In molti giorni lo ritroverai
“In molti giorni lo ritroverai” è il verso di Qohèlet che Erri De Luca traduce in modo originale e sceglie come titolo del suo ultimo libro: ultimo per me, nel senso che è quello che ho acquistato per ultimo, ma non so se nel tempo trascorso tra la data di pubblicazione, maggio 2008, e questo mio tentativo di presentazione, lo Scrittore, puntuale come pochi nel mandare in libreria le sue <testimonianze di vita> ad intervalli regolari, ne abbia pubblicati altri.
Il Libro è l’intervista che Massimo Orlandi ha fatto ad Erri De Luca nell’incontro con la Fraternità di Romena: all’inizio egli pone, dopo le brevi notizie su Erri, quelle su Romena, ed ancora prima, ad apertura, la storia di quest’incontro più volte richiesto.
“Più volte, nel corso degli anni, abbiamo mandato a Erri segnali della nostra voglia di incontrarlo. Troppo timide le richieste, scarsamente convincenti gli ambasciatori o, forse, poco maturi i tempi”.
Intanto però continuava il rapporto con la Fraternità, “lo stupore dell’incontro a distanza generato dalla scrittura”, che Erri, con la sua capacità di creare immagini piene di significato, definiva un “versare vino in un bicchiere lontano”. Vino evidentemente buono se ha sostenuto per anni un’attesa “viva, senza enfasi”.
“La nostra non è mai stata ammirazione, dice Massimo, delineando bene la natura di questo rapporto: “quella presuppone uno scalino sul quale Erri non è mai salito né noi lo abbiamo messo. Neppure amicizia” … “In questo rapporto a distanza noi abbiamo semplicemente sentito che l’autenticità di Erri ci parlava, parlava a ciascuno di noi, parlava alla Fraternità e al suo camino. Ascoltarlo ci apriva spazi fertili ed inattesi”.
E ad un certo punto Erri “ha semplicemente risposto di sì … Per la prima volta il bicchiere era vicino”, dice Massimo, riprendendo l’immagine di Erri. “Ciò che lo ha riempito è tutto in queste pagine”, poco più di 80, divise in 16 capitoletti, introdotti da una frase tratta dai libri dell’Autore: i primi tre sono dedicati all’introduzione e alla presentazione dei due dialoganti, Erri e i componenti della Fraternità, di cui ho parlato prima, i rimanenti all’intervista in cui l’Autore campeggia perché le domande, lo sottolinea Massimo “sono quasi solo un innesco alle sue risposte”.
Tre capitoli sono dedicati alla storia di Erri, le radici napoletane, l’infanzia di ragazzo silenzioso ma osservatore e soprattutto ascoltatore attento ed insaziabile, il rapporto con i libri e l’orizzonte aperto sul mare.
“Ero un bambino blindato e mi aiutava nella blindatura il fatto che mio padre era appassionato di libri. … Nella sua stanza di libri dove ho dormito per tutta l’infanzia e l’adolescenza, … mi sono chiuso dentro, dentro l’italiano. Allora a Napoli il napoletano era obbligatorio, tutti lo dovevano parlare. … Il napoletano stava fuori, l’italiano dentro, in casa: stava nei libri … e se ne stava zitto, … molto attraente per me. Sicché sono diventato pratico di quell’italiano e ho amato quella lingua perché era muta”.
E poi il rapporto con il mare, liberante: “Ho avuto la fortuna di passare le estati sull’isola d’Ischia”, l’isola a cui ha dedicato un libro bellissimo, L’isola è una conchiglia, vedendola come un serbatoio di storie, sempre pronto a riversarle di nuovo nell’orecchio di chi sa ascoltare.
“Per me quello era il luogo della libertà pura, la più sconfinata, dove l’orizzonte si apriva e si perdeva, dove tutte le direzioni erano possibili, tutte le vie di fuga”.
Nel capitoletto Rivoluzioni, Erri comunica il suo stato d’animo nel distacco da “quella specie di origine forte per la formazione del carattere” con un’immagine incisiva, un “dente che si cava da una mascella e non riesci più a piantarlo in nessun’altra gengiva”. Parla poi della su esperienza di “militante rivoluzionario”, consapevole di essere finito quasi per caso nella “fiumana” rivoluzionaria, ma anche di aver dato, insieme ai giovani della sinistra, il proprio contributo a quel mondo che cambiava, nel quale era stato dato loro di vivere.
All’esperienza di militante rivoluzionario conclusa nell’autunno del 1980, segue l’esperienza di operaio, raccontata nel capitolo, Mani di operaio, ad introduzione del quale è posta una bellissima frase tratta da Tre Cavalli sul palmo della mano che torna fresco perché “il sarto della notte cuce pelle, rammenda calli, rabbercia gli stappi e sgonfia la fatica”. “L’esercizio della manualità mi ha insegnato ad avere più rispetto della mano”, dice Erri, non “semplice terminale del flusso di pensieri, ma direttore d’orchestra, che dà il tempo ai pensieri”.
Due capitoli raccolgono i ricordi dolorosi di tragedie del nostro tempo: la guerra in Bosnia, che lo Scrittore ha potuto vedere da vicino andando in quella regione come autista di convogli umanitari, e le storie di migranti che egli definisce “una grande epopea”, sognando “che spunti un Omero a raccontarla, perché nei confronti di quest’avventura così grande non basta il racconto, il romanzo, ci vuole un poeta che la scriva sotto forma epica”.
Nel capitolo dedicato alla guerra c’è il commosso ricordo del poeta di Sarajevo, Izet Sarajlic, che egli considera quasi modello, “perché è rimasto tra la sua gente”, punto di riferimento degli intellettuali alla ricerca di un ruolo e di un compito: “Quando mi chiedono che cosa devono fare gli intellettuali, dico che secondo me non devono fare proprio niente di speciale, tranne che condividere la penitenza della propria gente”.
Di lui ricorda una struggente poesia per la donna della sua giovinezza, scritta dopo la morte di lei:
“Quei due abbracciati
sulla riva del Reno a Gothlieben
potevamo essere anche tu ed io,
ma noi due non passeggeremo mai più
su nessuna riva abbracciati.
Vieni, passeggiamo
almeno in questa poesia”.
Una parte rilevante è dedicata ai libri, alle storie, ed a quel libro dei libri che è la Bibbia nella cui lettura Erri è impegnato in prima persona: “Mi sveglio tutte le mattine in ebraico antico … e così mi introduco dentro una giornata nuova. Quello per me è il largo. Uscire dallo stretto, dal chiuso, dal buio della notte in cui dormo come un morto …. e poi la mattina avviene la resurrezione con l’ebraico antico”. … “Quando leggo la Scrittura Sacra, lì sono proprio al largo, sono ospite di quegli spazi e di quella lingua che, pur essendo come un’isola, molto circoscritta -l’antico ebraico ha poco più di 5000 vocaboli – eppure contiene tutte le vie del deserto percorribili, tutti gli isolamenti possibili”.
E alla domanda di Massimo come possa avvenire l’incontro tra Dio e l’uomo, risponde che non c’è che l’ascolto: “<Ascolta, Israele. Adonai è il tuo Dio> … <Ascolta> vuol dire prima di tutto fermati … siediti se stai in piedi. Poi stai zitto sennò non puoi sentire niente. …Ascoltare cosa devi fare: <Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e in tutto il tuo fiato e in tutte le tue forze>. Per amare devi dare tutto (sennò non hai dato niente, tutto di cuore e di fiato e di forze).
Non nella sazietà, avviene l’incontro, ma quando sei vuoto, quando hai consumato tutto … nel deserto, in un posto dove non c’è nessuno, … Dio porta a zonzo il suo popolo, ma nello smarrimento lo guida, gli fa perdere l’orientamento, ma perché l’affidamento sia completo: forze, fiato e cuore”.
In Scoperte Erri racconta la storia della sua traduzione del versetto del Qoelet che dà il titolo al Libro: ci dice delle sue ricerche, della insoddisfazione di fronte alla traduzione consueta, della improvvisa scoperta propiziata da un casuale infortunio: “Quel verso così grandioso <Manda il tuo pane sopra i volti delle acque> era seguito da una seconda parte, <perché dopo molti giorni lo ritroverai> … La seconda metà del verso non mi piaceva affatto in confronto a questo grandioso liberarsi dell’indispensabile per offrirlo alla corrente senza neanche sapere a chi: metti in giro un’offerta e ritorna illesa fra le mani tale e quale?
Ma Erri scopre che in ebraico c’è scritto non <dopo molti giorni lo ritroverai>, ma “in molti giorni lo ritroverai”, cioè “quella singola offerta spontanea, a fondo perduto, senza nemmeno sapere a chi, ti verrà infinitamente restituita, ma in misura senza proporzione rispetto alla tua piccola quantità, in molti giorni. Così ho risolto quella notizia e ho chiuso quel verso di Qohèlet, la cui seconda metà era ancora più bella della prima, … un gesto a fondo completamente perduto che ti verrà infinitamente restituito da tante altre parti.
E questo mi permette anche di immaginare che il rapporto di generosità tra le persone è un rapporto che non funziona tra due. Se io faccio una cosa per te, tu non me la devi restituire, tu la devi fare ad un altro, e magari, già che ci sei, la fai a due, anche a tre se ti è piaciuto. Non la devi restituire a me. Se rimane restituita a me, rimane una cosa chiusa, tra noi, è povera, non si sparge. È come il “dopo molti giorni lo ritroverai.” … Invece, se io ti offro una cena, tu invece di restituirla a me la offri a qualcun altro che ne ha bisogno, e anche a qualcun altro che non ne ha bisogno, e fai questa mossa esterna a noi due, moltiplichi questa mossa. La fai produrre in giro”.
Alla domanda di Massimo che vuole sapere da dove vengono le sue storie, Erri risponde che esse gli vengono dall’osservazione del mondo intorno a lui, dalle cose che vede: “non invento personaggi, non me la sono sentita di aggiungere della vita posticcia a quella che già c’è: approfitto di quella che c’è e la riduco nella polvere, specie di liofilizzato, delle parole”.
Mi era sembrata inaccettabile questa indicazione delle parole come polvere nel rapporto con la realtà, poi mi sono ricordata che polvere traduce Erri la terra con cui è fatto il primo uomo da Dio, polvere ciò che resta alla fine di tutto, e l’espressione mi è sembrata ricca di significato: le parole sono la polvere con cui lo scrittore impasta e dà vita al suo mondo e lo comunica agli altri.
Due capitoli concludono il Libro, uno sul timore di Dio, “il nervo fondamentale della relazione”con Lui, “un supplemento di affidamento, nessuna pretesa di potersela cavare da soli”, di cui Erri trova l’esempio nel comportamento dei pescatori di Ischia, ricordo della sua infanzia, che andavano a pescare senza nemmeno saper nuotare, affidandosi completamente, senza la presunzione di poter collaborare alla propria salvezza; l’altro sull’amore: “Noi a Napoli ci mettiamo due emme, <Ammore>. Però noi a Napoli siamo generosi nel raddoppio … Napoli è una città molto fisica e sentimentale … Credo che il Dio di Israele sia riuscito a far piazza pulita di tutti gli altri perché è l’unica divinità che si è rivolta a quel sentimento della creatura umana, alla più forte energia pulita prodotta dal corpo e dalla creatura umana, che è l’amore.” …
Dio non chiede di essere cercato con l’intelligenza, la scienza, la cultura, il sapere la filosofia: “proprio non gliene importa niente, non è da quelle parti lì che vuole essere acciuffato, che vuole essere ricambiato.
Se c’è un motivo per cui quel monoteismo si è piantato dentro la nostra civiltà è per via del verbo <Amare>.
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