, fratelli di Tiburte, fondatore di Tivoli, nipoti di Anfiarao, re di Argo. Ecco poi Ceculo, il fondatore di Preneste, con una moltitudine armata rusticamente, solo con giavellotti e con fionde. Ed ecco ancora Messalo, figlio di Nettuno; lo segue una schiera allineata e inneggiante al proprio sovrano: sono Fescennini, Equi Falaschi e altre popolazioni che vivono nelle zone dominate dal monte Soratte e dal monte Cimino. Viene poi Clauso, coi Sabini, dalle regioni montuose a nord-est di Roma fino agli Abruzzi; è il popolo da cui ebbe origine in Roma la gens Claudia. Sono così numerosi che la terra stessa ne trema. C’è poi Aleso, già compagno di Agamennone, stabilitosi in Italia dopo la guerra, con schiere delle terre massicce e campane. C’è anche Ebalo, figlio di Telone re di Capri, che conduce i nuovi popoli da lui soggiogati, quelli dei paesi lungo il Sarno. Ecco Ufente, a capo degli Equi, bellicosi e cacciatori. È un sacerdote quello che guida le genti della regione dei Marsi, intorno al lago Fucino; si chiama Umbrone, ma le sue preghiere e le sue arti mediche non varranno a salvarlo, in guerra, dalla morte. E veniva anche Virbio, figlio della ninfa Aricia e di Ippolito, nato dopo che questi era stato ridonato alla vita da Diana, grazie a dei prodigiosi farmaci: ad ucciderlo erano stati i cavalli del padre Teseo, che l’aveva maledetto per le calunnie di Fedra. Tra i primi c’è Turno, alto più di tutti gli altri comandanti, con armi istoriate: sull’elmo ha una Chimera, sullo scudo la storia di Io, figlia di Inaco. Lo seguono gli armati del Lazio costiero, dalla foce del Tevere a Terracina, cioè i Rutuli. Infine si nota Camilla, vergine guerriera con uno stuolo di Volsci: non ama i lavori femminili, bensì la guerra. È snella e agilissima, per cui tutti l’ammirano anche per come portava il mantello di porpora, la fibbia d’oro nei capelli, la faretra licia e la verga di legno di mirto.
Questo canto rappresenta il punto di saldatura tra la prima parte (troiana) e la seconda parte (romana) del poema. In esso i fati di Enea sono fatti corrispondere agli oracoli latini (sciami di api che si raggruppano sul ramo del lauro coltivato nella reggia di Latino, incendio innocuo delle vesti di Lavinia, responso di Fausto), che preannunciano la sua venuta ed il suo trionfo. Si ha inoltre una chiara e vivida rappresentazione del Lazio antico con le sue genti vigorose e agresti.
A cura di Maristella Garofalo
avete fatto 2 errori di ortografis: Aletto (si scrve cn una “L”sola, e il popolo di Turno sono i RUTULI..non i rutili…
giuli tu hai fatto 3 errori cioè : Ortografis, scrve, e non hai chiuso la parentesi.
Quindi prima di parlare e giudicare pensa, idiota.
giuli e sis
Fra la forma e il contenuto, accidenti al meglio.
questi riassunti sono semplicemente perfetti..almeno per me!!!