Gnommero o labirinto?

È “divertente” indugiare tautologicamente su questo concetto: è complicato parlare di complessità…

Siamo abituati ad usare come sinonimi questi due aggettivi, complicato e complesso, eppure esistono delle piccole ma precise sfumature linguistiche. I due participi passati hanno derivazioni diverse: complicato, dal latino cum + plicare, ovvero ‘piegare’; complesso, dal latino cum + plecti (plector), ossia complecti, ‘abbracciare, comprendere’.

Visivamente restituiscono entrambi un’immagine di “chiusura” che si riverbera in tonalità di significato che vanno dall’oscuro, profondo al molteplice, composito.

Carlo Emilio Gadda lo fa spiegare (appunto) molto bene al commissario Francesco Ingravallo (Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana):

[…] Sosteneva, fra l’altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l’effetto che dir si voglia d’un unico motivo, d’una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. L’opinione che bisognasse «riformare in noi il senso della categoria di causa» quale avevamo dai filosofi, da Aristotele o da Emmanuele Kant, e sostituire alla causa le cause era in lui una opinione centrale e persistente: una fissazione, quasi […] La causale apparente, la causale principe, era sì, una. Ma il fattaccio era l’effetto di tutta una rosa di causali che gli eran soffiate addosso a molinello (come i sedici venti della rosa dei venti quando s’avviluppano a tromba in una depressione ciclonica) e avevano finito per strizzare nel vortice del delitto la debilitata «ragione del mondo». Come si storce il collo a un pollo. […]

Più del vortice può il gomitolo. È ciò che fa arrovellare il simpatico commissario gaddiano e che nei secoli è riuscito ad intrappolare molti altri personaggi, arrivando perfino al punto di salvarli.

Catullo, nel noto carme 64 narra le nozze di Peleo e Teti e, racconto nel racconto, groviglio nel groviglio, si sofferma a descrivere un dono agli sposi, un drappo riccamente ricamato e adagiato sul talamo che, improvvisamente, si anima e si fa voce narrante: Arianna, abbandonata da Teseo, parla (110-115):

sic domito saevum prostravit corpore Theseus
nequiquam vanis iactantem cornua ventis.
Inde pedem sospes multa cum laude reflexit
errabunda regens tenui vestigia filo,
ne labyrintheis e flexibus egredientem
tecti frustraretur inobservabilis error.

 

Così la belva da Tesèo domata
Cadde, ai venti agitando invan le corna.
Incolume l’eroe dall’onorata
Gesta fra molte lodi indi ritorna;
Nè dalla dritta via per l’intricata
Laberintèa spelonca erra o si storna,
Chè dato a lui da la fanciulla fida
È un tenue filo all’orme sue di guida.

Dapprima la forza di Teseo che doma la belva, infine il gomitolo che si fa tenue filo, si dipana divenendo strumento di salvezza, una guida all’uscita dalla laberintea spelonca. Immaginiamo Teseo esultante e vincitore sull’ultima soglia di un intrico di corridoi e muri, mentre tiene ancora e sempre legato al polso lo spago donatogli da una donna innamorata.

Dal labirinto (nel mito, proprio dallo stesso labirinto che vede Teseo eroe vittorioso) esce anche Dedalo che ne è il creatore, il progettista: il suo acume e la sua maestria lo aiutano prima a ideare una struttura inoppugnabile e poi a costruire delle ali di cera con cui prendere il volo e abbandonare l’intreccio di corridoi fatti per imprigionare il mostro Minotauro.

Dedalo, Leonardo ante litteram, si affida ad una creazione di natura, un arto leggero plasmato in una sostanza pesante che riesce tuttavia a garantire un senso di leggerezza e libertà.

Teseo, immerso in un vortice di cunicoli, consegna tutto se stesso e la salvezza dei giovani ateniesi, fiero pasto del Minotauro, ad una matassa di filo che si svolge e si dipana passando accanto a spazi ignoti e da percorrere, poi, a ritroso.

Per entrambi quasi una metafora del viaggio, certo di viaggi interiori.

Nella recensione al libro di Gioachino Chiarini, Odisseo: il labirinto marino (1991) Silvia Ronchey parlò dell’applicazione all’Odissea da parte dell’autore dell’interpretazione cosiddetta sub specie labyrinthi.

“Ulisse dal molto errare e dal multiforme ingegno – l’uomo razionale per eccellenza e, insieme, l’uomo che si perde e non sa tornare – è in realtà una fusione delle due figure labirintiche di Dedalo e Teseo.

Partendo da questo riconoscimento, Chiarini prova ad adattare lo schema del labirinto agli errores di Odisseo, confronta ogni tappa del percorso marino, ne verifica ogni ansa, per scoprire che, la peregrinazione dell’eroe protetto da Apollo – il dio del Logos recondito e “del percorso giusto” – è ritmata e simbolicamente orientata secondo l’esatto schema del labirinto cretese: uno schema ritmico a movimenti alternati da Oriente a Occidente e da Occidente a Oriente […]”.Ancora una volta andare alle radici del racconto letterario e immergersi nel mito porta paradossalmente ad osservare il mondo con occhi sgombri da inutili sovrastrutture: un archetipo quale il labirinto si presenta, così, come un’immagine di libertà anziché di costrizione; un surrogato del viaggio che scopre ad ogni svolta l’approssimarsi di una meta; un errare che mette d’accordo lo sbaglio e il vagare senza una destinazione precisa.

Ma non solo. Scrive Piervittorio Formichetti nel suo articolo Il mostro nel labirinto dedicato a Jorge Luis Borges e ai suoi simboli preferiti:

Per quanto complicato, infatti, il Labirinto resta una struttura che implica un ordine (kosmos) e una precisa, anche se sconosciuta, serie di direzioni da seguire, nonché l’adesione mentale all’oggettività (geometrica, in questo caso) da parte di chi lo progetta. L’occidentale postmoderno, invece, succube dell’emozione superficiale soggettiva e del desiderio di liberarsi di qualsiasi struttura capace di ricordare che la libertà è intrinsecamente limitata, si è liberato dall’angustia dei corridoi dei labirinti ideologici, ma poi, rigettando ogni corridoio in quanto tale, si è disperso in un nuovo labirinto, «dove non ci sono scale da salire, né porte da forzare, né faticosi corridoi da percorrere, né muri che ti vietano il passo» (I due re e i due labirinti). Qui è estremamente facile restare fermi per mancanza di punti di riferimento, in un vuoto perpetuo di significati duraturi che proprio per questo può riempirsi di molti più “mostri” di quanti ne contenga il centro del Labirinto “classico”.

La citazione borgesiana è, forse, funzionale a sciogliere quel groviglio che tanto affanno procura al commissario Ingravallo: la prigione è dentro ognuno di noi. E ancora per citare Borges e il suo legame con la struttura simbolica del labirinto, non passa inosservata questa sua poesia, tratta da Elogio dell’ombra.

Il labirinto

Zeus non potrebbe sciogliere le reti
di pietra che mi stringono. Ho scordato
gli uomini che fui; seguo l’odiato
sentiero di monotone pareti
ch’è il mio destino. Dritte gallerie
che si curvano in circoli segreti,
passati che sian gli anni. Parapetti
in cui l’uso dei giorni ha aperto crepe.
Nella pallida polvere decifro
orme temute. L’aria m’ha recato
nei concavi crepuscoli un bramito
o l’eco d’un bramito desolato.
Nell’ombra un Altro so, di cui la sorte
è stancare le lunghe solitudini
che intessono e disfanno questo Ade
e bramare il mio sangue, la mia morte.
Ci cerchiamo l’un l’altro. Fosse almeno
questo l’ultimo giorno dell’attesa.

 

Qual è il labirinto di Borges? Un odiato sentiero di monotone pareti, reti di pietra che stringono, parapetti con crepe. Chi è il mostro di Borges? Un Altro che stanca le lunghe solitudini, che confonde e fa dimenticare. Qual è il gomitolo di Borges? La ricerca. L’attesa.

Che sono, in fondo, gli ingredienti di un viaggio, del percorso della vita, dove gli dei o un Dio segnano il punto di inizio e quello della fine. Fine che rimane sconosciuta… fino alla fine.

Per dirla con Ingravallo, nella vita cospira tutta una molteplicità di causali convergenti.

Perché è complicato parlare di complessità, fuori o dentro il “nostro” labirinto.

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