Ancora su Kavanagh, poeta "fuori posto"
L’irlandese Kavanagh aprì una finestra sull’infinito (di Alessandro Zaccuri, apparso su Avvenire il 19.12.09)
È la lezione del critico Anton Ego in Ratatouille: non è vero che chiunque possa essere un artista, ma un vero artista può nascondersi in chiunque. Un poeta, per esempio, non è necessariamente un vate austero, appartato ed elegante. Immaginate un giornalista di poca fortuna, una di quelle persone che risultano sempre fuori posto perché fuori posto si sentono comunque. Non per la loro personale inadeguatezza, quanto piuttosto per l’irrimediabile inadeguatezza della realtà circostante rispetto allo splendore della loro visione interiore. «Non so che età io abbia, / Non ho un’età mortale, / Non so nulla di donne, / Nulla di città, / Ma non posso morire / Senza oltrepassare queste siepi di biancospini», ammette Patrick Kavanagh in «Innocenza», una delle più belle fra le poesie antologizzate e tradotte da Saverio Simonelli in Andremo a rubare in cielo, il volume che, per il pubblico italiano, rappresenta la prima compiuta occasione d’incontro con una delle maggiori voci del Novecento irlandese. Un’autentica scoperta e, nel contempo, una conferma dell’intonazione inconfondibile da cui la moderna lirica insulare è contraddistinta.
Nato nel 1904 nella contea di Monaghan, da una modesta famiglia di artigiani, e morto a Dublino nel 1967, al termine di una lunga malattia che coincise con la sua ultima grande stagione creativa, Kavanagh fu l’erede autoproclamato – ma non per questo meno legittimo – del Nobel William Butler Yeats, oltre che maestro riconosciuto di un altro Nobel, Seamus Heaney. Forse più vicino al secondo che al primo, verrebbe da pensare seguendo il filo interpretativo suggerito da Simonelli, che ha cura di sottolineare il cristianesimo naturale e terrestre di cui la poetica di Kavanagh è intrisa. Un atteggiamento che sembra riassumersi in un unico verso, in un’unica espressione in sé conclusa: Inward to God , «all’interno verso Dio», come la finestra che si dischiude allo sguardo di ogni bambino curioso dell’infinito. Più ancora che per le tematiche (pure non assenti, come testimonia la splendida ballata «Un’infanzia di Natale»), la poesia di Kavanagh si merita la qualifica di ‘religiosa’ per la prospettiva nativamente assunta dall’autore, attraverso la quale perfino una baruffa di paese può assomigliare ai duelli immortalati da Omero, perché « sono gli Dei che fanno la differenza» . Allo stesso modo, è terribile la lucidità con cui Kavanagh afferma «di aver imparato con sorpresa che Dio / Se non venerato si avvizzisce a Principio Futile». Il tema del worship, dell’adorazione ammirata e attiva, è assolutamente centrale nell’opera di Kavanagh e costituisce, fra l’altro, un inatteso punto di contatto con le riflessioni di uno scrittore all’apparenza del tutto diverso come il David Foster Wallace di Questa è l’acqua. L’istintiva precisione teologica dell’aedo di Monaghan ( «Il senso è sovra-senso», recita un altro suo verso) non deve incutere soggezione nel lettore. Kavanagh è infatti anche, se non anzitutto, un poeta consapevolmente popolare, come dimostra la fortuna di uno dei suoi componimenti più noti, «Raglan Road», trasformata in canzone negli anni Sessanta dai Dubliners e da allora entrata nel repertorio della Irish Music. «Le diedi i doni della mente, le diedi il segno segreto che è noto / Agli artisti», traduce ritmando Simonelli, quasi trascinato da un’evocazione su cui dominano «i veri dèi del suono e della pietra / La parola e il colore». Non serve altro, per fare poesia. Anzi, per essere un poeta.
Patrick Kavanagh – ANDREMO A RUBARE IN CIELO Ancora Pagine 124. Euro 12,00
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