La persistenza del vuoto

Racconta Platone nel Teeteto che «Talete (…) mentre studiava gli astri e guardava in alto, cadde in un pozzo. Una servetta di Tracia, spiritosa e graziosa, lo prese in giro dicendogli che si preoccupava tanto di conoscere le cose che stanno in cielo, ma non vedeva quelle che gli stavano davanti e tra i piedi».

Dovremmo dire alla servetta trace che, in realtà, non c’è nulla da scherzare, e non solo per simpatia nei confronti del buon vecchio Talete. Forse la distrazione di Talete e il suo cadere nel pozzo lo ha portato ad osservare gli astri da una prospettiva diversa e a scoprire qualcosa di nuovo e di affascinante.

D’altronde i buchi del terreno sono oggetto di studio di una disciplina specifica, la speleologia, che appunto «studia le grotte o caverne naturali, la loro origine ed evoluzione, fenomeni fisici, biologici e antropici che vi sono svolti e che vi si svolgono». E allora il vuoto, qualcosa da evitare (il pozzo di Talete) e a volte da riempire (le buche nelle strade!) diventa qualcosa da sondare, da esplorare, da studiare: un vuoto che ha uno spessore e che può aiutarci a capire molte cose, ad esempio, sulla natura del nostro pianeta.

Anche le storie contengono dei buchi, come accade nel celebre romanzo L’amico ritrovato di Fred Uhlman. L’amicizia tra Hans, figlio di un medico ebreo, e Konradin, figlio di una ricca famiglia aristocratica, è bruscamente interrotta nel 1933, quando a causa dell’incombere del nazismo Hans parte in America e vi rimane per trent’anni. Non sappiamo nulla di cosa sia successo a Konradin e ai suoi compagni in Germania in quei terribili anni. Per noi c’è un buco nel racconto. E nemmeno Hans sa cosa sia successo; tranne il fatto che la sua vecchia scuola e la casa del suo amico è divenuta un cumulo di macerie. Anche per Hans c’è un buco: nella sua vita. Un vuoto che gli anni trascorsi in America non hanno riempito né appiattito. Un vuoto invisibile ma persistente. Hans non sa cosa sia successo, in quei fatidici anni, al suo caro amico Konradin.

Quando Hans riceve da parte del suo vecchio liceo una richiesta di fondi per l’erezione di un monumento funebre con una lista dei nomi di tutti gli studenti, il suo primo impulso è quello di buttare l’opuscolo nel cestino.

Ma il vuoto interiore di Hans, invisibile ma persistente, represso ma ostinato grida di essere colmato.

Hans si fa coraggio e apre l’opuscolo.

«VON HOHENFELS, Konradin, implicato nel complotto per uccidere Hitler. Giustiziato».

Queste poche, lapidarie parole chiudono il romanzo e danno una risposta -nel bene e nel male- al vuoto del racconto e al vuoto della vita di Hans.

Ogni vuoto ha una sua storia e, in un certo senso, non è mai veramente vuoto. Spesso è un vuoto che si fa presenza, che reclama il suo diritto di esistere. È un vuoto pieno di significato. Ed è un vuoto che, inevitabilmente, condiziona anche tutto quello che c’è al di là o al di fuori di esso.

Nei quattro Vangeli– seppur con le dovute, numerose differenze in vari punti del racconto- le donne si recano al sepolcro e lo trovarono vuoto: il corpo di Gesù non c’è.

Nel Vangelo di Luca 24, 1-6 si dice:

Il primo giorno dopo il sabato, di buon mattino, si recarono alla tomba, portando con sé gli aromi che avevano preparato. Trovarono la pietra rotolata via dal sepolcro; ma, entrate, non trovarono il corpo di Gesù. Mentre erano ancora incerte, ecco due uomini apparire vicino a loro in vesti sfolgoranti. Essendosi le donne impaurite e avendo chinato il volto a terra, essi dissero loro: “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato.

Nel racconto dei Vangeli le donne provano stupore e paura. Il vuoto mette angoscia, ma il sepolcro di Gesù non è vuoto di morte ma pienezza di Salvezza perché Gesù è risorto e ha vinto la morte. È proprio il vuoto del sepolcro di Gesù ad infondere un senso alla sua predicazione. Paolo nella Prima lettera ai Corinzi, 15, 14 scrive: «Ma se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la vostra fede».

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