Figli o uomini in maschera?
La discussione ispirata dal film Into the wild nel corso dell’ultima Officina di Bombacarta mi ha fatto pensare alla storia di Hans Schnier. Figlio di una famiglia protestante tra le più ricche e in vista di Bonn nella Germania degli anni cinquanta, all’età di ventuno decide di abbandonare scuola e genitori (una madre dura e avara, un padre tanto mite quanto inconsapevole) per fuggire con Maria che invece è cattolica e di umili origini. I due conducono una vita precaria e raminga a causa del mestiere di Hans, un clown tanto dotato quanto indisciplinato e umorale. Maria gli vuole molto bene, ma da cattolica vive con disagio la sua condizione di “concubina”. Hans, pur adorandola, non sente la necessità di suggellare la loro unione con una firma su un registro civile o una dichiarazione pubblica di fronte ad un ministro di culto perché non tollera l’irrealtà che ha sempre percepito nel formalismo che regola i rapporti tra gli uomini. Inoltre Hans è allergico al “circolo di cattolici” verso cui Maria nutre un misto di timore reverenziale e di ammirazione, persone dalle idee tanto cristalline quanto astratte. La ragazza ama tornare a Bonn di tanto in tanto per respirare l’aria cattolica di questa gente e dopo cinque anni improvvisamente lascia Hans per sposare, nella piena osservanza delle forme civili e religiose, uno dei membri più quotati del gruppo. Semi-alcolizzato, senza un soldo e la carriera rovinata dalle intemperanze seguite alla scomparsa di Maria, Hans telefona agli amici della ragazza per averne notizie, ma si scontra con persone rigidamente ancorate a verità enunciate a sangue freddo, fiere di proteggere la pecorella salvata dall’anarchia romantica e dalla decadenza artistica di un uomo che dice di essere suo marito senza averla mai sposata. È questo il momento drammatico in cui inizia la storia raccontata da Heinrich Boll in Opinioni di un clown (1963).
Questo grande libro di Boll non apparterrebbe alla grande letteratura del ‘900 se fosse solo un atto di denuncia dell’ipocrisia di certe persone dell’alta borghesia tedesca nel primo dopoguerra (quelle che prima si riunivano per rendere onore al Fuhrer e poco dopo per celebrare i giusti principi del cristianesimo pregando Dio di aiutarli a rendere giustizia in egual modo sia alla tradizione che al progresso). C’è ben altro nel grido di dolore di Hans, la stessa domanda universale implicita nella ribellione del giovane americano in viaggio verso l’Alaska nel film di Sean Penn. E precisamente: chi sono? Anzi, meglio: a chi mi affiderò per sapere chi sono? E poi, a corollario, la sua storia pone altre questioni non meno rilevanti: quella relativa alla sostanza dell’essere coniugati ad un’altra persona; l’interrogativo su quale debba essere l’esperienza fondante una comunità di credenti; la domanda su quale sia il criterio in base a cui riconoscere l’unicità di ciascun uomo.
Secondo una visione che si limita a considerare la dimensione etica dei fatti (sensibile soprattutto alla rottura del legame familiare), Hans come il protagonista del film di Sean Penn potrebbe sembrare un “figlio di papà”, tanto geniale quanto viziato e narcisista. In verità la decisione di rompere i legami primari per vivere un’esistenza radicalmente in controtendenza con la cultura dei propri genitori sembra essere l’unica via possibile per riappropriarsi della propria realtà ovvero di scoprire il proprio vero volto. Se Christopher Johnson McCandless si affida ad un confronto forte con la natura selvaggia per lasciar emergere la propria identità, Hans si abbandona alla sua avventura con Maria, l’unica donna capace di suscitare in lui ciò che i suoi conoscenti cattolici chiamano con timore “desiderio carnale”. Ma questo per Hans è un concetto incomprensibile visto che la sua pulsione per Maria è la conseguenza naturale dell’incontro con l’unica persona della sua vita che lo ha consciuto, amato e seguito semplicemente per quello che era. Senza esserne cosciente Hans cerca nella ragazza il calore e il riconoscimento mai avuti dai suoi genitori e anche ritrovare la benigna complicità di Henriette, la compianta sorella maggiore che papà e mamma hanno lasciato andare a morire a diciassette anni negli scampoli dell’esercito hitleriano (perché ciascuno deve fare la sua parte per ricacciare gli Yankees ebrei dalla nostra sacra terra tedesca). Maria incarna quel sentimento fondamentale di cui Hans da bambino non ha fatto sufficientemente esperienza: l’amore di un padre e di una madre, gli unici che, quando vieni al mondo, possono metterti sulla giusta strada (o allontanarti da essa) per capire che si è sempre e innanzitutto figli. Maria è la via che Hans percorre per essere risarcito della propria identità di figlio.
Al momento però Hans si percepisce solo come un uomo senza volto, un clown che veste le maschere delle persone da cui fugge (Sarei diventato quello che tutti si aspettavano da me già da tanto tempo: un uomo, maturo, non più soggettivo, ma obiettivo, disposto a giocare una bella partita di Skat al Circolo dell’Unione). Le scimmiotta con le sue pantomine e poi si rifugia in Maria, la sola persona davanti a cui il clown riesce a togliersi parrucca e cerone, l’unica che può restituirlo a se stesso (correvo più in fretta che potevo da Maria, per vedermi nel suo viso. Quando avevo finito il mio lavoro andavo da lei, il più vicino possibile, fin quando riuscivo a vedermi nelle sue pupille: un’immagine minuscola, confusa, ma riconoscibile. Quello ero io, eppure ero quello stesso di cui avevo paura quando ero davanti allo specchio). La ragazza è la realtà totalizzante e idolatrata (come la natura per il protagonista in Into the wild) a cui Hans si affida in alternativa ad un mondo dove nulla sembra reale tanto è soffocato da astrazioni e idealità, finanche il denaro (Nessuno ne parlava apertamente, vi pensava chiaramente. O veniva “sublimato”, come un prete aveva detto una volta a Maria a proposito del desiderio della carne, oppure veniva inteso come una cosa volgare, mai comunque come ciò che in quel momento rappresentava: cibo o un tassì o una scatoletta di sigarette o una camera con bagno).
Hans, il cui sarcasmo ricorda molto l’ironia amara e pungente del protagonista de Il giovane Holden di Salinger (1951), si scontra con un mondo asettico, privo di passione, preoccupato soprattutto di non violare le regole. L’assenza di tinte forti nasce dalla mancanza di un incontro autentico tra le persone che consegue alla rinuncia, ben più intima e personale, al dialogo con se stessi e alla scoperta della propria unicità. Gli amici cattolici di Maria sembrano chiudere gli occhi davanti all’interrogativo rappresentato dal proprio volto per vestire una maschera che offra garanzie certe di “riconoscibilità”. Piuttosto che restare soli davanti alla propria realtà e riconoscersi nella propria storia, preferiscono guardare l’immagine illusoria di se stessi riflessa dallo specchio magico dell’ideologia. Chi non appare nello specchio è inevitabilmente una persona stravagante, incomprensibile, perduta. Inutilmente chiedono ad Hans che razza di uomo sia, essi non sono in grado di capirlo (Io sono un clown attualmente molto migliore delle mie quotazioni. E c’è una creatura cattolica di cui ho bisogno come della vita: Maria. Ma proprio lei mi avete portato via). E non capiscono la preoccupazione di Hans per la “dolce morte” che l’ideologia darà a Maria mentre la solleva dal peso della domanda sulla propria identità (chi sono?), sulla propria libertà (cosa è veramente bene che faccia?) e sugli altri (chi è l’altro?). Il clown è accusato di “soggettivismo” , egli non sopporta i “principi dell’ordine astratto” (gli rammentano la camera di tortura) perché il suo rapporto con la realtà è emotivo, istintivo, diretto, essenziale, schietto, privo di mediazioni ideali. Il clown percepisce sempre l’odore di ogni persona (anche al telefono), l’odore del luogo interiore in cui ciascuno ha portato la sua vita. Ma è soprattutto la concretezza del suo ricordo di Maria a rivelarci un uomo la cui comprensione del mondo passa attraverso la percezione di eventi minimi che contengono più verità di qualsiasi astrazione: (Maria ha scaldato le mani sotto le mie ascelle e ben presto furono le sue mani a scaldare me). Come può Hans capire chi gli dice che si può amare una donna anche senza vivere con lei? Come può considerare l’idea di ritornare alla religione della sua famiglia se questa è intesa come una categoria di pensiero e non un’esperienza nella quale vivere senza nascondersi? Egli può solo aver un rapporto con una persona in carne ed ossa, calda, viva, concreta e immaginare di gettarsi sul suo petto come farebbe un figlio con un padre (Naturalmente avrei potuto anche gettarmi in seno al protestantesimo. Soltanto… quando pensai “seno” mi vennero i brividi. Avrei potuto gettarmi sul petto di Lutero, ma “in seno al protestantesimo”, no).
Maria dice ad Hans di avere un terrore metafisico dei principi dell’ordine, ma di non aver alcun dubbio sulla loro fondatezza. Vuole essere rassicurata nel suo essere “cattolica”, comprendere dove corre la diagonale fra la legge e la misericordia, posizionare la sua esistenza nel punto esatto in cui può sentirsi accettata da Dio e dagli uomini. Maria ha lo stesso problema di libertà, amore e identità di Hans, ma pensa di risolverlo unendosi ai rappresentanti di una scuola di pensiero. A nessuno viene il sospetto (se non a Hans) che il cattolicesimo non si fonda su una filosofia o su una morale, ma su un rapporto personale tra l’uomo e l’«Altro» per eccellenza, tra ciascun credente e la Persona il cui sacrificio è rivolto alla salvezza di ognuno e non di una massa di persone uguali l’una all’altra. In una comunità dove si rimesta la dottrina della Chiesa alla luce di pensieri e di stili di vita politicamente corretti, vige un conformismo che si accontenta di ciò che finge di vedere e di sentire: non esiste l’esigenza di un dialogo con se stessi e tantomeno con l’«altro», soprattutto quando questi è diverso, sconcerta, rompe gli schemi. Come Hans. Non essendoci Cristo al centro dell’esperienza di questo gruppo di credenti nessuno di loro può comprendere il desiderio del clown di una relazione strettamente personale con un “tu” in grado di riconoscerlo e di amarlo in virtù dell’unicità della sua persona e non della conformità ad un modello (Lei ha dimenticato una parolina, signora, un “mio” di capitale importanza; quando si dice che ama un uomo, dovrebbe dire solo “il mio” uomo). Hans, lo sconclusionato ribelle, è paradossalmente più di tutti vicino al mistero dell’incarnazione di Cristo per via di un desiderio di pienezza che si compie incondizionatamente attraverso l’unione con la persona che ha scaldato le sue mani nelle sue ascelle, lo ha visto senza maschera e ha amato la sua immagine più autentica (Signore tu mi scruti e mi conosci, tu sai quando seggo e quando mi alzo… Salmo 139). E qual è questa immagine autentica se non quella dell’uomo ferito? Non a caso il Risorto si presenta con tutte le sue ferite perché Lui è il vero specchio di ogni uomo, dell’immagine sfregiata di Dio che ognuno porta in sé, l’uomo-dio crocifisso che diventa pietra di scandalo per coloro che traggono potere e stabilità dalla purezza geometrica della legge e della dottrina che pretendono di rappresentare. L’amore di Maria, anche se per un breve periodo, per Hans è stato “salvifico” perché in grado di vedere e tamponare l’emorragia della sua ferita originaria (Se cammino in mezzo alla sventura tu mi ridoni la vita… Salmo 138); un amore che per questo motivo il clown rivendica come pienamente “coniugale”, un legame la cui indissolubilità deriva dal pieno riconoscimento di un volto umano e non di una maschera buona per tutti. Questo secondo lui (pur senza recriminazione) farebbe della sua donna un’adultera, ma i monolitici amici di Maria non possono capirlo. La monogamia per Hans è una dimensione profonda che trascende la superficiale visione legalistica del “circolo dei cattolici”. Essa si radica nella compassione, nel senso di patire insieme all’altro le ferite subite a causa del proprio e altrui egoismo. Un sentimento che Hans non ha mai visto nella sua bella casa di famiglia, neppure in occasione del sacrificio di Henriette, o tra gli amici di Maria di fronte alla sua attuale crisi umana, professionale ed economica. In questo senso, Hans ha vissuto una “coniugalità” reale perché fondata non tanto su un atto richiesto dalla legge, ma dal riconoscimento a monte del suo volto ferito. L’inganno che Hans non perdona al “circolo dei cattolici” è l’aver reso cieca Maria proprio con i principi della legge di Dio, di averla privata della sua capacità di amare e di essere felice in nome della conformità al sentire comune (con Maria tutto è andato bene, fin tanto che lei si preoccupava della mia anima; ma voi le avete insegnato a preoccuparsi della sua).
Naturalmente Hans è solo all’inizio del suo percorso, ma pur essendo malconcio è un uomo in cammino. Il kaos nel quale si muove come un selvaggio è ricco di potenzialità mentre il cosmos armonico e ordinato a cui si aggrappa Maria sembra essere il luogo in cui il cammino si arena nelle sabbie di un’area protetta in cui lenire il proprio senso di insicurezza e di inadeguatezza rispetto alla domanda di cui ogni volto è portatore: chi sono io veramente, chi sei tu?
Prima di inserire un commento, assicurati di aver letto la nostra policy sui commenti.