Nelly Sachs, la farfalla e la Shoah
Un’anziana signora, fragile e minuta – acconciatura ordinata, vestito lineare, collana di pietre – compare tra gentleman in frac e principesse da favola, accompagnata da squilli di tromba. Non parla, ha uno sguardo profondo. Il suo ultimo ricovero in clinica è stato lungo. Sorride smarrita, incredula. Come chi si risveglia in una fiaba inspiegabilmente divenuta reale. Appare così Leonie “Nelly” Sachs nella videoripresa dell’assegnazione del Nobel alla Concert Hall di Stoccolma, il 10 dicembre 1966. Nel suo brevissimo discorso rievoca l’amica Selma Lagerlöf grazie alla quale, ventisei anni prima, la poetessa e la madre erano potute sfuggire dalla Germania nazista trovando rifugio in Svezia.
L’assassinio del suo unico grande amore, la prematura scomparsa del padre, lo choc delle persecuzioni razziali, lo sterminio del suo popolo, la lunga agonia della madre: tutto concorre a minare il mondo interiore di Nelly, costringendola a ricorrenti periodi di cura presso strutture psichiatriche. Ciò nonostante, i suoi versi hanno sfidato la Shoah. Nelly Sachs è una delle tante voci femminili che, interpellate dalla violenza, hanno deciso di rifiutarne ogni oncia pur di non essere infettate dall’odio virale dei persecutori, il rischio che J.L. Borges tratteggerà nel finale di Deutsches Requiem. Lo studio della Qabalah e dei testi di Jakob Böhme imprimeranno infine alla sua produzione poetica (Poesie, Einaudi 2006) un singolare afflato mistico. Al centro l’esperienza dello scarto linguistico che vive il superstite, la cui voce è stata vagliata col fuoco: nelle sue ossa «la morte ha già intagliato i suoi flauti», la sua parola non è più quella priva di speso specifico di tante esistenze quotidiane. Il sopravvissuto è ineluttabilmente chiamato alla profezia, messaggero-testimone costretto (chiamato?) a ospitare nella propria voce quella degli scomparsi: «Se i profeti irrompessero / per le porte della notte, / incidendo ferite di parole / nei campi della consuetudine / … / Se i profeti irrompessero / per le porte della notte / e cercassero un orecchio come patria – // Orecchio degli uomini / ostruito d’ortica / sapresti ascoltare?».
A essere posto in questione non è quindi l’enigma della sofferenza, ma l’incomprensione, l’indifferenza, l’incapacità umana di prestare attenzione e accoglienza a parole vere, distinguendole dalla massa di “ortiche”, cioè il chiacchiericcio infestante che ieri come oggi prolifera selvaggio. Occorre una disposizione nuova, profonda, capace di riconoscere nel dolore il «rifugio alla luce». L’ascolto – l’orecchio che si fa patria – è l’unica responsabilità che il testimone, sradicato dalla storia e ormai ridotto a voce senza radici, ci prega di assumere. Se il linguaggio non è condannato al silenzio, ma da esso redento, l’alfabeto («angelo di lettere») viene ricondotto alla sua dignità originaria proprio attraverso le umiliate voci dei sopravvissuti, che in quanto testimoni sono – etimologicamente – martiri della parola. «Se la voce dei profeti / soffiasse / nei flauti-ossa dei bambini uccisi, / espirasse / l’aria bruciata da grida di martirio – / se costruisse un ponte / con gli spenti sospiri dei vecchi – // Orecchio degli uomini / attento alle piccolezze, / sapresti ascoltare?».
Solo il superstite è legittimato a infrangere l’ammutolimento di Dio dopo Auschwitz, solo lui può essere testimone credibile di quel tacere dal quale «il Suo Nome / irruppe come un falco dalla morte». Chi può credere, infatti, che il dolore conduca altrove dal dolore? Nessuno s’imbarca volontariamente verso il naufragio. Solo il sopravvissuto può dire una parola contraria. Per lui solo si apre – sospeso sull’abisso del non-senso – la possibilità di una singolare alchimia: «Invece della patria / stringo le metamorfosi del mondo» (Fuga e metamorfosi). “Metamorfosi”, ecco il motore segreto della lirica di Nelly Sachs. Nei suoi versi compaiono un numero di costellazioni simboliche limitato ma vigorosamente polivalenti, capaci d’impennate improvvise e ribaltamenti totali. Così nel caso della triade “polvere-sabbia-cenere” (dalla creazione di Adamo, all’esodo biblico, ai forni nazisti; e viceversa), dell’immagine “ferita-dolore” (squarcio ma anche apertura: «l’ignoto entra dove c’è una ferita»), “addio-nostalgia” (partenza, abbandono, ma allo stesso tempo arrivo, ritorno: «L’invisibile aquila / lacera la sua preda / la riporta a casa»). Una metamorfosi necessaria. La sola alternativa alla morte. Ecco allora l’inno alla farfalla, il più fragile degli esseri, «buona notte di tutte nelle creature»; e tuttavia «un altro mondo / è dipinto nella tua polvere», sulla sua mortale inconsistenza, poiché «tutti saremo trasformati» (1Cor 15,51-52).
È stato giustamente detto che proprio due poeti ebrei hanno infranto la condanna adorniana della poesia dopo Auschwitz: Paul Celan e Nelly Sachs. Nei versi di entrambi spiccano le metafore planetarie e soprattutto la stella, astro sprofondato nella gelida solitudine delle tenebre cosmiche, che per Nelly danno tuttavia luce alla Terra («mendicante della Galassia / che hai per cane il vento»). A lungo corrispondenti, morirono a distanza di un mese. Scriveva all’amica il poeta rumeno: «Penso a te, Nelly, sempre, pensiamo sempre a te e a ciò che vive grazie a te! Ricordi ancora quando abbiamo parlato di Dio per la seconda volta, a casa nostra, del tuo Dio, il Dio che ti attende, ricordi che c’era il riflesso dorato sulla tua parete? Sei tu, è la tua vicinanza, che permette di vedere il riflesso […] c’è bisogno di te ancora a lungo, c’è chi cerca il tuo sguardo» (Corrispondenze, Il nuovo Melangolo 1996). Nelly Sachs non ha chiuso porte. Non ha dato risposte. Solo interrogativi, ma domande radicalmente, scandalosamente nuove. Domande che nessuno potrà evadere in nostra vece. «Se i profeti si levassero / nella notte degli uomini / come amanti in cerca del cuore dell’amato, / notte degli uomini / avresti un cuore da donare?».
[articolo comparso su RomaSette, 13/02/2012]
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