Cadere sul ring e… dal ridere

(Report dell’Officina – febbraio 2010)

Il cadere rivela il carattere di una persona.  Innanzitutto c’è una cosa comune alla maggior parte degli uomini: quando si cade scatta un meccanismo, che forse ha a che fare con la dignità, per cui si rifiuta l’esperienza appena vissuta, la si nega, anche a se stessi. Ho mostrato due scene di 10 secondi l’una per dimostrare questa semplice verità: 1) il truce alemanno Paolo Villaggio in Brancaleone alle crociate che riceve una mazzata mostruosa da Brancaleone (Gassman) e grida, cadendo a terra: “Non mi hai fatto niente!”; 2) un pugile che riceve un pugno che lo stende al tappeto e subito si rialza facendo segno che non ha neanche avvertito il pugno, ma un secondo dopo stramazza di nuovo al suolo, definitivamente. Molto comico. E quindi son passato a parlare della boxe, la noble art dove la cosa più importante è non cadere, non finire al tappeto. Ho mostrato il celebre k.o. che Alì inflisse nel 1974 a George Foreman riconquistando il titolo dei pesi massimi. La scena, anche rallentata, del k.o. (presa dal documentario “Quando eravamo re”) mostra il crollo di Foreman che non riuscirà ad alzarsi. Ho accompagnato queste immagini alla pagina del romanzo Il Match di Norman Mailer che descrivono molto bene la scena:

«Poi un grosso proiettile esattamente delle dimensioni di un pugno in un guantone si conficcò nella mente di Foreman, il miglior pugno di quella notte sensazionale, il colpo che Alì si era tenuto in serbo per un’intera carriera. Foreman si piegò, le braccia sollevate come quelle di un uomo che salta giù da un aereo col paracadute, e in quella posizione cercò di spostarsi al centro del ring. Intanto i suoi occhi erano fissi su Alì ed egli guardava in su senza collera come se Alì fosse l’uomo che conosceva meglio al mondo e che gli sarebbe stato accanto nel giorno della morte. La vertigine s’impadronì di Foreman e lo fece girare su se stesso. Ancora piegato sui fianchi in quella posizione ottenebrata, gli occhi sempre su Muhammad Alì, cominciò a traballare, a oscillare e a crollare contro la sua volontà. La sua mente era trattenuta da magneti alti come il suo titolo, ma il suo corpo cercava il terreno. Cadde come un alto maggiordomo sessantenne che ha appena appreso una tragica notizia, precipitò lungamente, giù pezzo per pezzo, e Alì ruotò con lui in uno stretto cerchio, le mani puntate per sferrargli un altro colpo, e non ce n’era bisogno, una scorta privata per accompagnarlo al tappeto. […] Come un ubriaco che spera di potersi alzare dal letto per andare al lavoro, Foreman rotolò su se stesso, incominciò a sollevare l’enorme mole che Dio gli aveva dato e che era stramazzata».

Penando alla scorsa Officina di BombaCarta avevo preparato più cose di quelle che poi ho mostrato: capita sempre così. Ecco un paio di cose che erano cadute e rimaste “fuori”:

1) Toro scatenato di Martin Scorsese. Forse  il miglior film del regista italo-americano, in particolare avrei voluto mostrare la scena in cui Sugar Ray Robinson sconfigge Jake La Motta ma non riesce a buttarlo giù. La “punizione” è stata dura, violenta per Jake ma il suo orgoglio è salvo, e il suo orgoglio è non essere caduto. Va da Sugar Ray e gli dice (con la faccia una maschera di sangue): “Ray, non sono caduto, non mi hai messo giù Ray..”. Una scena di grande intensità su cui c’era qualcosa da dire, anche perché il “ragionamento” di La Motta (splendidamente interpretato da De Niro) è da una parte davvero poco ragionevole (forse sarebbe stato meglio farsi atterrare qualche volta, almeno per riprendere fiato) dall’altra è intrinseca alla boxe stessa che vede la caduta come la morte definitiva;

2) G.K.Chesterton ha riflettuto spesso sul tema della caduta. Ecco una frase che mi ha sempre colpito: «L’uomo stesso è una contraddizione: è una animale la cui superiorità sugli animali sta nel fatto che è caduto» (da La sfera e la croce). Le due cose qui riportate sono collegate: Alì è stato il più grande campione della boxe perchè è stato più volte atterrato (e soprattutto, come Steve Jobs, nel pieno del suo successo gli è stato tolto tutto – l’episodio del Viet-Nam e della condanna) e ha imparato a convivere con le sue cadute. La sua superiorità su grandi boxeur come Foreman (mai atterrato) e come Frazier (che si rialza non appena tocca terra per il sacro orrore che la terra gli trasmette, un po’ come La Motta) sta nel fatto che è caduto.

Poi c’era un’altra lunga riflessione sul tema della Caduta, una “condizione” che rivela nel profondo la verità della natura umana. Ho letto in merito due testi brevi (Auster e Tolkien) e non ho letto un terzo testo, mio, un po’ più lungo, eccoli qua tutti e tre:

a) da La città di vetro, di Paul Auster
«Il solo compito di Adamo nell’Eden era stato quello di inventare il linguaggio, di dare ad ogni cosa e ad ogni creatura il suo nome. In quella condizione di innocenza, la sua lingua era andata dritta all’essenza del mondo. Le sue parole non erano state solamente apposte alle cose che vedeva, ma ne avevano rivelato la natura, le avevano letteralmente portate alla luce. Una cosa e il suo nome erano intercambiabili. Ma dopo la caduta non fu più così. I nomi divennero cose distaccate; le parole regredirono fino a diventare un insieme di simboli arbitrari;  il linguaggio era stato amputato da Dio. La storia dell’Eden, quindi, narra non solo della caduta dell’uomo ma anche della caduta del linguaggio».

b) da una lettera di Tolkien al figlio Christopher (7 luglio 1944)

«A differenza dell’arte che si accontenta di creare nella mente un nuovo mondo, la tecnica cerca di realizzare i desideri, e così di creare potere in questo mondo; e questo non può in realtà essere fatto con qualche soddisfazione. Le macchine che risparmiano la fatica creano solamente fatica peggiore e senza fine. E in aggiunta a questa sostanziale incapacità di creare c’è la Caduta, che fa sì che i nostri aggeggi non solo falliscano i loro obiettivi, ma diano vita ad altre cose malefiche e orribili. Così inevitabilmente da Dedalo a Icaro arriviamo al bombardiere gigante. Non è certo un passo avanti sulla strada della saggezza!»

c) Lewis e Tolkien sulla Caduta
In altre lettere Tolkien sottolineò che il suo libro parlava essenzialmente della Caduta. La perdita dell’innocenza e della perfezione a causa del peccato (e la conseguente nostalgia di quella perfezione perduta) sono i temi che si muovono sullo sfondo di tutte le opere tolkieniane, e lewisiane. Questo stesso tema infatti lo ritroviamo “sottotraccia” anche nella fantascienza e nella fantasy lewisiana. In Narnia la terribile regina Jadis è in realtà Lilyth, “sorella di Eva”, a cui George MacDonald aveva dedicato un intero romanzo come si è visto nel primo capitolo.

Nella trilogia fantascientifica i pianeti diversi dalla terra appaiono come immacolati, in una situazione edenica, eppure non è esattamente così, visto che la morte è presente anche lì e la presenza, ineluttabile, del mistero della morte, è per Tolkien come per Lewis, all’origine stessa della poesia, dei canti. Potrebbero essere molte le pagine esemplificative di quest’affermazione, ma forse la più efficace è questa tratta sempre da Lontano dal pianeta silenzioso in cui Hyoi, il hross amico di Ransom, spiega all’umano il fatto che nel suo “paradisiaco” pianeta ci sia anche la presenza Hnau (cioè di esseri viventi) mostruosi, tra cui, per esempio, il Hnakra, ferocissimo serpente acquatico che caccia e viene cacciato continuamente dai Hrossa:

«Io desidero ardentemente ucciderlo, come lui desidera ardentemente uccidere me. Spero che la mia barca sarà in testa a tutte, e spero di essere io il primo a scagliare la lancia in quelle nere fauci. Se mi ucciderà, la mia gente mi piangerà e i miei fratelli desidereranno ucciderlo più che mai. Ma né io né loro vorremmo che i hneraki non esistessero. Come posso farti capire se non capisci neanche i poeti? Il Hnakra è nostro nemico ma ci è anche caro. Sentiamo nei nostri cuori la gioia con cui si affaccia alla montagna d’acqua su a Nord, dove è nato; con lui saltiamo nelle cascate; con i suoi occhi guardiamo l’inverno che si avvicina, il vapore del lago che si alza sopra le nostre teste… In casa appendiamo la sua immagine, perché il Hnakra è il simbolo dei Hrossa. In lui vive lo spirito della valle e i nostri piccoli giocano ai hneraki appena cominciano a sguazzare nell’acqua bassa.” “E lui li uccide?” “No, raramente. I hrossa sarebbero ben distorti se lo lasciassero avvicinare tanto. Lo scoviamo molto prima che arrivi fin quaggiù. No, Huomo, non è la morte di alcuni individui a rendere infelice un Hnau. Ciò che offuscherebbe il mondo è un Hnau distorto. E dico anche questo: non credo che la foresta sarebbe così splendida, l’acqua così calda e l’amore così dolce, se nel lago non ci fosse il pericolo in agguato»
(da Lontano dal pianeta silenzioso, p.96)

E’ la morte, l’imperfezione, che dona bellezza alla vita. Il “sapore” delle cose umane è la malinconia, la consapevolezza della propria fragilità. «Siamo nati in un periodo buio» scrive Tolkien al figlio Christopher, «ma c’è una consolazione: se fosse altrimenti non conosceremmo, e non ameremmo tanto, quello che amiamo. Immagino che il pesce tirato fuori dall’acqua sia l’unico pesce ad avere un vago sentore di cosa sia l’acqua»
(da La realtà in trasparenza, p.75).

Per finire: se è vero che l’uomo, naturaliter, cade, è anche vero che la caduta fa anche ridere e molto. Ho quindi mostrato una prima scena senza caduta vera e propria (da L’ultima follia di Mel Brooks) in cui l’effetto comico scaturisce dall’assenza di equilibrio stabile che porta sul ciglio della caduta. Ho dovuto saltare per motivi di tempo due sequenze da due film di Blake Edwards maestro del cinema “catastrofico” dove le cadute avvengono praticamente in ogni scena e sono andato subito al finale: la fragorosa e impietosa caduta dalla sedia di Melvin Douglas in Ninotchcka di Ernst Lubitsch che fa scoppiare in una risata altrettanto fragorosa e liberatoria la durissima Greta Garbo, fino ad allora impassibile e imperturbabile di fronte ai tentativi del suo interlocutore di farla ridere… ma di questo se ne parlerà alla prossima officina!

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