Già 10 anni fa vi raccontavo il vero Carver
E 10 anni fa illustravo come erano andate le cose. Riporto qui di seguito alcune (poche) pagine – senza note – di quel libro (A. Spadaro, Carver. Un’acuta sensazione di attesa, Padova, Messaggero, 2001), proprio quelle che cercavano di fare il punto sulla questione del Carver…
Un Carver «riveduto e corretto»?
[…] i primi scritti di Carver sono stati oggetto di una polemica, lanciata da D. T. Max dalle colonne del New York Times nell’agosto del 1998 e ripresa quasi un anno dopo in Italia da Alessandro Baricco , provocando una vasta eco di risonanze. Seguendo le tracce già percorse da Max, Baricco si è recato alla Lilly Library di Bloomington, nell’Indiana (Stati Uniti), dove sono custodite le carte dello scrittore e qui ha constatato di persona che in realtà gli scritti originali di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore erano decisamente più lunghi e ampi di quelli poi effettivamente pubblicati. Max nota come gli originali di Carver fossero pieni di tracce di editing. A fare questo lavoro, un lavoro di «taglio» fino all’osso, fu Gordon Lish , l’editor di Carver, il quale avrebbe tolto il 50 % del testo originale, modificando anche il finale di ben dieci racconti su tredici. Persino quello sfinente e ossessivo ripetersi dei «disse» e «dissi» era in realtà di Lish, come l’uso frequente del presente che elimina il passato e il futuro (e così la riflessione e l’attesa espressa in forma verbale). Sorge la domanda: «Chi è il vero Carver?» .
Questa scoperta significa anche che la sensibile differenza tra le prime raccolte e le ultime non è da spiegarsi esclusivamente con considerazioni sulla biografia dell’autore, che era passato da una prima fase di depressione a un ultimo decennio di rinascita. È certamente da valutare una differente ispirazione , ma innnazitutto è da considerare una riflessione sul lavoro di tipo editoriale sui testi. «Lish era costantemente in guardia contro ciò che egli considerava come la strisciante sentimentalità di Carver» . Sotto la guida del suo editor la prosa di Carver si sviluppò in modo secco, laconico, interiormente freddo. Insomma, afferma Max, Lish ha reindirizzato la visione delle cose propria dello scrittore al servizio dei propri obiettivi editoriali, in modo quasi parassitico. Tess Gallagher parla anzi di «forte manipolazione» . Sembra che Lish abbia avuto un modello di riferimento per il proprio lavoro di lima: James Purdy, lo scrittore dell’«incubo americano», che sa rendere la violenza urbana, le crisi di identità, i vuoti della comunicazione con una scrittura precisa e tagliente.
Carver, notando il successo a cui il lavoro di Lish lo stava conducendo, con la pubblicazione nel 1976 di Vuoi star zitta, per favore?, si fidava di lui sempre più, tanto che egli, afferma Max, poteva pensare di sé come a un «ventriloquo di Carver» . Rendiamoci conto anche che lo scrittore attraversava un momento molto difficile della propria vita, aveva scarse risorse finanziarie, era dedito all’alcolismo e ambiva a un certo successo, che ancora non era arrivato. Provava anche gratitudine per Lish, che era la sua strada per raggiungere il pubblico dei lettori. Ma a questo punto, proprio per l’eccessiva simbiosi, la collisione tra i due si mostrava per forza di cose inevitabile. Con la seconda raccolta, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore – che Carver invece avrebbe voluto si intitolasse Beginners (Principianti) -, il lavoro di editing compiuto da Lish si fece più pesante, mentre d’altra parte Carver diventava sempre più famoso, tanto che nel ’79 divenne professore di inglese alla Syracuse University. Carver nel 1980 scrisse anche un’inutile lettera al suo editor, nella quale lo scongiurava di non pubblicare il volume di racconti così come era stato limato. Lish non ne fece nulla, e il libro fu pubblicato con le sue revisioni. Fu un successo. Nonostante ciò, Carver apparve risoluto a non permettere che Lish compisse ulteriormente sui suoi racconti la sua opera di «amputazione chirurgica» , come egli stesso la definì. Disse a W. Kittredge: «D’ora in poi non potranno più cambiare nemmeno una virgola» .
Due mesi dopo, in toni differenti, chiedeva comunque aiuto a Lish per Cattedrale, ma non come suo «fantasma», ma come «buon editor, il migliore…» . Lish, riluttante, accettò e si limitò a un editing leggero, pur facendo presenti le sue critiche acerbe sul testo. E infatti in Cattedrale il respiro si fa più ampio. Carver anzi ha addirittura ripubblicato alcuni racconti apparsi in una forma più concisa, dando loro un respiro più ampio . Tess Gallagher successivamente lo incoraggiò a pubblicare Where I’m Calling from, raccogliendo, insieme a sette nuovi racconti, trenta già pubblicati, a suo giudizio migliori, nella forma nella quale egli voleva che fossero letti dalla posterità. Ella lo aiutò senza dubbio a trovare la sua vera voce e ispirazione, che non erano «minimaliste». Carver comunque ha sempre riconosciuto a Lish un debito di gratitudine, perché si era sempre preso cura del suo lavoro e aveva creduto in lui come scrittore, proprio quando ne aveva avuto bisogno .
La scoperta dell’azione di Lish sui testi di Carver, da una parte, può inquietare chi (e non son pochi) aveva preso i racconti di Di cosa parliamo quando parliamo d’amore come modello della cultura narrativa contemporanee. Molti, infatti, considerano Carver come il padre del «minimalismo», cioè del modo di pensare l’arte dello scrivere in termini di essenzialità espressiva, di intrecci che si sviluppano in piccole scene di vita quotidiana e di contesti di ambiente che rigettano i grandi spazi aperti del romanzo americano classico, preferendo gli interni domestici, gli shopping center e altri luoghi simili. Carver è stato anche un modello di riferimento, quando non direttamente docente di scrittura creativa, per scrittori come Jay McInerney, Breat Eston Ellis, David Leavitt. Non dimentichiamo però che Carver stesso si è sempre opposto a vedersi attribuire il ruolo di «padre» di questo filone espressivo, come si è detto. Tess Gallagher preferisce dire che egli era non un «minimalista», ma un «purista» e anzi che il suo «mondo interiore» era, al contrario, «massimalista» . Altri lo definiscono un «precisionista» . E quest’ultima pare la definizione più pertinente. La precisione del dettaglio, eliminando ogni approssimazione, è usata per stabilire una realtà e rendere reali le emozioni , non per dipingere una situazione astratta, rarefatta o sentimentale. Lo stesso scrittore ne dà la spiegazione alla luce di un’affermazione di Maupassant: «Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al punto giusto». Carver rimase colpito da questa frase come per la forza di una rivelazione, perché è ciò che intende fare nei suoi racconti: «mettere in fila le parole giuste, le immagini precise, ma anche la punteggiatura più efficace e corretta, in modo che il lettore venisse trascinato dentro e coinvolto nella storia, e non potesse distogliere lo sguardo dal testo a meno che non gli andasse a fuoco la casa» .
La cura del dettaglio capace di rendere una visione della realtà dunque non è solamente questione di stile: «È il tipo di firma inconfondibile e unica che lo scrittore lascia su qualsiasi cosa egli scriva. E ne fa il suo mondo e nient’altro» . Per fare ciò Carver aveva bisogno di sviluppare un metodo, uno stile; ne aveva bisogno per un’evidente questione di crescita artistica personale; ma ne aveva soprattutto bisogno nella misura in cui uno scienziato ha bisogno di uno strumento affidabile che gli consenta di indagare il proprio oggetto. Carver aveva probabilmente capito che per raccontare davvero la sua gente non poteva adottare un linguaggio qualunque. Avrebbe bensì dovuto fare proprio il modo di vita di quella gente; trasferire sulla carta il loro modo di vedere il mondo; assumere lo stesso sguardo e atteggiamento. Adottare, insomma, per lo scrivere lo stesso stile che quelle persone adottavano per il vivere: umiltà ed essenzialità.
E lo stile di Carver è divenuto allora anche quello di chi si tiene un passo indietro, di chi racconta senza dare giudizi sulle azioni dei propri personaggi e soprattutto di chi narra rinunciando ai suggerimenti al lettore, rinunciando ad accompagnarlo durante tutta la narrazione. Viene insomma a mancare quella voce narrante e onnisciente che continuamente suggerisce, spiega e semplifica, perché sono gli stessi personaggi a raccontarsi, e dinanzi ad essi il lettore è solo, lui e la storia, null’altro.
Carver capì che il suo stile doveva essere scabro, diretto, privo di lirismo; doveva adottare il linguaggio di chi vuole solamente dire e descrivere, mai giudicare o commentare, un linguaggio umile, fatto anche di pause e di silenzi, ma non per questo meno efficace o meno narrativo, meno lirico o poetico. Anzi. Carver sapeva che per sprigionare poesia e sentimento puro bastava lasciare che quella gente – i suoi personaggi – parlassero: non serviva altro, bastava lasciarli liberi di parlare e raccontarsi .
Leggendo i testi in originale prima di essere trasformati dalla penna di Lish, emerge il volto di un Carver che francamente stupisce forse meno, ma piace di più: un Carver che conferma il suo stile, ma è più lirico, colpito dal male nel profondo. Un Carver insomma che, come si è detto prima, sta dalla parte del cattivo, ma non per dare ghiaccio ai già freddi racconti, ma per una sorta di compassione, dimostrando il volto umano e tragico, sofferente e dolente persino del malvagio. Si tratta di uno scendere in quello che può essere definito, in un certo senso, un «inferno» e comprendere di trovarsi accanto ai propri simili. Per questo Carver, se fa dell’umorismo, sostanzialmente non è mai ironico , non assume quell’atteggiamento di connivenza tra scrittore e lettore che in fondo si prende gioco dei suoi personaggi: non può fare ironia facile su personaggi che rappresentano il suo ambiente, se stesso e in qualche modo anche la propria esperienza: «devo aver cura per la gente nelle mie storie. È la mia gente» . Qui si pone, notiamolo per inciso, il problema della vera o presunta autobiograficità dei suoi racconti. Le testimonianze di amici e conoscenti affermano di frequente questo legame con la vita , anche se Carver tiene a precisare che egli non si identifica con l’io narrante delle sue storie . In ogni caso è più semplice pensare a un riferimento non tanto puntuale, ma generale a situazioni di vita vissuta o vivibile nel suo ambiente di riferimento . Altro problema, a questo connesso, riguarda l’influsso della sua dipendenza dall’alcool sulla sua scrittura. Sostanzialmente vale il giudizio espresso in precedenza con un’aggiunta: Carver non supporta il clichè dell’«artista maledetto» ed è assolutamente contrario all’uso di alcool e droghe per entrare nel mondo dell’arte. In questo è esplicito . Per lui la vicenda legata all’alcool è soltanto una brutta storia da dimenticare.
La narrativa «più piena, più forte»
Dopo Cattedrale Carver scrive sette nuove storie, che poi include nella raccolta Da dove sto chiamando accanto alla versione definitiva dei suoi racconti preferiti. In Gran Bretagna i sette racconti vengono pubblicati in un volume a se stante dal titolo Elephant and other stories. Da questi testi emerge un certo ottimismo. In racconti come, ad esempio, «Una piccola, buona cosa», «Da dove sto chiamando», «Elefante», «Cattredrale», «Scatole», sembra possibile una forma, anche delicata, di redenzione, di salvezza, grazie a sentimenti di tenerezza, a sguardi rivolti a un passato di innocenza, a modi alternativi di porsi di fronte al reale, che procurano un’inattesa meraviglia. Una svolta comunque è possibile e la terra arida acquista fertilità: «I suoi personaggi vivono momenti, quando meno se lo aspettano, in cui una nuova speranza li illumina e una nuova speranza e forza li sorregge» . Lo stesso Carver definisce le storie di Cathedral «più piene, più forti, più sviluppate, più aperte alla speranza» , una «”speranza” nel senso di aver fede» , un atteggiamento di fiducia aperta e serena sul reale e sulla vita. Stull anzi sostiene che la raccolta esplora «la dimensione trascendentale dell’esperienza quotidiana, al modo delle storie pacatamente religiose di Checov “Pasqua” (1886) e “Lo studente” (1894)» . Si potrebbe dire «la santità dell’ordinario» .
Riguardo poi al discorso circa la forma e lo stile è da notare che nelle prime raccolte Carver sente di aver ridotto «tutto al midollo, non solo all’osso» e così ammette: «Un altro passo in quella direzione e sarei arrivato a un punto morto – a scrivere e a pubblicare roba che non avrei avuto voglia di leggere neanch’io, sul serio» . Quest’affermazione è una spia di quella che era le sua reale visione delle cose. Rifiutando l’accezione di «minimalista», egli, un anno dopo la pubblicazione di Cattedrale, disse in una intervista: «è vero che tento di eliminare ogni dettaglio non necessario nelle mie storie e cerco di tagliare le mie parole fino all’osso. Ma ciò non fa di me un minimalista. Se lo fossi, le taglierei davvero fino all’osso. Ma non lo faccio; lascio un po’ di schegge di carne (slivers of meat) su di esso» .
Bellissimo intervento il tuo, di uno che si è portato dietro Carver per un bel po’ di tempo.
Sto leggendo il Libro, un racconto al giorno, per un tempo da vivere in compagnia di Carver, nella speranza di poter essere coinvolta in quello sguardo che coglie la santità dell’ordinario.
Perché l’eccezionalità dura un attimo e spesso sconvolge, l’ordinarietà copre lunghi periodi e permette di assaporarne il senso.
Grandissimo post, che rileggo spesso con grande piacere!