WALL•E: quale futuro per la femminilità?
WALL•E: UNA PELLICOLA AUDACE…
L’aggettivo che meglio inquadra e descrive “WALL•E”, l’ultimo lungometraggio targato Disney-Pixar, è “audace”.
Anzitutto per la scelta più evidente: un’assenza quasi totale della parola. Davvero ardito se si parte dal presupposto che il target principale (non il più importante, solo il principale) sia quello dell’infanzia. I dialoghi sono rarissimi, minimi e scarna è pure la colonna sonora.
Ripensando alla filmografia classica per bambini non possono che venire alla mente titoli famosissimi abbinati a brani musicali che ne hanno rappresentato parte del successo. Il canto usato per “incantare”, per catturare il piccolo spettatore e trascinarlo più velocemente nell’universo della fiaba cinematografica. La canzone serve a veicolare in modo immediato la morale; inoltre, l’abbinamento di parole e musica permette alla morale stessa di vivere a lungo nella mente e nel cuore del pubblico.
Come riesce allora “WALL•E” a mediare, a rendere fruibile il proprio racconto a una platea affascinata dalla parola, facendo a meno della parola stessa? Attraverso tre ingredienti: l’immagine, il ritmo e una rappresentazione morale palese, non metaforica (almeno all’apparenza).
L’immagine e il ritmo costituiscono esattamente il business Pixar, mentre la rappresentazione morale priva di metafore è una sfida interessantissima per una dream-house professionista dell’allegoria qual è la Walt Disney Pictures. I record di incassi ottenuti prima negli USA, poi in Europa dimostrano che questa sfida è stata superata con notevole successo.
… E A PIU’ LIVELLI
Venendo meno la parte deputata a mediare il significato della storia (la parola, appunto), la morale che si vuole trasmettere deve essere necessariamente palese, evidente. Così è per “WALL•E”. Almeno a prima vista.
Vi è anzitutto una morale ecologica evidente. La Terra è piena di rifiuti. E i rifiuti fanno male alla Terra e all’uomo. Fanno male alla Terra perché la rendono un deserto. Fanno male all’uomo perché lo costringono a emigrare dal proprio pianeta. Possiamo osservare almeno un paio di corollari a questa morale.
Anzitutto, ciò che è “facile” non necessariamente è “utile”. Gli umani del film non risolvono il problema della mancanza di spazio sulla Terra, occupato interamente dai rifiuti: semplicemente se ne vanno. Sulla nave spaziale i rifiuti non si accumulano perché vengono semplicemente espulsi nello spazio, ovvero in una pattumiera enorme, lontano dagli occhi e quindi lontano dal cuore. Anche il capitano dell’astronave rischia di cedere all’alternativa più semplice: dormire e lasciare ogni decisione in mano ai robot anziché assumersi l’onere del comando e invertire la rotta per tornare a casa.
In seconda battuta, il consumismo esasperato non può che rendere la Terra un gigantesco e arido immondezzaio. Anche in questo caso il riferimento è necessariamente esplicito: senza giri di parole, il colosso del mercato della prossima fine millennio è la “Buy’n’Large”, ovvero la “Consuma e fallo più che puoi”. I suoi imperativi, pervasivi e martellanti, sono già oggi familiari: “Mangia”, “Compra adesso”, “Compra ancora”, “Vinci”, “Divertiti”, “Vivi il tuo sogno”.
Accanto alla morale ecologica, vi è una morale tecnologica evidente.
La spinta continua a delegare compiti gravosi ai robot (dal ceco “robota”, “servo”) trasforma l’uomo in una massa gelatinosa priva di iniziativa; l’uomo perde letteralmente la propria ossatura, il proprio nerbo. Vi è quindi una involuzione che fa da contraltare ad una apparente evoluzione.
E’ possibile individuare un corollario anche a questa riflessione: l’involuzione fisica è anzitutto frutto di una involuzione sociale. L’uomo mollaccione è relegato alla sua postazione volante, rifocillato di continuo, bombardato da spot pubblicitari che lo privano della propria identità, individualità, umanità, rendendolo pienamente e beatamente parte della massa. Il visore davanti agli occhi e gli altoparlanti in prossimità delle orecchie sono le uniche interfacce col mondo. La comunicazione diretta col prossimo è nulla.
Quella rappresentata è la trasposizione umana del Mojoverso, una massa indistinta di molluschi teledipendenti; nel caso di “WALL•E”, come già detto, il messaggio per essere efficace deve perdere la sua componente metaforica. Il Mojoverso è posizionato in una realtà alternativa ed extraterrestre; rappresenta un futuro possibile. Il mondo proposto da “WALL•E” è invece un drammatico “qui e ora”.
L’INTERROGATIVO SULLA FEMMINILITA’
Le morali ecologica e tecnologica sono di fatto un “pasto nudo” che riempie, soddisfa, tiene buoni i più piccoli. Il primo obiettivo del film è centrato. Gli adulti sono contenti che i loro cuccioli si divertano a guardare le gesta del piccolo e timido emulo di “Corto Circuito” (ve lo ricordate?). Ma occorre catturare anche chi ha portato i bimbi al cinema (e ne ha pagato l’ingresso); occorre soddisfare anche un palato più raffinato. Va servito un piatto che riporti il pubblico dotato di portafoglio di fronte al grande schermo, l’anno prossimo.
E qui la pellicola si fa veramente audace.
In un giardino distrutto e abbandonato dai propri custodi, un nuovo Adamo incontra una nuova Eva. Il mito dell’età dell’oro, rivisto ed aggiornato, ha come protagonisti due creature delle creature.
Com’è questo Adamo? Pienamente Romantico. Un “cavalier servente”, totalmente devoto all’amata, innamorato sin dal primo sguardo. Un cubetto piccolo, sporco, inadeguato, consumato; ma tenero, amorevole, contraddistinto da quell’umiltà (concretezza feconda) che si stupisce e sa stupire.
E la nuova Eva?
Sfavillante, moderna, di una bellezza essenziale e tagliente. Completamente diversa da Adamo. Di una generazione successiva. Forse due.
Bianca asettica ed inarrivabile. Una femminilità sconvolgente, che lascia attonito e addirittura impaurito l’Adamo hi-tech.
Se in WALL•E/Adamo la tecnologia soccombe all’amore, in Eve/Eva (l’omonimia è qui più che un indizio) è la modernità ad aver trionfato.
WALL•E svolge un lavoro umile (lo spazzino) con dedizione, quasi con consapevolezza ed amore: salva dai rifiuti ciò che lo affascina, arreda la propria “casa” di cose che lo possano far sentire vivo. Umano. Si lascia commuovere da un musical vecchio persino per noi.
Eve, invece, (e)segue una “direttiva”. Non c’è più inclinazione, propensione, contributo personale. È una “working girl” pienamente abile, efficiente, aderente ai propri ordini.
Snobba completamente lo spasimante. Non rientra nei suoi piani. La relazione è qualcosa di superfluo, non contemplato dalla programmazione.
Eve dunque appare come il ritratto spietato e agghiacciante di una femminilità futuribile tremendamente odierna. Una femminilità affascinante, ma che intimorisce e distacca; eccessivamente sicura di sé, fredda, egocentrica, tutta orientata all’autorealizzazione. Una femminilità perennemente sulla difensiva, le cui armi (ed Eve è ben provvista di cannoni) servono ad annichilire più che a sedurre.
FINCHÉ
Finché accade qualcosa di inaspettato, non contemplato dalla direttiva.
Un “rapporto occasionale”. Eve cede all’insistenza di WALL•E, anche se solo per proteggere se stessa da una tempesta di sabbia. Entra nel mondo del robottino, nella sua casa. L’analisi chirurgica e instancabile di ciò che la circonda viene meno, si affievolisce, cedendo il passo ad un tentativo di comprensione. A un desiderio di scoperta. Dopo una serie di oggetti sorprendenti esibiti orgogliosamente da WALL•E, ad Eve viene donato ciò che di più bello un’amicizia profonda può regalare: la vita.
E qui l’audacia della pellicola raggiunge il proprio apice: Eve viene letteralmente “inseminata”. Viene posto al suo interno un germoglio di vita. E questo atto rivela insieme e istantaneamente l’identità di Eve e l’obiettivo primario della propria programmazione.
LA FEMMINILITÀ FECONDA
Una volta che Eve riceve la vita dentro di sé, assume pienamente la forma “per la quale è stata progettata”: l’uovo. Il custode della vita. Il principio della vita. Questo luogo di mistero nel quale il germoglio viene intessuto, alimentato, protetto.
Ecco l’originale contenuto della direttiva: Eve è una sonda con il compito di trovare e proteggere la vita sulla Terra. Di più: Eve ha il compito di dimostrare che la vita è ancora possibile!
Solo la donna ha la capacità di questo miracolo. La femminilità feconda è davvero l’adempimento della direttiva, è davvero ciò che restituisce identità, dignità, scopo ad un altrimenti gelido cuore robotico.
Ma anche la femminilità feconda ha un suo lato oscuro e il film lo indica in maniera simpatica, ma precisa.
La Eva che ha in sé la vita è un uovo ermeticamente chiuso. Senza più alcun contatto con l’esterno. Tutta intenta a soddisfare il proprio istinto materno, aliena da sè ogni altra cosa o “persona”. Come se la vita dentro lei, solo lei riguardasse. È una maternità vissuta da single, iper-protettiva, che perde nuovamente di vista la relazione a due che quel dono ha generato.
ABBANDONI E RITROVAMENTI
Insomma, Eve passa da un estremo all’altro: dalla totale assenza di sentimenti alla chiusura completa nell’intento di proteggere un affetto enorme. Senza però mettere a fuoco l’evento più importante, ovvero il rapporto profondo con l’amante. Guardando la fiaba dalla prospettiva di WALL•E, il piccolo robot viene escluso dalla vita di Eve due volte: la prima quando lei non vuole saperne di lui perché non rientra nei suoi piani; la seconda quando WALL•E ci è “rientrato troppo” e viene estromesso dalla cosa più bella che a Eve potesse succedere.
WALL•E non si perde d’animo e da buon eroe romantico continua a soccorrere e proteggere prima l’amata, poi gli amati. È un “sacrum facere”, un far sacro il proprio amore che sfocia appunto in un sacrificio finale. Il “vissero felici e contenti”, suggello canonico delle favole, passa qui attraverso il rischio di un abbandono. Il sacrificio, appunto, di un componente elettronico trasforma la coscienza di WALL•E. I suoi occhi non sono più sbiechi e languidi, ma ben allineati e fissi altrove. WALL•E ora si limita a vedere le cose, non più “nelle” cose. Si potrebbe dire, forzando un poco, che è lo sguardo su Eve a mutare. Adamo perde di vista (letteralmente) la relazione con la sua Eva. E torna ad essere pienamente robot. Polare.
Ma ecco che questa volta è Eve a intenerirsi, a preoccuparsi, a chiamare. Si accosta a WALL•E. Scocca ancora la scintilla, riparatrice. Gli occhi di WALL•E tornano spioventi e teneri. L’unità della coppia è ricomposta. Una coppia che ora vola sul serio con due ali. E davvero vissero (vivranno?) tutti felici e contenti.
FUGGIRE DAGLI SCHEMI
Per come è stata sin qui presentata, “WALL•E” è una pellicola che può essere tacciata di maschilismo? A mio avviso no. Nel modo più assoluto.
Questo film è audace proprio perché parla del femminile rifuggendo schemi o ideologie. Ciò che viene sottolineata è la ricchezza unica, peculiare, naturalmente caratterizzante della femminilità: la forza creatrice. E di conseguenza viene esaltato il motore di questa forza: la relazione a due. Non può esistere forza senza motore; di contro, il motore senza la forza è privo di ogni significato.
“WALL•E” si configura quindi come una favola immediata per bambini, una parabola sul femminile per gli adulti. Una parabola, appunto, ovvero uno sguardo stupito su una situazione quotidiana possibile che rimanda a qualcosa di molto più profondo. Al di là dei massimi sistemi (interstellari, perfino), alla fine è sempre l’esperienza a fare da maestra, la vita ad avere la meglio.
Molto commovente Gabriele… anche se il film purtroppo non l’ho visto. Ma tra questo tuo post, l’articolo sulla Civiltà e i racconti…è come se lo sapessi a memoria. Nonostante tutto…sentirsi amati e avere la “possibilità” di farlo così, è il vero desiderio di tutti.
Credo, comunque, che anche questo messaggio che come giustamente dici forse è più rivolto al pubblico adulto,debba essere trasmesso ai “bambini” perchè è da piccoli che si impara ad amare davvero.