Yad Vashem: una notte fonda piena di stelle

Circa un anno fa uno scrittore israeliano aveva affermato che la Shoah fosse diventata un oggetto di marketing e che l’eccessivo numero di romanzi ispirati allo sterminio avesse addirittura dato luogo ad un nuovo genere letterario. Questa possibilità mi aveva molto colpito, anche se la questione veniva posta essenzialmente per denunciare le conseguenze di una commercializzazione della memoria dell’Olocausto sulla percezione dell’identità ebraica, tanto in Israele quanto all’estero. Non so quali discussioni siano seguite a questo grido d’allarme, ma nel frattempo sono usciti altri libri ispirati dalla Shoah e i protagonisti di queste narrazioni sono risultati troppo unici e irripetibili per corrispondere a uno stereotipo: testimonianze come Sonderkommando di Shlomo Venezia e Necropoli di Boris Pahor, ma anche romanzi di autori di seconda generazione che raccontano le conseguenze della tragedia sui figli delle vittime e sui loro figli come La storia dell’amore di Nicole Krauss (moglie di Jonathan Safran Foer, già autore del notevole Ogni cosa è illuminata) o Un difetto impercettibile di Nancy Huston (moglie di un pensatore illustre come Tzvetan Todorov che ha scritto molto sulle tragedie provocate dai regimi totalitari del ‘900) o come La storia di una famiglia, il romanzo dell’israeliana Lizzie Doron in imminente uscita per le edizioni Giuntina.

Non che credessi allo spauracchio di una letteratura della Shoah ridotta a genere letterario, ma certo oggi la visita allo Yad Vashem, il memoriale ufficiale di Israele delle vittime dell’Olocausto, ha fugato ogni perplessità. Il viaggio di due ore attraverso lo straordinario percorso multimediale del museo (filmati, fotografie, testi, pitture, disegni, reperti, ricostruzioni di luoghi e ambienti, voci, musiche, ecc.) che racconta la storia dello sterminio – dalla presa del potere di Hitler in Germania alle peripezie dei superstiti per giungere in Palestina alla fine della guerra -, mi ha fatto apparire l’Olocausto come una lunga notte punteggiata di stelle. Non certo una notte romantica, piuttosto una tenebra greve, sferzata da un soffio gelido e putrido, tormentata da grida di bestie feroci e urla di voci assassine eppure piena di stelle. Infatti mentre rivivevo le tappe attraverso cui, dal 1933 al 1945, il buio ha gradualmente coperto ogni cosa, ho scoperto che più la notte del male si faceva oscura più brillavano sul suo sfondo milioni di storie. Ho visto compiersi davanti ai miei occhi il mistero per il quale il volto dell’innocente riluce nell’oscurità che lo circonda proprio in virtù della sua umanità brutalmente violata. Quel volto è una storia impressa per sempre nella volta infinita dell’eternità che il male stesso con la sua oscurità ha contribuito a rivelare (e che lo Yad Vashem mostra ai suoi visitatori con tanta intensità): le storie degli scampati che insieme alla testimonianza dell’orrore portano quella del miracolo della salvezza dall’eccidio (la pretesa di assolutezza del male negata da un destino che non si è concluso nelle camere a gas), ma anche le storie evocate dai documenti d’identità, dalle fotografie, dagli effetti personali e finanche dai soli nomi delle persone sterminate. Ma non solo.

Durante la visita mi sono accorto che il racconto della tragedia tirava in ballo anche la mia vicenda personale, che gli echi del dolore presente nelle storie raccontate lungo le sale dello Yad Vashem mi riportavano alla mia realtà. Ho visto la mia immagine riflettersi in molti di quei volti, quella di uno scampato per misteriose ragioni anagrafiche (un inspiegabile scarto nelle date e nei luoghi) insieme al sorgere di alcune domande imbarazzanti: se fosse accaduto a me tutto questo? Se lo sterminio fosse toccato alla mia famiglia e ai miei amici? Come avrei reagito? A cosa mi sarei aggrappato? Quale sarebbe stata la mia sorte? Non trovando alcuna risposta – solo un misto di angoscia e stupore – ho messo da parte queste domande, ripromettendomi però di non dimenticarle. La notte nello Yad Vashem mi è sembrata improvvisamente interminabile e ho guardato verso la luce in fondo al tunnel del museo dove una grande vetrata illuminata dal sole si apre sulle colline della Giudea. Milioni di volti, milioni di storie, milioni di astri lucenti conficcati in una notte nera mi interrogavano sulla mia vita e sulla mia destinazione finale nella volta infinita del cielo. Come può, dunque, la Parola scaturita dalla Shoah essere attinta senza dare vita a storie e significati sempre nuovi? Come può essere appiattita in una letteratura di genere? Ma la questione può essere posta anche in altri termini: da dove nasce il senso di gratitudine che si prova verso gli innocenti sterminati dai nazisti dopo aver vissuto il racconto della loro sorte nella visita allo Yad Vashem?

Leggi i 4 commenti a questo articolo
  1. Anonimo ha detto:

    “In questo luogo della memoria, la mente, il cuore e l’anima provano un estremo bisogno di silenzio. Silenzio nel quale ricordare. Silenzio nel quale cercare di dare un senso ai ricordi che ritornano impetuosi. Silenzio perché non vi sono parole abbastanza forti per deplorare la terribile tragedia della Shoah. Io stesso ho ricordi personali di tutto ciò che avvenne quando i Nazisti occuparono la Polonia durante la Guerra. Ricordo i miei amici e vicini ebrei, alcuni dei quali sono morti, mentre altri sono sopravvissuti.

    Sono venuto a Yad Vashem per rendere omaggio ai milioni di Ebrei che, privati di tutto, in particolare della loro dignità umana, furono uccisi nell’Olocausto. Più di mezzo secolo è passato, ma i ricordi permangono”.
    ( Karol

  2. Anonimo ha detto:

    ho visto un film ieri : mi ha fatto provare tanta tristezza e un po’di paura, sulla legge basaglia del 78, che chiudeva i manicomi…qualche lucina l’ho vista qua e la’. Sono vicina a voi (in particolar modo come interprete e non proprio per esperienza diretta).
    LP

  3. Antonio ha detto:

    Stas, grazie di questi tuoi post da Israele in un momento davvero cruciale…

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